VI.
Il domani Fulvia non cantava, ed io
accompagnai la giovane artista in casa Prandi a passarvi la serata. La società
era poco numerosa. Vittoria accolse la sua raccomandata colla solita
affabilità, e mi parve che si riuscissero simpatiche a vicenda. Ciarlarono
all'amichevole un po' di tutto; Fulvia saltando di palo in frasca, trattando le
cose con frivolezza mista d'un zinzino di sarcasmo, ed esprimendo certe idee
arrischiate che facevano restare gli ascoltanti a bocca aperta. La marchesa
seria, melanconica, ragionevole.
Io certo preferivo il nobile buon
senso della donna mia; ma così, da osservatore, notai che la conversazione di
Fulvia riusciva più piacevole.
La marchesa mi guardava col suo
occhio profondo pieno d'amore; i lunghi sguardi ch'ella mi volgeva tradivano la
più viva passione.
Io ne ero certo lusingato e felice;
ma non avrei voluto per nulla al mondo che Fulvia si accorgesse che io... cioè
che la marchesa aveva il cuore preoccupato. E però le ricordai che quando
volesse ritirarsi, ero a' suoi ordini.
Ella si trattenne sino alle dieci
soltanto. Mentre uscivamo. Vittoria mi strinse la mano e mi susurrò:
- Tornate?
Io le risposi con un cenno
affermativo; ma nella mia alta prudenza avevo già deciso che non tornerei.
Fulvia poteva aver concepito qualche sospetto, ed io sentivo di doverla
persuadere, pel decoro della donna mia, che il mio cuore... cioè che il cuore
di Vittoria era completamente libero. E però, rientrato con Fulvia all'Albergo
Milano, posai il cappello coll'aria tranquilla d'un uomo cui nulla fa premura,
deciso a trattenermi.
Vittoria avrebbe dovuto essermi
riconoscente di quel sacrifizio fatto al suo decoro.
La giovane mi guardò un momento con
meraviglia, quasi aspettando che mi congedassi. Io sedetti accanto alla sua
tavola, e mi posi a sfogliare un albo. Ella allora mi offerse un sigaro, e si
pose a sedere dall'altro lato del tavolino.
Per verità, benchè non ci mettessi
interessamento di sorta, il tempo mi passò veloce tenendo dietro alle matte
scorribande di quel cervellino per le vie più torte della fantasia.
Quel poco che sapeva del mondo lo
presentava in modo affatto nuovo; aveva il dono di sorprendere sempre. Quando
la lasciai erano le undici, e dovetti confessare a me stesso che uno spirito
elegante e sereno, per chi non avesse come me un'altra passione, può piacere
non meno che un'immaginazione vaporosa e sentimentale.
Certo, Giorgio Albani, col suo
cuore entusiasta correva pericolo di perdere la pace, frequentando quella
giovane. Compresi che, a preservare l'amico mio da una passione che potrebbe
costargli delle amarezze, era mio dovere condividere con lui la compagnia
dell'artista; e, quando uno di noi dovesse rimanere solo con lei, era meglio
che restassi io, che nel mio impegno con Vittoria aveva una salvaguardia.
Il giorno dopo cominciai,
coll'eroismo dell'amicizia, a passare tutte le mìe ore di libertà presso
Fulvia.
Giorgio era sempre con noi; veniva
insieme e partivamo insieme. Egli le lanciava sguardi appassionati; la
circondava d'ogni maniera di premure; e quando parlava con lei aveva persino
un'altra voce; trovava delle note profonde di petto che non avevo mai
conosciute nella sua scala vocale.
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