XVII.
A questo punto delle confidenze di
Fulvia, posai il manoscritto, e mi guardai intorno trasognato.
Era l'anima sincera di Fulvia che
traspariva in quelle confessioni, scevre egualmente di vanità e di falsa
verecondia. Era la sua ingenua abitudine di dire la verità ad ogni costo, senza
ostentare virtù trascendentali, riconoscendo i proprï torti; considerando le
cose nella loro realtà.
Sentivo che mi aveva aperto tutto
quanto il suo cuore, che non aveva più segreti per me.
Un sentimento nobile e puro, ed un
debito di riconoscenza. Ecco tutto il suo passato.
Ed il punto nero ch'io credevo
trovarvi?
Povera Fulvia! L'avevo commiserata
come una colpevole, ed era pura come un lembo di cielo. Povera, povera Fulvia!
Il sole irradiava la camera
avvolgendo gaiamente il mio letto in un'onda di calore e di luce. Il mio cuore
era lieto. Mi vestii canticchiando, e sorrisi al sole che rinasceva più bello e
più ardente dopo la oscurità della notte, come il mio amore dopo il gelo del
sospetto. Lo dissi: - io non so amare che a sbalzi.
Ma non potevo comprendere che
quella freddezza fosse stata solamente in me. Mi pareva che fossimo stati
moralmente disgiunti, ed ora ci riunissimo; sentivo il bisogno di essere
assicurato ch'ella mi amava ancora. Ella, che me l'aveva detto la sera innanzi,
ella che aveva scritto tutta la notte per me!
Balzai in piedi, mi vestii in
furia, uscii correndo, e non mi fermai che sulle scale dell'Albergo Milano,
dove tre camerieri m'inseguirono e m'arrestarono come un ladro, per dirmi:
- Il numero 17 è uscito!
Il numero 17 era Fulvia! Briganti!
Li respinsi come tre creditori, e ripresi a salire dicendo:
- Aspetterò la signora Zorra.
Ma anzichè comprendere la mia
lezione uno di essi staccò la chiave dal quadro, e mi precedette gridando a'
suoi compagni, a' suoi complici:
- Quando torna il numero 17 direte
che c'è gente in camera ad aspettarla.
Entrai ardito e solo in quella
camera, in quel santuario, dove il mio amore aveva bamboleggiato come un
fanciullo, sognato come un poeta, sperato come un credente, sofferto come un
martire.
Mi stesi nella poltrona di Fulvia,
e volli adattare la mia persona in quella specie di nicchia che serbava
l'impronta della sua. Ma la mia testa troneggiava fuor dalla sponda, e se volevo
abbassarla al posto della sua testa, le ginocchia protendevano un metro lontano
dal sedile. Pensavo al profeta Elia che per risuscitare i fanciulli morti si
stendeva sui loro corpicini, le mani sulle mani, i piedi sui piedi, la bocca
sulla bocca, ed invocai la fede che fa muovere i monti, per rinnovare quel
miracolo, e rannicchiarmi nell'impronta di Fulvia sulla sua poltrona. Ma la
fede non venne, nè il miracolo. Allora mi alzai, girai per la stanza esaminando
ogni cosa. Pensai a Saint-Preux nella stanza di Giulia. Sopra una sedia
nell'alcova erano alcuni oggetti di vestiario; alzai la cortina, stesi la mano
per rinnovare le follìe dell'amante della Nouvelle Héloïse. Ma in mezzo
alle tempeste della mia vita, in cui non mancano avventure, serbai sempre in me
qualche cosa di ingenuo, una specie di culto sentimentale dinanzi al pudore
d'una donna. E questo sentimento delicato mi fece ritirar la mano.
Indagare le forme d'una giovane
amata nelle pieghe del suo busto! Quel Saint-Preux era indiscreto e brutale.
E lasciai ricadere la cortina
dell'alcova, e tornai a sedermi nella poltrona di Fulvia, rassegnato ad
occuparvi maggior spazio di lei.
Poco dopo l'uscio si aperse ed
entrò Fulvia, che al vedermi, emise un Oh! de' più felici che sia mai
suonato tra labbra umane. Non aveva scontrato nessun cameriere, e la mia
presenza in casa sua le riesciva inaspettata.
Corse a me, e mi disse:
- Come sono felice di trovarvi qui.
Com'è bello! Peccato che non possiamo essere che amici. Eravamo fatti per
comprenderci. Queste spensieratezze mi piacciono tanto. Se Welfard avesse
saputo farmi una sola di queste sorprese... Ma egli avrebbe temuto di
compromettermi, avrebbe pensato a quel che direbbe la gente, ai commenti dei
servitori, poi avrebbe consultato il galateo, e non ne avrebbe fatto nulla.
Egli pensa a tutte le cose del mondo invece di pensare ad amarmi.
- Ed io non penso che a questo, le
risposi. E sono imprudente.
- O siatelo, esclamò, siatelo
sempre, Max. La prudenza è lo spegnitoio d'ogni slancio giovanile. Non mi parlate
di prudenza. Io l'abborrisco.
E non finiva d'ammirarmi per quella
grande impresa d'essere stato ad aspettarla in casa sua. Sotto l'impressione
del tedio e del disinganno che le avevano procurato le fredde circospezioni del
suo fidanzato, non vedeva nulla di più bello che un po' di audacia. A' suoi
occhi era un eroismo quella sfida lanciata alla società; ed ella pure si faceva
una gloria di esporsi francamente alle calunnie con apparenze accusatrici.
L'amore aveva tanto osservato,
compulsato, ragionato intorno a lei, che si era fatto uggioso come un vecchio
pedante; ed ella sentiva il bisogno di rimettergli la benda tradizionale, di
restituirgli le sue ali svolazzanti, la sua giovanile cecità. Era un errore,
povera donna; ma e l'altro? Tutti gli eccessi conducono all'errore.
Le domandai dov'era stata.
- Oh mio Dio; non mi ci fate
pensare Max. Sono stata all'agenzia a firmare la scrittura per Reggio di
Emilia. Parto domani.
Il mio amore, che si stava
addormentando dinanzi alla sua facile ammirazione, alla sicurezza del suo
affetto, si ridestò d'un tratto a quell'annuncio. Separarci, perderla, vedere
lo spazio frapporsi come ostacolo tra noi; tuttociò riponeva Fulvia nel novero
della aspirazioni, ne rifaceva un frutto proibito; e come tale sentii d'adorarla,
mi afflissi della sua partenza, cercai di oppormivi, di protrarla. Ed il suo
povero cuore di donna, già addolorato da quella separazione, si abbandonò al
suo dolore, e pianse. Io cercai di consolarla; ma le mie parole quanto più
erano affettuose, tanto più aumentavano la sua commozione, le sue lagrime. Ed
il suo pianto diveniva angoscioso e convulso.
Allora mi allontanai per lasciarla
calmarsi, ed andai a sedermi al pianoforte. C'erano due sgabelli rimasti dal
mattino quando forse si era suonato a quattro mani. Io mi sedetti dalla parte
dei bassi, e curvandomi con molto disagio suonai la sinfonia del Freyschütz;
poi l'aria del tenore nel primo atto: L'onda, il colle, il prato, il bosco.
I singulti di Fulvia s'erano allentati
man mano. Mi voltai. Ella stava guardandomi col mento appoggiato alle mani
incrociate; era accesa in volto ed aveva gli occhi gonfi. Mi baciai una mano
poi vi soffiai sopra per mandarle il bacio. Ella volle sorridermi, ma le
lagrime tornarono ad empirle gli occhi. Allora le dissi:
- Cantate, Fulvia; venite a
cantare.
Ella si alzò asciugandosi gli
occhi, e, con voce ancora piangente, mi disse, allontanando l'altro sgabello:
- Tiratevi in mezzo. Siete
seduto a quattro mani.
Io risi e mi divertii di quello
scherzo come del più felice motto di cui possa gloriarsi il Pompiere, e
riescii a far ridere anche Fulvia, che, come tutte le persone nervose, non era
mai tanto facile a ridere come quando aveva pianto.
Allora intuonai la grande aria di
Agata: Perchè non giunge il sonno. E Fulvia la cantò divinamente,
passando dal lagno increscioso alla dolcezza della preghiera, poi al terrore
passionato, alla supplichevole invocazione di pace, ed alla calma serena di
un'anima che ha pregato e spera. Ma quando fu alla stretta: O dolce mia
speranza, o dì beato, non volle assolutamente cantarla, disse che era
un'ironia, che quel giorno era troppo doloroso per lei, e dovetti rinunciarvi.
Stavo ancora seduto al pianoforte
quando venne recato a Fulvia un biglietto d'una signora a cui io stesso l'avevo
presentata, che la invitava a pranzare seco, ed aggiungeva che vi sarei
anch'io, perchè mi aveva scritto in proposito.
Riservandomi a ricevere quel
biglietto al mio ritorno a casa, insistetti presso Fulvia perchè accettasse, promettendole
di accompagnarla e poi ricondurla a casa e passare tutta la sera con lei, e
tutte le ore del domani.
Ella dunque accettò.
Poco dopo giunse Giorgio, e rimase
con noi sino all'ora del pranzo. Allora uscimmo insieme, e Giorgio ci
accompagnò sino in via Torino alla casa dove eravamo invitati.
Fulvia ci aveva domandato un
momento di libertà, di cui io avevo profittato per correre a casa a cangiar
abito, ed al mio ritorno l'avevo trovata in una elegante toletta verde cupo,
con un gran collare alla Medici ed un ramo d'edera nei capelli. Quella tinta
cupa s'adattava benissimo al suo colore olivastro e pallido; ed il collare
altissimo correggeva la linea un po' aspra del suo collo eccessivamente lungo.
Fulvia non era bella. Non so che
cos'avesse di attraente. Era forse il suo occhio innamorato o l'infinita
dolcezza che spirava da tutto il suo volto, e specialmente dalla sua bocca? O
era la sua voce bellissima, la seduzione possente del canto?
No; questo posso affermarlo;
l'ammiravo come artista, ma l'amavo come donna. Se non avesse cantato,
l'avrei amata egualmente, e chi sa? Forse l'avrei amata meglio.
Era il suo carattere leale fino
all'ingenuità, appassionato fino all'esaltazione; erano i suoi modi; era
l'originalità del suo spirito; e, più che tutto, era «amor, che a nullo amato
amar perdona» il quale mi faceva sentire l'influenza della simpatia che
inspiravo.
Tuttavia vestita così, Fulvia era
una bella signora; ed io ne fui glorioso ed innamorato; e mi sentivo tanto
felice d'amarla, e tanto afflitto di poterla amare soltanto idealmente sotto il
titolo di amica, che in quella casa di freddi conoscenti non trovavo parole per
sostenere la conversazione. Fulvia pure era preoccupata e non parlava che a
sbalzi, per dir qualche cosa di strano alla sua maniera, poi tornava ad
ammutolire per lungo intervallo.
Si discorreva di un padre di
famiglia ch'era morto improvvisamente in principio di carriera, lasciando la
moglie e due figli in gravi imbarazzi.
- Pover'uomo, esclamò Fulvia; «non
potrà sentire la Messa funebre di Verdi.»
I nostri ospiti erano una famiglia
di formalisti, dalle virtù e dai sentimenti di parata. Si guardarono l'un
l'altro inorriditi. Fulvia non se ne avvide. E ricadde nelle sue
preoccupazioni. Allora io volli parlare, scherzare, far dello spirito, per
divergere i pensieri di quei pedanti dalla parola avventata di Fulvia. E, per
eccitarmi ad un brio fittizio, mi diedi a bere un bicchiere sull'altro; e tosto
mi sentii animato fino all'esaltazione, ed accaparrai io solo tutta
l'attenzione della compagnia.
Io, del resto, conoscevo
perfettamente il cuore di Fulvia; e sapevo che lo scetticismo, che un abuso di
spirito le poneva sulle labbra, non era nel suo interno. Sul finire della
serata proposi una colletta a beneficio della famiglia del disgraziato che era
morto prima di sentire la Messa di Verdi, che stava per essere compiuta ed
eseguita a giorni.
La proposta fu accolta
freddissimamente dalla compagnia; ma io non mostrai d'accorgermene e raccolsi
le magre offerte in un portasigari giapponese. Quando se ne fece lo spoglio vi
si trovarono 520 lire. Un biglietto giallo, e venti lire in ispiccioli. Il
biglietto giallo attirò tutti gli sguardi. I convitati si conoscevano troppo
bene tra loro, per sospettarsi a vicenda capaci d'una simile prodigalità. Ma nessuno
neppure ne avrebbe creduta capace la spensierata giovane, che non aveva trovato
una parola sentimentale per quella sventura. Tutti gli occhi si volgevano verso
di me con una specie di commiserevole ammirazione quasi a dire:
- È generoso, ma è un capo scarico;
finirà male.
Io avevo veduto quella mattina
stessa in mano a Fulvia tre biglietti da L. 500 che aveva ricevuti
dall'impresario; - il primo quartale anticipato della sua modesta scrittura da
esordiente; - e sapevo bene da che parte venisse l'offerta sardanapalesca.
Lasciai che la convinzione della
mia generosità mettesse radice per bene in tutti gli spiriti, e poi traendo
lentamente il mio portafogli dissi:
- Manca ancora il mio obolo. E ne
tolsi 20 lire che posai magnificamente sul vassoio.
Allora vidi tutti i visi volgersi
più allungati che mai verso Fulvia, e sentii entrare in me la persuasione che
quella gente, non potendo più dirla senza cuore, la diceva senza testa.
Erano già le nove. Per toglierla a
quell'inquisizione malintenzionata proposi a Fulvia di ritirarsi; ed uscimmo.
Lungo la strada parlammo poco. Io
ero spossato dallo sforzo fatto per sostenere la conversazione. Ella pensava
alla sua partenza ed era triste.
Quando fummo a casa ci sedemmo come
al solito ai due lati della tavola. Ma il vino bevuto mi era salito al capo; e
senza esserne ancora precisamente esaltato, ne avevo le idee intorpidite e
l'occhio stanco. Non sapevo più parlare. Ogni volta che aprivo la bocca dicevo:
- Mi amate, Fulvia?
La prima volta mi rispose con espansione:
«Sì, mi amava, e malgrado che non potessi essere che un amico per lei, sentiva
che nessuno le era più caro di me, neppure Welfard.» E mi stringeva la mano, e
mi guardava quasi aspettando ch'io le dicessi parole altrettanto affettuose.
Io volli farlo, apersi la bocca e
dissi:
- Mi amate, Fulvia?
Questa volta ella mi rispose
soltanto:
- Perchè lo domandate? Non lo
sapete abbastanza?
Ed io pensai che infatti lo sapevo,
che ne ero certo; e che ero soltanto molto infelice del suo impegno con quel soldatino
di piombo, e della sua partenza. E volli esprimerle tutto ciò; e la fissai
languidamente e le dissi:
- Mi amate, Fulvia?
Ella mi guardò meravigliata, e mi
strinse la mano senza rispondermi. Aveva ragione di non rispondermi. Ero
sciocco; non sapevo dir altro; cominciavo ad accorgermi d'essere monotono.
Pensai tante buone cose da dirle; sognai di seguirla a Reggio, di vederla
andare in iscena, e poi di proporle di fuggire con me in un piccolo casino
svizzero lontano lontano, che mi pareva di vedere, e che era fatto come una
pagoda chinese. E poi eravamo già fuggiti. Eravamo già là insieme nella pagoda,
seduti in terra colle gambe incrociate bevendo il thè, ed io le domandavo con
trasporto:
- Mi amate, Fulvia?
Ma anzichè udirmi rispondere
qualche dolce parola, sentii una mano irritata strapparmi la tazza di thè,
gettarmi fuori dalla pagoda, ed una voce ironica, senza note di petto, dirmi
all'orecchio:
- Destatevi. Come siete brutto
quando dormite!
Apersi gli occhi trasognato. Avevo
dormito come uno sciocco nella famosa poltrona di Fulvia. E quel ch'è peggio
avevo dormito brutto. Mi parve di vedere Giorgio danzare un valzer
vertiginoso nella camera; balzai in piedi spaventato, e questa volta non più
per divagazione d'ebbrezza, ma con profondo terrore domandai:
- Mi amate, Fulvia?
- No; mi rispose. Non vi amo più. Quest'orrenda
notizia vi dò. E voltandomi le spalle andò a sedersi al pianoforte e suonò
tutto quello che potè pescare di più tedesco nel suo repertorio musicale. La
tempesta di Rubinstein, il rondò dell'Oberon, il duetto del secondo atto del
Lohengrïn.
Per protezione speciale di santa
Cecilia non mi addormentai di nuovo. Stetti sopportando pazientemente quel
supplizio acustico, e poi andandole dietro la sedia e togliendole le mani dalla
tastiera le susurrai:
- Ora basta di germanizzare,
Fulvia. Siamo un poco italiani.
- No, mi rispose senza voltarsi.
Non vi amo più.
Io me le inginocchiai accanto per
poterla guardare negli occhi, e le dissi:
- Davvero? Ripetetelo.
- Sì, lo ripeto, non vi amo più.
Macbeth ha ucciso il sonno, ed il vostro sonno ha ucciso il mio amore.
- Che bisticcio! esclamai figgendo
sempre più i miei occhi ne' suoi e tenendole strette le mani. Siate sincera,
Fulvia. Non fate dello spirito, non fate eccentricità. Siate un poco voi stessa.
È vero che non mi amate più? Che una posa inelegante nel sonno ha potuto
distruggere tutto il vostro amore? Dite, Fulvia, non mi amate più?
Ella arrossì, abbassò gli occhi e
rispose:
- È vile, ma lo confesso. Vi amo
ancora, malgrado tutto.
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