XIX.
GIORNALE DI FULVIA.
«La mia partenza da Milano m'aveva
addolorata meno ch'io non m'aspettassi. La speranza, la grande consolatrice, la
grande menzognera, mi faceva prevedere giorni più belli. Massimo sarebbe venuto
a Reggio; l'avrei veduto solo, misteriosamente; non l'avrei presentato a
nessuno dei nuovi conoscenti che la mia vita artistica m'avrebbe imposti; e di
codesti avrei procurato di accoglierne il meno possibile, e soltanto in teatro;
e l'accesso alla mia casa l'avrei riservato a lui, a lui solo.
«Così, staccandomi da lui, e dalle
care memorie di quel breve passato, io non volgevo lo sguardo indietro, ma
innanzi a me; non correvo lontano da lui, ma incontro a lui, e mi pareva che il
fischio della macchina irridesse alla società che mi compiangeva, o godeva
forse di vedermi infelice pel termine d'una passione esaurita, mentre io,
felice e pura, vedevo azzurreggiare all'orizzonte le dolcezze d'un sentimento
caldo ed inebriante come l'amore, casto come l'amicizia.
«L'idea di scindere il mio impegno
con Gualfardo, nè di fargli il menomo torto, non entrava nel mio cuore. E se la
mia coscienza delicata mi rimproverava di sentire troppo vivamente la
superiorità di Max, di pensare con troppa dolcezza con che impeto egli mi
amava, e con che nobile slancio mi aveva offerto di farmi sua, tosto mi trovavo
giustificata dal pensiero di aver respinto quella proposta che era per me tutto
un avvenire di felicità. Avevo fatto il mio dovere; che si poteva pretendere di
più?
«Giunsi a Reggio a tarda sera. La mattina
seguente, appena alzata, mandai a prevenire l'impresario del mio arrivo. Alle
undici egli arrivava da me. Dovevo andar in iscena fra sei giorni. Concertammo
tutto per le prove al pianoforte e le prove d'orchestra, ed a misura ch'egli mi
fissava le ore che dovevo consacrare al teatro, io compulsavo quante me ne
rimarrebbero da dedicare a Max.
«Quando l'impresario mi lasciò,
l'omnibus dell'albergo usciva dal cortile per andar a prendere i viaggiatori
allo scalo. Mancavano cinque minuti all'arrivo del traino. Rimasi alla finestra
da cui non vedevo che il cortile, ed alcuni staffieri che pulivano delle
carrozze. Il cuore mi batteva così forte, che sentivo di comprimerlo stando
appoggiata al davanzale; e pensavo come mai quegli staffieri potessero occuparsi
di quelle carrozze, e quei forestieri, che vedevo per entro la finestra della
sala terrena, potessero mangiare tranquillamente, col cuore sussultante a quel
modo. Mi pareva che tutti i cuori dovessero sussultare.
«Finalmente udii ruotare una
carrozza in lontananza.
«È l'omnibus, pensai. E corsi alla
porta, e scesi una scala a precipizio. Al primo piano scontrai un cameriere che
mi guardò meravigliato perchè non avevo cappello. Poi, come risovvenendosi
d'una causa che avrebbe potuto farmi scendere così, mi chiese:
«- Scende a colazione? La sala è a
pian terreno, a destra.
«Io arrossii di quella mia
espansione come d'una volgarità; tanto le convenienze finiscono per imporsi
anche agli animi più appassionati.
«Rimasi un momento immobile senza poter
profferire una parola. Sentivo il veicolo passare dinanzi alla porta
dell'albergo, e tirar via senza fermarsi; non era l'omnibus. Il cameriere tornò
a dire:
«- Desidera scendere a colazione?
«Dovevo pur giustificare quella
corsa precipitosa giù dalle scale. Mi rassegnai e scesi in sala da pranzo. Di
là non vedevo in corte. Udii entrar l'omnibus, senza poter guardare chi ci
fosse. Il servizio delle tavole fu rallentato un momento; segno che i camerieri
erano occupati fuori a ricevere i forestieri. Dunque c'erano dei forestieri.
Chi sa?
«Quando venne il cameriere
domandai:
«- È giunta la posta? Non osavo
prendere l'argomento di fronte.
«- Sissignora; è giunta, ma per lei
non c'è nulla.
«Il cuore mi battè più forte. Non
aveva scritto; doveva esser venuto.
«- Nessuno ha domandato di me?
chiesi guardando nel mio piatto.
«- Nessuno, signora.
«Non mi restava altro da domandare.
Eppure Max avrebbe dovuto cercare di me appena giunto: accertarsi se ero là, in
quell'albergo. Ma no; lo sapeva. Eravamo d'accordo di trovarci là, all'Hôtel
Royal, egli stesso me ne aveva dato l'indirizzo.
«Forse aveva voluto rassettarsi un
poco.
«Farà toletta, poi verrà a vedermi
in camera.
«E dietro questo pensiero sentii
una smania febbrile di trovarmi nella mia stanza.
«Il cameriere, che mi portava un
nuovo piatto, mi parve un cospiratore che macchinasse di trattenermi là con
quell'esca volgare per farmi perdere quell'occasione di riveder Max. Tagliai un
pezzo di gigot coll'aria d'un principe che sa di aver dinanzi una
vivanda avvelenata, lo posi sul mio piatto, e porsi il piatto stesso ad un
grosso gatto bigio, che mi rimproverava sordamente la mia ghiottoneria. Poi
alzandomi come una regina offesa che ha sventato una congiura, mi avviai alla
mia camera.
«La porta accanto alla mia era
aperta. E nella notte precedente e nella mattina, quella camera non era
abitata. Vi avevano dunque installato un forestiere giunto allora con quella
corsa mattinale. E mi pareva che da quell'apertura spalancata uscisse una luce
color di rosa; e sentivo che là dentro era la felicità. Dall'uscio della mia
stanza potevo veder entro la stanza vicina; ma l'imposta della porta aperta me
ne mascherava una parte. Non vedevo il letto.
«Fui lenta ad introdurre la chiave
ed a girarla nell'aprire il mio uscio, per spingere l'occhio indiscreto in
quella camera misteriosa. Non vi si vedeva alcuno; ma sopra una tavola accanto
al balcone stava un pastrano di mezza stagione, di panno bigio. Io conoscevo
quella tinta. Era il soprabito di Max. Dacchè lo conoscevo glielo avevo sempre
veduto sul braccio, sebbene non lo calzasse mai. Max era dunque venuto. Era là
accanto a me. Doveva essere nella parte della camera nascosta dalla porta. Mi
pareva vederlo. Feci un po' di rumore colla chiave della mia camera, ed
aspettai fingendo di non poter aprire. Ma nessun movimento si fece udire nella
stanza di Max.
«- S'è alzato prestissimo per
partire, ed appena giunto si sarà addormentato, dissi tra me. Conoscendo il suo
carattere irrequieto, le sue abitudini turbolente, non potevo spiegare altrimenti
quel silenzio nella sua camera. Lasciai il mio cuore, i miei pensieri, la mia
anima nella penombra misteriosa di quella porta, ed entrai finalmente nella mia
stanza.
«Non potei occuparmi di nulla. Per
me aspettare è sempre stata una così grande e laboriosa occupazione, che non mi
fu mai possibile di far qualche altra cosa mentre aspetto una persona o un
avvenimento importante. Sedetti sulla punta d'una sedia, nell'atto precario di
chi sta per slanciarsi incontro a qualcheduno, ed aspettai. Non potevo nemmeno
pensar nulla. Sul camino stava un orologiaccio di bronzo dorato, tutto giallo e
lucido che pungeva gli occhi; ed io seguivo affannosamente il battito del suo
pendolo col pensiero, ripetendo senza posa «verrà, non verrà; verrà, non verrà,
ecc.» Il pendolo diceva quelle parole ed il mio pensiero era forzato a
ripeterle meccanicamente come se fosse montato col pendolo. Mezz'ora dopo stavo
ancora nella stessa posizione; ma mi sarebbe stato impossibile di udire
qualsiasi rumore nella stanza vicina, tanto mi fischiavano gli orecchi, e mi
assordava il sussultar violento del mio cuore, ripercosso alla laringe ed alle
tempia. Non potevo più tollerare quell'incertezza. Pensai di mettermi a suonar
il pianoforte ed a vocalizzare per isvegliare Max. Ma le mani mi tremavano
convulse, e la voce poi! M'attaccai al cordone del campanello, e suonai come se
avesse preso fuoco alla stanza. Non avevo che questo pensiero: svegliarlo!
Così quando un servo ed una cameriera accorsero spaventati per vedere che cosa
accadesse, fui sul punto di gridare: È svegliato? Per buona sorte l'abitudine
della società ci muta la natura e ci governa. Non lo feci, sebbene non potessi
rendermi conto razionalmente di quel doveroso riserbo. Feci più: quei volti
spaventati mi avvertirono della violenza con cui avevo chiamato, e l'istinto di
coprire il mio sentimento mi suggerì questa parola:
«- Un sorcio! ho veduto un sorcio!
«La cosa mi giustificava
completamente. Nessun codice a questo mondo può esigere che una donna conservi
il suo sangue freddo dinanzi a un sorcio. La cameriera, meno riguardosa di me,
perdette ogni contegno al solo nome dell'inoffensivo animale e si pose a
strillare come una pazza. Tutti i forestieri si affacciarono alle loro porte,
tutti si diedero a cercare eroicamente quel sorcio di fantasia. Anche il nuovo
arrivato dal pastrano bigio uscì nel corridoio. Non era Max.
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