XXVI.
«Non vidi più Giorgio, non vidi più
alcuno fuori di Max. Egli mi lasciò, appena per qualche ora, al tempo del
pranzo. Poi tornò. Faceva un gran caldo. Aprimmo il balcone; ci sedemmo l'uno
accanto all'altro tenendoci per mano, e guardando, giù nella via, le signore
che andavano al teatro Manzoni a piedi ed a capo scoperto per pigliare il
fresco. Eravamo sereni ed ilari come due fanciulli. Io gli dissi:
«- Ecco, io non potrò mai andare a
teatro con voi. Eppure sarei tanto felice se lo potessi. Seduta in un palchetto
in faccia ad uno sposo amato, come si devono risentire tutte nell'anima le
situazioni passionate del dramma! Vi sono certe scene che non ho mai potuto
udire senza provare un gran desiderio di ripeterle con una persona amata.
«Allora egli volle che ne citassi
qualcuna; ma la mia memoria non me ne suggeriva; ero tutta assorta nella bella
scena reale che rappresentavamo noi due per noi soli. E gli risposi:
«- Suggeritemi voi, così vedrò se i
nostri pensieri si sono accordati prima di conoscerci.
«Ed egli a citarmi le cose più
strambe, passando dagli amori di Arlecchino e Colombina, alla tomba di
Giulietta; ricordando le situazioni più comiche, evitando a bello studio tutte
le scene di passione. E ridevamo come due scolari in vacanza. Io gli chiesi:
«- Che cosa fanno stasera al
Manzoni?
«- Non lo so, mi rispose; vado a
vedere.
«- Sì, poi mi racconterete la
commedia; e se non la sapete dovrete inventarla.
«- Accettato. Le scene di
sentimento le reciteremo a braccio.
«E scese a leggere il manifesto. Io
lo guardavo dalla finestra.
«La commedia annunciata era il Terenzio.
Egli risalì, felice che dovessimo parlare in versi martelliani. Io mi prestai
di buon grado alla scena tra Terenzio e Creusa, e da parte di Max, i versi di Goldoni
non furono peggiorati certo.
«Quando cominciò la gente ad uscir
dal teatro, gli dissi che lo spettacolo era finito, e che doveva ritirarsi. E
ci lasciammo stringendoci la mano. Giovani, liberi, innamorati, riuniti
misteriosamente, ci lasciammo con una stretta di mano, e fummo felici, «sotto
l'usbergo del sentirci puri.»
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