XXXV.
«- Se potessi ancora appassionarmi di
qualche cosa! Dare uno scopo alla mia vita!
«Non fu un'idea fuggevole, un
pretesto a cui mi fossi aggrappata per allontanarmi da quella casa piena di
dolorosi, di strazianti ricordi. Era un bisogno istintivo della mia anima, che
si rivelava istintivamente, dinanzi alla squallida prospettiva d'una vita
senz'affetti.
«Perchè realmente avevo ancora una
vita dinanzi a me. Ero giovane, ero forte; e le lunghe sofferenze morali non
avevano punto alterata la mia salute, non avevano forse neppure accorciata d'un
giorno la mia esistenza.
«Ero dimagrata, perchè, tutta
assorta ne' miei dolori, avevo respinto il cibo ed il sonno, avevo faticato
giorno e notte. Avevo il sistema nervoso eccitato, perchè mi ero lasciata
indebolire.
«Ma senza queste cause materiali e
dirette, c'era in me tanta robustezza da sopportare il dolore morale sotto
tutte le sue forme, da provarlo in tutta la sua intensità senza soccombere.
«Questo io lo sentivo con un senso
di vero sgomento. Sentivo in me tanta potenza di vita, e mi domandavo: «Che
farne?»
«La sera stessa mi misi al
pianoforte; passai una quantità di musica. Dalle più vaporose fantasie
nordiche, alle più soavi melodie italiane, andai cercando con ansia
un'emozione.
«E ne trovai; e piansi. Ma non
erano emozioni d'artista. Era l'aria prediletta dal povero babbo che mi
strappava le lagrime. Era uno spartito che mi aveva insegnato Gualfardo, che mi
rapiva in una serie di cari e dolorosi pensieri. Erano ancora quei due affetti,
ancora quelle due memorie del mio passato. Ma là dove quegli affetti non si
legavano pel vincolo misterioso d'una rimembranza, la musica mi lasciava
fredda.
«Prendevo un pezzo irto di
difficoltà musicali, cominciavo a cantarlo con tutte le finezze, con tutte le
sfumature d'una interpretazione intelligente, ma tosto pensavo che Gualfardo
non era più là per dirmi col suo volto impassibile: «Brava Fulvia!» e
respingevo la musica dicendo: «Oh! che m'importa?»
«Domandavo a Rossini, a Bellini, a
Verdi le loro melodie più appassionate. Cominciavo a cantarle con tutto lo slancio,
con tutta l'anima; ma pensavo che i cari occhi del babbo non erano più là per
empirsi di lagrime, e respingevo la musica dicendo: «Oh! che m'importa?»
«No. L'arte non bastava a riempiere
il vuoto del mio cuore. Sentivo il bisogno non solo d'amare, ma anche d'essere
amata.
«- Lo fui tanto! pensavo. Tre
grandi affetti erano concentrati su di me. Quello del babbo, di Gualfardo, di
Max...
«Max! Era la prima volta che il mio
pensiero si rivolgeva a lui dopo la mia grande sciagura. Oh come era lontano
omai dal mio cuore! Come la conoscenza di Welfard, in tutta la gloria del suo
nobile carattere, aveva cancellata l'impressione romanzesca di quell'amore
avventuroso.
«Rimasi assorta nel pensiero di
Max. Lo rivedevo in tutta la sua maschia bellezza, nell'espansiva impetuosità
del suo carattere, ne' suoi entusiasmi, nelle sue giovanili imprudenze. Era una
bella, splendida immagine, una cara memoria; ma non era più un'aspirazione.
Potevo ancora pensare:
«- Oh! se Gualfardo avesse quelle
qualità! - Ma non potevo amarle in un altro. Vedevo che Max era più
affascinante, più splendido all'apparenza; ma sentivo che Gualfardo valeva di
più; e lo collocavo più in alto, più in alto.
«Ma Gualfardo non mi amava più; mi
aveva abbandonata per sempre. Che potevo sperare da lui? Non ero stata io
stessa a respingerlo? E per amore di Max?
«Oh mio Dio! Che era mai avvenuto
di quella passione entusiasta che mi aveva indotta a sacrificare il nobile
fidanzato che da tanto tempo mi amava, per acquistare il diritto di amare Max?
«Ricordavo il mio trasporto di
quella sera fatale in cui avevo preso la risoluzione d'accettare la scrittura
per l'America, e di sciogliere il mio impegno con Welfard, per essere libera di
scriver follie in un epistolario sentimentale con Max.
«Stupido sogno da romanzo! Era
svanito prima che avessi finito la mia confessione a Gualfardo. Ed omai,
ripensando a quei due amori che s'erano disputato a lungo il mio cuore,
ripetevo con amarezza un verso altre volte citatomi da Massimo: Il ben ch'è
mio davvero, è il ben che sparve!
«Presi le lettere di Max, belle,
poetiche, eleganti, appassionate, strane, e mi posi a leggerle pensando:
«Se potessi amarlo ancora! Chi può
dire quanto possa sopra un cuore entusiasta l'ascendente dell'ingegno?
«Mentre ero assorta così, la mia serva
entrò in camera per portarmi il pranzo.
«Al vedermi allo scrittoio con
tante lettere intorno, si fermò alzando il capo ed aprendo la bocca nell'atto
di chi si ricorda improvvisamente d'una cosa; poi disse:
«- A proposito di lettere; ce ne sono
molte, che sono venute quando lei non aveva mente ad occuparsene. Vuole che
gliele porti?
«Pensai da quanto tempo non avevo
più scritto a Max; e che certo fra quelle lettere ce ne dovevano essere di sue;
ed accettai di vedere quella corrispondenza arretrata.
«Passai tutte quelle buste chiuse,
cercai sugli indirizzi la brutta scrittura di Max. C'era infatti una lettera
sua. Nell'aprirla tornavo a dire tra me: «Se potessi amarlo ancora!» e la mia
mano tremava. E le forme vaghe di vaghe speranze alate sembravano delinearsi
più e più nel vuoto infinito.
«Quell'epistola era abbastanza
breve perchè io possa riportarla qui per intero:
«Fulvia!
«Dicono che un uomo affetto da
spinite, quando è seduto, crede di poter camminare come chicchessia.
«Lo stesso è accaduto a me. Credevo
di poter ancora amare e mi sono ingannato. L'amore per me può essere tutt'al
più, come voi dicevate, un episodio tempestoso.
«Ho lungamente lottato fra la
ripugnanza ad ingannarvi, e la paura di darvi un dolore.
«Perdonatemi e compiangetemi! Darei
dieci anni della mia vita per sapervi felice.
«Spero per voi nel tempo, nella
lontananza, e più più ancora nell'effetto morale che la mia condotta deve fare
sul vostro animo.
«Perdonatemi!
«Max.»
«Ed io ammiravo la sua anima
appassionata! Bruciai ad una ad una quelle lettere belle, poetiche, eleganti,
passionate, strane; poi bruciai quell'ultima che era soltanto strana.
«E nel vuoto, le forme vaghe delle
vaghe speranze alate svanirono per sempre.
|