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Alberto Cantoni Un re umorista IntraText CT - Lettura del testo |
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L'etichettaUn mese di luna di miele, leggi un mese di ricevimenti in viaggio, di discorsi, di strette di mano, di apparizioni in pubblico per ringraziare il popolo plaudente. Quest'ultime sono le meno difficili, perché basta di inchinarsi un pochino, e sempre allo stesso modo, ora a destra ed ora a sinistra; la peggio è quando bisogna studiarsi per l'amor di Dio di mutare bene tutte le parole, per rispondere sempre sempre le medesime cose. Sono già diventato un mezzo vocabolario dei sinonimi, io, in un mese. Bisogna vedere che belle variazioni al nostro unico tema sa fare mia moglie, quando riceve le donne! Nessuno mi leva di mente che non ci abbia pensato anche prima di prender marito, e così avrei dovuto far io, se avessi badato a mio padre che me lo diceva sempre, e se il vento dei tempi nuovi non mi avesse rinfrescato bene, fin da quando ho avuto uso di ragione. Mi ha rinfrescato, è vero, perché so pur troppo che la mia dovrà essere una lotta per l'esistenza come qualunque altra, ma ciò non significa punto che m'abbia convertito, intendiamoci. Io non ho chiesto di nascere dove son nato, dunque, se Dio mi ci ha messo, deve aver avuto le sue ragioni, e in ogni modo mi pare assai improbabile che io non abbia a poter fare un po' più di bene qui dove son nato, che non altrove in balìa del vento. Ne viene di conseguenza che sento sì, e ben profondamente, quello che vi ha di tedioso, di molesto, di seccagginoso così nel cerimoniale preso all'ingrosso, come in tutte le più piccole stiracchiature dell'etichetta prese al minuto, e che ciò non ostante nessuno sia più persuaso di me della suprema convenienza di tenerli ben ritti entrambi, per vecchi arnesi che sieno. Ho ad essere il primo custode dell'autorità per nulla? Ci tengo alla etichetta, lo torno a dire senza vergognarmene, e però bisogna bene che ne digerisca tutti gli effetti. Il peggiore dei quali è l'osservare, come faccio, continuamente, che le brave persone, nel ritrovarsi meco, fanno ogni sforzo per parere da meno di quel che sono, e i dappoco per parere da più. Si potrebbe giurare che gli uni e gli altri si sieno fatta una eguale e molto mezzana idea della persona mia, e che tutti si studino, chi crescendo e chi calando, di accostarsele più che possono, come se fosse un tipo ideale di aurea mediocrità. Diamine! — par che dicano i primi — se il re probabilmente non ci arriva, ho a fargli vedere che ci arrivo io? O viceversa i dappoco: c'è arrivato il re? Bisogna bene che ci arrivi anch'io! Resta però a sapere se qualche volta io non vada più innanzi di quel che ritengono le brave persone, quando si tirano indietro, e se gli altri non isbaglino alla loro volta quando suppongono che io sia di già arrivato coll'ultimo treno, insieme con essi. Non è mica facile di vedere le cose dal punto di vista degli imbecilli. Eravamo circa a metà viaggio quando una sera mi presi mia moglie sotto braccio per fare tranquillamente due passi in un gran salone, e le domandai scherzando: — Dite un po', Maestà. Se il prefetto e la prefettessa di questa mattina diventassero noi due, e viceversa, credete voi che si starebbe ad ascoltarli colla bocca così aperta come stanno essi, quando parliamo noi? — Perché no? Solamente che si avesse coscienza del nostro dovere! — E che sgraneremmo tanto d'occhi verso le loro labbra, come se ne piovessero perle inestimabili? — Precisamente. — Ma pure io medesimo ne ho detto una così grossa questa mattina, che non passava da quella finestra. Ho preso abbaglio da una provincia all'altra, nel parlarne un po' a caso col prefetto. — No, di dire quello che piaceva alla Maestà Vostra. — E voi medesima avete parlato di certe scuole, per le giovinette come di cosa governativa. Vi ho pure suggerito, e subito, che erano comunali. — Era il diritto mio. Errare è da donna; persistere nell'errore, almeno con la medesima prefettessa, è da regina. Qui ho sorriso un poco, ma ho visto anche la necessità di parlare assai più piano di prima. E dissi: — Hai sbagliato di sei secoli, amica mia. C'è troppo granito sotto il tuo scherzo. Dovevi sposare Luigi XI. — No davvero. Sei tu che avresti dovuto aspettare un altro 89. Non questo primo che è ancora acerbo: quell'altro. — Perché? — Perché l'etichetta va presa tal quale come una medicina. Più è amara, più giova. — Bella questa! Trovi amaro tu il beneplacito degli spropositi? — Amaro sì, ma giova. Soprattutto quando mi aiuta a non rilevare soverchiamente quello che vi è di insidioso nelle cose comunali: la vecchia piaga di tutti i troni, dal 1000 in poi. Se Robespierre è nato più volte, come credo, deve essere stato lui a principiar di là. — Ma se il comune l'avrà vinta, quando che sia, ci sarà pur sempre qualcuno che ascolterà a bocca aperta i gonfalonieri ed i borgomastri!... — Pur troppo. E sarà merito di quelle Maestà Loro che avranno ammesso, anche in apparenza, di poter sbagliare. Questo discorso è finito così, e s'è ripetuto a un di presso questa mattina per qualche cosa dello stesso genere. Ebbene, no! Mille volte no! Fin là non ci arrivo e non ci arriverò mai. Sono uomo e non consentirò a nessuno, nemmeno a mia moglie, di togliermi il diritto di riconoscere i miei errori. Se oramai l'etichetta non può più reggermi il trono che a questo prezzo, se lo prendano. Non me ne importa nulla né per me né per i figli miei. |
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