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Alberto Cantoni
Un re umorista

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  • Il ballo «Flamenco»
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Il ballo «Flamenco»

Sono passati altri otto giorni e scrivo ancora, non già perché abbia cosa di qualche importanza da dire, ma così, per distrarmi un po', non essendo ancora ritornato come vorrei. Ho un bel guardare il vaso e pensare fra di me che l'ho scampata bella, ma se l'occhiello, invece di essere alle reni, fosse più su e non si vedesse? Basta, l'aveva presa così male quella sera alla finestra, che quasi quasi mi aspettava peggio.

Rileggo le ultime righe del paragrafo precedente, e sono persuasissimo che qualcuno mi darà del pessimista sentimentale. Non credo di meritare la prima taccia, e meno che mai la prima e la seconda insieme. S'è pessimisti perché, quando si soffre, si vede più nero del solito? S'è sentimentali perché, quando s'è costretti a vedere più nero del solito, si cerca un rifugio in un affetto nuovo, sia pure assurdo, sia pure quasi ridicolo? Vero pessimista è chi rintraccia freddamente il male per tutto, anche dove alla prima non gli riesce di trovarlo, e vero pessimista sentimentale è chi, trovatolo, ci si adagia sopra mollemente, come se fosse un letto di rose, per avere il gusto di gabellare come mal di tutti un male che forse è solamente suo, e per poter dire che s'intenerisce anche per gli altri, mentre il più delle volte non piagne che per sé. Li ho cercati io i miei mali attuali? E perché essi hanno trovato me e mi dolgono, non potrò dirlo senza passare per pessimista? Non potrò deplorare che ne capitino a tutti, e spesso, e volentieri, senza passare per sentimentale? Va bene abusare delle frasi in voga, ma con un certo limite!

 

Basta. Parliamo piuttosto del ballo «flamenco».

Ho qui a duecento metri dalla corte una specie di café chantant, dove certe ballerine spagnuole hanno fatto girar la testa a mezza la città. I più giovani uffiziali del mio stato maggiore me ne parlarono tante volte con così puro ed ingenuo entusiasmo, che mi venne voglia di vederle anch'io, tanto per tirarmi un po' su e per provarle tutte. Ma come fare? Va bene essere liberali finché volete, ma egualmente io non posso, non debbo metter piede in un café chantant. Le ho fatte condurre stamane in un mio piccolo castello di campagna, ho invitato a venir meco i loro suddetti ammiratori, e ho dovuto escogitare una moltitudine di pretesti per tenere alla larga il presidente e il guardasigilli, i quali avrebbero battuto moneta falsa per poter essere della partita. Che vergogna! Alla loro età.

Il teatrino era stato preparato bene nella sala d'armi, e la luce vi pioveva sopra con lodevolissima industria. Meglio sarebbe stato di notte, s'intende, ma con che core avrei potuto rubare una serata alle bocche aperte ed agli occhi sgranati dei miei... solazzevoli cittadini?

Sono ballerine che sanno cantare, e principiarono con certe nenie prettamente moresche, e però di gusto affatto malinconico ed orientale, molto somiglianti a quelle che si costumano ancora nelle sinagoghe dove si canta all'antica, e dove usano di benedirmi tutti i sabati, con mediocre effetto. Ogni cantatrice veniva a sedere accanto all'accompagnatore, e dava fuori la sua cantilena guardando immobilmente innanzi a sé, come ad un punto lontanissimo dell'orizzonte, colla espressione del viso, più che mesta, severa, e soprattutto colle orecchie intente, come se non facesse che rendere, colla propria voce ed a guisa di eco, la voce di un canto assai remoto, oppure come se le sue non fossero che risposte ad una continua invocazione venutale di lontano, sull'ali del vento. L'accompagnatore — un bel tipo di andaluso con due di quegli occhietti vispi, furbi, taglienti, che s'ha un bel cercare fuori di Spagnatoccava la chitarra con una perfezione di colorito veramente mirabile, ma soltanto ad accenni, a lamenti, e qualche rara volta a scatti, di altrettanto più efficaci quanto più improvvisi ed impetuosi. Come avrebbero dormito bene i miei ragazzi, uno di qua e uno di sulle mie coste, se li avessi presi meco ad udire quella musica e quegli accordi, salvo a risvegliarsi di soprassalto ad ogni scatto della chitarra! Ma io non dormiva davvero, e quella gran mestizia di nenie, quella sapiente profusione di color locale, quegli stessi visi delle cantatrici, tutte dal tipo arabo, coi capelli crespi, cogli occhioni neri, con le ciglia vellutate per natura e per arte, tutto insomma quell'accozzo di canto, di suoni, di messa in scena, mi avevano quasi compunto. Davvero che non c'era nessun bisogno di imaginazione per figurare tosto nell'accompagnatore lo Spagnuolo trionfante, il quale forzasse le sue schiave — le vergini moresche — a piangere, cantando, la perduta Granata. E più la musica era flebile, più le altre donne, sedute in circolo d'intorno, rompevano ogni qual tratto la monotonia della troppo perfetta intonazione con delle piccole grida improvvise, ora come di spasimo selvaggio, ora come di irruente e subitanea incitazione. Che doloroso contrasto!

Io non rinveniva in me dalla sorpresa. È qui che son venuto per tirarmi su? — pensava. — È per tutto questo che si sono riscaldati i miei ufficialetti? Ma l'hanno capita, essi, l'alta poesia di questa rappresentazione?

Poi venne il ballo. L'accompagnatore non ebbe altro a fare che tirarsi indietro due passi colla sua sedia e di dar posto alle ballerine, cioè alle medesime donne di prima, che vennero avanti a ballare, prima una a una, poi due a due, e tutte col pañuelo avvolto graziosamente ad armacollo, su per l'omero da una parte, giù dall'altra sotto l'ascella, per lasciare più libere le braccia.

Ho detto ballare? Non si può veramente dire che non si muovessero affatto, ma pure il movimento dei piedi era tanto parsimonioso, che appena appena poteva servire per segnare il tempo, come il suono della chitarra. Più che ad ogni altra cosa le danzatrici ponevano mente dapprincipio a disegnare di continuo le forme del corpo, con tutti gli attucci ed i vezzi voluttuosi che potevano farne spiccare la grazia infinita. Andassero adagio di qua o di , ovvero due passi più avanti e due più indietro, le loro braccia e le loro mani, gentilissimamente piegate, salivano e scendevano sempre, come in atto di delineare una specie di anfora ideale, non saprei se più leggiadra o più corretta. Ma pure il moto lentissimo dei fianchi aveva delle ondulazioni così molli e così tortuose, che avrebbe bastato a turbare i sonni d'un eremita, e che principiò, da sé solo, a chiarirmi gli entusiasmi degli ufficialetti.

Fin qui la parte graziosa dello spettacolo; poi venne quella drammatica. Tutte le donne parvero mutarsi di punto in bianco in altre donne. Non più disegno di forme elettissime, non più anfore fantastiche e diafane accennate nell'aria, non più voluttuosi ondeggiamenti. Come se ognuna di esse fosse stata invasa, tutto ad un tratto, dal foco sacro della mimica tragica, si diedero a raccontare, pestando a forza co' piedi in terra, certe loro storie paurose o feroci, come d'ira, o di sangue, o di agguato, o di vendetta, rialzando ogni cosa ora con delle occhiate lunghe, torve, insidiosissime, ora con un turbinio di giri e rigiri intorno a sé medesime, sempre pestando i piedi, ovvero ponendosi le mani al capo come disperate. Pareva che dicessero man mano: «Ora ci sei. Ora ti uccido. Ora sei morto, e ti pesto, e ti ballo sopra, ma t'amo ancora, e maledetta me!».

Così avrebbe dovuto spiegarsi Katie, se avesse voluto che capissi bene. Anche morto.

Ma ciò che mi fece più impressione, in questa seconda parte del ballo, fu la cura continua delle danzatrici di non dare mai il più lieve segno di fatica, nemmeno in quei pochi istanti in cui il loro programma le costringeva ad una relativa immobilità. A malgrado dei movimenti rapidissimi, delle pestate di piede, della ridda intorno a sé stessa, mai che nessuna lasciasse scorgere, finché era in campo, di respirare a pezzi ed a bocconi come avrebbe dovuto, anzi l'anelito, studiosamente frenato, pareva quasi soppresso, come se si avessero innanzi delle apparizioni, non delle donne. La peggio è che a compito finito si abbandonavano di bel nuovo a sedere al medesimo posto di prima, e allora addio, la natura umana riprendeva i suoi diritti, e si gettavano col capo sul dorso della sedia, ansando affannosamente come persone finite. Non capisco davvero come mai, per serbare l'illusione, non abbiano preso l'abitudine di andarsi a rianimare fuori di scena, e meno ancora capisco in che modo questa seconda parte dello spettacolo possa figurare in un ballo «flamenco». Appunto dalle Fiandre deve essere venuta una furia simile? O che non sia forse per l'abitudine che hanno gli spagnuoli di chiamare «flamencos» gli zingari? Ma allora perché designare costoro appunto così?

Finito il dramma principiò la farsa.

Che i balli popolari di tutto il mondo non sieno mai stati contrassegnati dalla più esemplare decenza, è cosa molto ben risaputa da un pezzo, ma io sono qua per attestare che né la tarantella, né lo stesso «cancan» possono dare il più lontano sentore della... piacevolezza dei più famosi balli spagnuoli, che ci vennero poscia esibiti in bella schiera. Era la carne, anzi la carne grossa, che accorreva per ultima a rompere gli incantesimi della grazia, a sfatare le angoscie del dramma. Eppure che efficacia di rappresentazione in quel trionfo del... positivo! Ciò che prima era stato soltanto ondulazione di fianchi, si mutava ora, visto... retrorso, in moti procacissimi, quasi circolari; ciò che prima non era stato che grazia, ora, caricato, diventava la più insensata, la più flagrante bestialità. Non so davvero se quelle signore, per fare onore alla mia persona, ponessero maggiore amor proprio nel loro ministero, ma certamente posso dire che ho visto uno dei loro «paniers» roteare allegramente intorno come se fosse stato un paleo. Altro che vergini moresche!

O di dove è venuto e come si spiega tutto questo? La moda attuale non ne ha colpa di certo, perché è roba più vecchia dell'Alhambra. Bensì l'indole sensuale di tutto il popolo ci deve entrare per molta parte, e povero me se avessi avuto accanto la mia regale consorella di tutte le Castiglie! Gliene avrei dette di belle, nell'orecchio.

 

Basta, ora è acqua passata e non macina più. Cioè no, macina ancora, perché mi ha fatto più mal che bene. Quelle donne proteiformi, così graziose, così terribili, così dinoccolate; quell'eterno dramma della vita umana, espresso in un modo così primitivo, come per provarne la patente irremediabilità; quel furore... via, diciamolo pure, così scandaloso, e tutto in furia, in poco più di un'ora, mi hanno contristato più che non fossi avanti, ed anche lo scriverne mi ha giovato poco.

Gli è che io non sono punto qui per fare la commedia, e non mi voglio mica gettare della polvere negli occhi da me, colle mie stesse mani. Potrei dirvi che la passata avventura con Katie mi ha rialzato d'un millimetro ai miei occhi, che mi sento più uomo di prima, che... che so io. Non è vero niente. Mi sento anzi diminuito perché ho il core diviso, sempre meno sensibilmente fin che volete più tempo passa, ma diviso. Mi abituo forse, o vado migliorando, non lo so nemmen io.

So bene che l'ho sempre avuta a morte coi nichilisti, perché hanno assunto, con parte delle forme, tutta quanta l'abborrita sostanza della politica dei gesuiti; perché anch'essi non si peritano mai di giustificare i mezzi mediante il fine: ce l'ho sempre avuta e ce l'ho ancora, ma pure avrei preferito mille volte una Katie gesuitessa, una Katie nichilista ad una...

Basta, è inutile preferire il minor male quando il maggiore è in casa.




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