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Alberto Cantoni Un re umorista IntraText CT - Lettura del testo |
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PrologoC'è un treno, detto orientale, che va da Parigi a Costantinopoli ogni sette giorni. È tutto a vagoni Pullmann, uniti tra di loro con dei terrazzini che quasi si toccano, e ci si cammina avanti e indietro, spinti un po' di qua e di là da un particolare ondeggiamento, cagionato dalle ruote di carta pesta e che ricorda assai davvicino quello dei battelli a vapore. L'ho voluto vedere anch'io, questo famoso treno, e l'ho preso una mattina presto, per andarmene di corsa fino a tarda notte. Che piccolo pezzetto di paese non s'è mangiato in quelle poche ore! Pareva che l'Europa fosse diventata la Repubblica di San Marino! Oh se qualcuno, stando fuori, potesse vedere tutta la gente che sta dentro di un treno simile, ma vederla senza i vagoni, senza la macchina, senza di nulla, e tratta innanzi a quel modo nei suoi tranquillissimi atteggiamenti, chi leggendo, chi fumando, chi addormentato e chi desto, e tutti a rotta di collo, tutti in atto di star seduti senza niente sotto, oh il bell'effetto misto di ruina e di lemme lemme che se ne potrebbe ottenere! Appena appena un automatico organino il quale strimpellasse, da stare immobile, una fuga di Bach, potrebbe dare una lontana idea di una scorribanda così pacifica, di un volo così terra terra! Ho mangiato, ho fumato, ho guardato fuori, e poi mi son fatto condurre in uno di quei compartimenti i quali somigliano, di giorno, a quelli di tutte le ferrovie, e che si mutano di notte in quattro letti ognuno, due sotto e due sopra, come altrettante spaziose cabine. C'era già dentro un bel signore sui cinquanta, che era stanco di stare solo, e che si pose a guardarmi bonariamente, come per distrarsi. L'ho lasciato fare e mi son messo a leggere uno strano libro che aveva meco, un libro sempre vero pur troppo: De litteratorum infelicitate di Valeriano. Poi si passò un confine e le guardie doganali apparvero per la visita, senza fermare il treno e senza obbligarci a scendere. Se fossero state guardie italiane, avrebbero rischiato una malattia per lo struggimento di dover fare il comodo degli altri e non il proprio. Ma quelle erano più garbate. Il mio compagno di viaggio aveva tanti impicci con sé che fra la roba sua e la mia si dovette mandar all'aria tutta la carrozza, ma per quanto grande fosse la confusione, pure ho visto benissimo che egli non passava mai colla testa accanto il mio libro, allora chiuso, senza guardarne e riguardarne il titolo. Poi restammo soli. — Ci credete voi alla infelicità dei letterati? — mi chiese a bruciapelo subito dopo. — Se ci credo! — Per fatto vostro? — Anche... un po'. — Perché? — Perché più si ritiene che le lettere sieno qualche cosa di molto importante e meno gli altri ci possono patire. — Ve ne siete occupato per mestiere? — No, per gusto, ma ce n'ho trovato poco, per dire la verità. Il breve interrogatorio finì così. Ho creduto che fosse un collega, e gli ho menato buono le troppe domande. Invece, nel parlare di molte altre cose, mi raccontò chiaro e netto che faceva il diplomatico, ma né gli ho chiesto né mi ha detto per quale paese. La simpatia vuol dire sempre assai, ma quando spunti il mattino fra due persone che viaggiano insieme per lasciarsi a notte, fa tanto presto che non par vero. Non c'è mica tempo da perdere. Il mio compagno di viaggio volle darmene una prova e mi disse dopo pranzo: — Avrei una piccola fortuna letteraria da offerirvi, checchè ne dica Valeriano. — Se fosse davvero, non toccherebbe a me. — Giudicatene voi stesso. Avete a sapere che una decina d'anni fa, sono stato accreditato presso di un re, che mi prese a voler bene fin dal primo momento. L'ho chiamato re, perché questa è una parola assai sbrigativa, e perché era effettivamente un principe regnante, ma io non vi posso garantire che non fosse invece un imperatore od anche un semplice duca. — Per me fa lo stesso. Di re propriamente detti, ce ne sono ancora bene, e dato pure, come ritengo dopo le vostre reticenze, che questi ne fosse veramente uno, dove lo vado a pescare? Nell'almanacco di Gotha? Ce n'è tanti! Egli approvò del capo il mio ragionamento, e poi disse, come decidendosi del tutto: — Ci sono stato assai bene per un po' di tempo, allorché una brutta mattina il mio governo deliberò di balestrarmi dall'altra parte del globo. Proprio dall'altra parte. Se avessi trovato un baratro aperto sotto ai miei piedi, e mi ci fossi lasciato andar giù a piombo, sarei arrivato a posto in un momento. Invece mi ci è voluto un mese, e correndo a questo modo per mare e per terra. Subito dopo del congedo ufficiale, mi presentai al re per salutarlo privatamente, ed egli mi disse: «Ho qui alcune carte per voi... ma badate, per l'amico, non pel diplomatico. Quando avrete già mutato ancora di residenza parecchie volte, e sarà più difficile assai di capire da chi abbiate avuto queste carte, allora cercate di uno scrittore in buona fede, e dategliele, perché le mandi fuori a modo suo, nella sua lingua e nel suo paese. Se la semente sarà buona, darà qualche frutto su qualunque terreno; se sarà cattiva, vada pure al vento dovunque sia». Ora mi basta che voi mi promettiate una cosa. — Quale? risposi. — Che non farete mai nulla per sapere chi io mi sia, né per seguire le mie traccie, prossime e remote. — Prometto. Ma vi faccio osservare che leggendo queste carte, posso egualmente divinare da me chi le abbia scritte. — Non indovinerete nulla. Avrete innanzi un re che è imbattuto ad essere, più che altri, un uomo. — Meglio. Di che lingua s'è servito? — Del francese, e ben chiaro. Si vedrà forse che non è un letterato, e più ancora che non è quella la lingua sua materna, ma che importa quando abbiate facoltà di rimaneggiare ogni cosa e talento vostro? Purché le carte si capiscano, basta. — E se non mi piacessero e non ne volessi far nulla? Le devo distruggere? — No davvero. Ritornatele ben suggellate. — A chi? — A chi le avrà mandate a voi. S'intende che sceglierò una persona, la quale me le farà riavere senza leggerle. — Avete fatto presto a pensare a tutto! — sclamai, sottolineando il punto ammirativo. — Capirete. Sono già parecchi anni che mi preparo a questo discorso. Gli diedi nome, cognome e patria, e poi ci lasciammo con una certa quale effusione per non rivederci, spero bene, che nel mondo di là. O altrimenti vuol essere un bell'impiccio colla mia promessa! Ma passò un mese, ne passarono due, mai niente! L'idea che avesse voluto pigliarsi gioco di me non mi venne mai, lo dico a mia lode, e soltanto credetti che la cosa gli fosse passata di mente. Invece, dopo un buon po' di tempo, un notaro inglese, residente a Gibilterra, mi mandò per la posta e suggellato anche di dentro, ciò che siete per leggere. Si vedeva chiaramente che il mio compagno di viaggio, per tenermi sempre più giù di strada, aveva scelto una persona molto da me lontana e molto da lui diversa. Anzi un po' sulle prime me ne sono avuto a male, ma poi ho detto: «E se non aveva altri di fidato, come poteva fare?». Così mi è passata subito. Ora leggete. Se non vi piacerà, ricordatevi di Valeriano e del suo libro, considerando altresì che io non mi sono punto cercata da me la mia sfortuna e che essa, bontà sua, mi ha rincorso in treno diretto. La parola è al re. Di quando era ancora meno libero dello spirito, cioè a dire principe reale soltanto, egli non d[à] 1 che un solo paragrafo: il primo. Osservate bene allora e poi, e lo vedrete diventare sempre più capriccioso, come più dovrà digerire nuovi anni e nuovi guai. Accadrà facilmente il medesimo a tutti gli umoristi.
Le pagine che seguono rappresentano, per la massima parte, le più grandi e le più piccole giornate della mia vita. Quando esse mi davano troppo pensiero, io non aveva nulla di meglio a fare che mettermi a scrivere, e questo po' di lavoro finiva spesso per giovarmi più assai che se fossi rimasto lì colle braccia penzoloni ad aspettar la grazia. Ne ho fatte tante in vita mia, di grazie, che mi è passata la voglia di chiederne, sia pure al tempo che non sa far altro. |
1 Nel testo abbiamo: "da" [Nota per l'edizione elettronica Manuzio] |
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