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Alberto Cantoni
Un re umorista

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  • Si sta per venire alle mani
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Si sta per venire alle mani

Giusto questo il momento di pigliarmi sotto braccio il Residente dei miei cari vicini, e di andarmene seco a spasso fino a mezzanotte! Si sta per venire alle mani.

Ho tirato in lungo assai prima di mettere in carta la più piccola parola in proposito, ma ora che ho tanto pensato al pericolo, sarò anche guardingo nell'evitarlo, si spera, e non scriverò certo nessuna cosa, la quale, trovata poi, possa nuocere al mio popolo, mostrando in avvenire ai suoi nemici da quali segreti intenti sia stato mosso chi più lo ama e più lo vuole sostenere in alto. Fin che si tratta di me, fuori per tutto e pagherò di persona, ma i miei non hanno colpa delle mie debolezze, e non sono essi che debbono risponderne. Ne hanno già abbastanza per conto loro.

Dico adunque che gli scrittori politici non sono mai stati così ghiotti di luci retrospettive, per ghiottissimi che ne fossero di già. E più specialmente di quelle che si possono desumere dai voti e dai rimpianti dei principali personaggi, quando appunto gli animi si preparavano alle lotte imminenti. Ma gli scrittori fanno il loro dovere, tentando di ammaestrare di qua e di là, io invece tengo per qua e non per là, se Dio vuole, e certe cose mi guardo bene dal dirle forte anche da me. Figurarsi se le voglio scrivere.

Mi limito ad osservare che la mia corte, quando vuole mandar giù qualcuno, preme sulla regina, e quando vuole mandar su qualche altro, preme su di me. Già: il mondo alla rovescia, a lei i partiti forti e regali, a me i graziosi e benigni. Ora il giuoco è doppio, perché non c'è tempo da perdere, e il mio vecchio capo di Stato maggiore ha più bisogno di star seduto che non di montare a cavallo. Che fa la corte? S'è data a corpo morto ad un candidato giovine sì, ma più conservatore di mia moglie stessa, e come sa di non durare, auspice lei, nessuna fatica a mettere a sedere il vecchio, così armeggia a tutt'uomo, anzi intriga come una donna, perché mi prenda il giovine. Me lo trovo davanti a tutti i pasti, e me lo imbandiscono in tutte le salse. «Va preso com'è, — mi dicono, — perché ha il pugno forte, e perché questo non è tempo da ministri di Luigi Filippo». Io cederò prestissimo del tutto, per evitare qualunque rimorso, ma avrei preferito, lo confesso, un capo di Stato maggiore il quale si fosse messo in campo per la patria e pel re unicamente, e che, nello sfoderare la spada, non avesse lasciato balenare i principii politici di nessuna scuola. Dopo ci sono sempre quelli che arraffano troppo del bottino, se si vince, o che rimbrontolano eternamente la scelta, se si perde.

Ma la corte va ascoltata quando si tratta pro aris et focis: ha troppo da perdere se non imbrocca bene, e come non c'è mai stato né sorriso, né giuoco di ventaglio, né seduzione di gentildonna d'onore che mi abbiano mai spinto a commettere la più piccola ingiustizia (l'han tentato, poverine, i primi anni, ma glien'è passata la voglia per un pezzo), così ora non mi vergogno niente di badare ai gentiluomini, e fingo di non accorgermi che sono stati essi, essi principalmente, coloro che hanno montato la massima parte della stampa e i più romorosi cantucci del parlamento e dell'esercito.

Faccia Dio che tutti, compresa la corte, possano andare profondamente persuasi di avere agito per il ben comune e non per quello di nessuna parte, e che tutti fra poco, nello schierarmisi a lato, si dicano come me sinceramente:

«Sto in campo con Dio e col mio buon diritto. Sto in campo per la mia patria, per la mia donna e per i miei figliuoli. In guardia».

Nessuna maraviglia che anche i nostri nemici non pensino precisamente il medesimo, ma io auguro loro che lo possano pensare col core altrettanto leggiero del mio in questo momento. Scelga poi Dio fra i nostri due «buoni diritti». Noi abbiamo i punti di vista troppo diversi e non possiamo.

Ciò che posso far ora, per mio trattenimento, è di compiangere gli storici di qui a cinquant'anni, i quali, visti gli effetti del dissidio, dovranno metterli d'accordo con le cause. Dove sono queste cause della mia o della altrui fortuna? Io non le vedo. Ad uomini e ad armi siamo pressoché eguali, e se noi per esempio adopereremo ogni cosa male e gli altri bene (Dio disperda l'augurio), vorrà dire per questo che noi andavamo messi fin da ora dalla parte del torto?

No no, le cause sono fatte apposta per essere vedute dopo e mai prima, ecco la verità.

Ce n'è una bensì molto generale e che il più delle volte non si suole guardare nemmeno dopo, benché tutti la vedano, ed è che ogni popolo deve necessariamente avercela con un altro, e non importa che sia sempre il medesimo, anzi viceversa più uno oggi si mette a letto bene con questo e male con quello, e più domani può risvegliarsi mutato a cacciare su quel che era giù e giù quel che era su. Quest'ultimo popolo può pagare le spese per poco o per molto tempo, secondo che la malattia attacca più o meno, ma quando attacca bene, quando gli empiastri diplomatici funestano anziché giovare, allora il teatrino si muta in un campo trincerato, e giù botte da orbi di qua e di là. È certo che queste medesime botte, allentando per un pezzo gli umori a destra, prepareranno senza dubbio il terreno per inacidirli a sinistra, finché tutti gli attori, cioè chi le ha prese o date e chi si prepara a darne o prenderne delle altre, non se ne vadano a dormire alla rinfusa, lasciando agli storici il pio ufficio di cullare il sonno eterno a tutti, con una cantilena di spropositi, sia pure in buona fede. Merita? Di dormire sì, ma non di svegliarci daccapo, mi raccomando.

Il teatrino sarà piccolo fin che volete, ma c'è posto per tanti dolori che non par vero.

Chi imbrocca meglio di tutti è forse il popolo minuto, il quale suole talvolta lasciarsi prendere meno di quello grasso dalla malattia generale, e che, a conflitto imminente, dichiara spesso che sono i re in persona quelli che dovrebbero picchiarsi tra loro, e finirla. Perché, dicono, i re sono sempre d'accordo fra di loro, e fanno apposta per diminuire il numero della gente, quando ce n'è di troppa a mangiare e bere.

Io ci starei, guardate.




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