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Alberto Cantoni
Un re umorista

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  • Tre punti di vista
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Tre punti di vista

Questa lotta infelice doveva necessariamente ripercotersi nel mio temperamento. Vi ho già detto che dopo dell'attentato io non era che stizzoso cogli altri, e a momenti, non sempre, e che aveva creduto di rimettermi in quiete mercè della guerra e delle altre mie seguenti prodezze etiche. Ora che avete visto quel che ce n'ho cavato, ora vi dirò come rimasi io.

Male, intanto, per dirla con una parola sola, ma non sempre male allo stesso modo, anzi in tre modi diversi, il peggiore dei quali era appunto quello che più sarebbe sembrato piacevole ad altri. La mia stanchezza, o per dir meglio la mia irritazione morale, si rivelava cioè con dei rapidi passaggi dalla più febbrile allegria alla più depressa mestizia, con delle interruzioni di abbattimento e come di nausea dell'uno stato e dell'altro. A quest'ultima condizione ed anche alla tristezza, per quanto profonda, mi sapeva talvolta rassegnare, ma non mai, appena che ci pensassi un po', alla troppa giocondità, perché forse più morbosa degli altri due stati, e perché, quanto più essa dava segno di sé medesima, ed altrettanto io era sicuro di piombare più a fondo nell'estremo opposto.

È vero che oramai ce l'aveva con me solo e non più cogli altri, ma che bel guadagno! Sentire tutte le cose in tre diversi modi e non poterci nulla, se non aspettare pazientemente che mutassero da sé soli, come se io fossi rimasto prigione di tre diversi eserciti, ed essi mi mandassero le loro sentinelle, una dopo l'altra, a farmi la guardia! Oh che fatica ad assumere, almeno davanti allo Stato, una specie di media presentabile! E pazienza ancora quando mi trovava giù, nei profondi abissi! A parlar poco non ci si perde mai, e difatti allora ogni parola più del necessario mi sarebbe costata un occhio della testa, ma quando per una sola che avrei dovuto dire me ne venivano dodici in bocca, e tutte risibili o leggiere, oh che martirio a ricacciarle12 indietro, oh che supplizio a tener ferma la espressione del viso, perché non tradisse, colla troppa mobilità, il mio faceto e poco regale stato d'animo!

In famiglia andava anche peggio. Cominciamo intanto a dire che quando io era in laetitia non me le accostava mai, perché troppo mi premeva di conservarmi il rispetto dei miei figliuoli, e che però essa non mi vedeva che o pesto del tutto o a mezza via. E allora doveva provare mia moglie, come suole, a non intendersi del tutto col nostro secondogenito, ovvero questi ad avercela un tantino col suo maggiore fratello! Appoggiati così su qualche cosa di reale, i miei periodi bui prendevano allora delle dimensioni non mai più viste, ed io tendeva col maggiore sforzo a ritorcere sopra me solo i mali umori di madre e figli, tant'era persuaso di aver pochissimo a perdere, per quanti dispiaceri a me personali mi avessero procurato. S'intende che la mia prolissa abnegazione non riusciva ad altro che a far durare tre settimane quello che di sua posta non avrebbe durato che tre giorni e che poi, a mondo mutato, io passava, con altrettanta poca ragione, all'estremo della parte opposta, e ci rideva sopra, dando colpa di ogni cosa alle convenienze teatrali delle corti... senza pensare che i miei due giovinotti avrebbero invece dovuto aiutarsi l'un l'altro a smaltire insieme con più facilità, e che mia moglie, quali che fossero le sue esagerate nozioni intorno al nostro ambiente, non avrebbe mai dovuto abusarne a danno appunto di quel figliuolo che aveva più da perdere a concordare con lei. Insomma ogni cosa era tutto ed ogni cosa era nulla, e niente ci valeva, per quanto bene mi avvedessi di passare così da un eccesso all'altro.

Ho provato ad occuparmi delle cose buffe nei giorni cattivi e delle tristi nei così detti buoni, nonché a tenere in serbo le più forti per quelli di apatia... bella prova! Trasfiguravano tutte a vista, ed io, dopo di essermi incamminato da tanto tempo a cercare il vero aspetto d'ogni cosa, e dopo di avere assunto da anni in più lodato metodo di investigazione, doveva pur confessarmi che i veri aspetti di ogni cosa erano diventati tre, con quello neutro dell'indifferenza. Tanta musica per arrivare a tre accordi così stonati e così stridenti!

Se mi fossi aperto ad un medico, per esempio a quello di Katie, avrebbe detto che questo eterno frugare nell'anima nostra e nell'altrui, per arrivare a dei conflitti così incoerenti, è appunto il principale morbo morale dei nostri tempi e che Leopardi e Stendhal, ai quali apparentemente se ne suole dar colpa, ne furono invece le primissime vittime. Proprio dei nostri tempi? E dei nostri tempi soltanto? Ma allora come si spiegano le velenose risate di Amleto e le lugubri facezie di Swift? Come si spiega l'equilibrio metafisico della mia alta consorte? Non è abbastanza architettonico? Avrebbe risposto «Eccezioni questa e quelle!». Ma allora se un medico non mi sa dir altro, tanto vale non domandargli nulla.

E ho fatto bene, perché m'è capitata una seconda moglie a farmi da infermiera quanto la prima e meglio: la gotta. Dicono che è la penitenza degli epuloni e delle persone di spirito. Sarà. Veramente per mangiare ho mangiato, ma non mica poi troppo; avrò anche avuto dello spirito, ma non mica poi tanto... o perché dunque doveva venire a me?

Ve lo dirò io. E venuta per dar ragione alla scuola di Salerno, quando diceva «Dolor accerrimus farmacus», è venuta per dirmi in orecchio:

—  Io ti metto mezza dozzina di denti cariati nel tuo piede destro, poi nel sinistro, e tu abbi pazienza. Già non c'è dentista che te li possa levare. Ci penserò io a suo tempo, ma quando me ne anderò (e sia pure per ritornare benignamente la prossima primavera) ti lascerò un bel regalo, e tu te ne andrai avvedendo man mano che ti starò accanto. Almeno la prima volta ti farà piacere, non foss'altro per la novità.

Che era?

Era che il dolore, nella sua crudele intermittenza, andava spazzando via mano mano la confusa miscela del mio lungo errore; era che tutte le parvenze ritornavano ferme in vista al loro posto, senza più oscillare, senza più riperderlo; era che finalmente le cose buone riprendevano a rallegrarmi, sia pure in modo relativo, anche nei giorni di dolore, e che le brutte rimanevano tali e quali anche nei giorni di tregua. Vi par poco? Poco la verità quando ricupera la sua massima virtù: quella del paragone?! Sarebbe il medesimo come dire che valgono meglio tre criteri malati di uno solo, e sano.

Certamente che dopo di essere rientrato in me stesso, ho anche dato addietro un altro par di volte, e che l'approssimare di ogni crise non rimase mai dall'annunziarmisi in capo allo stesso modo del primo divertimento, ma fu ben altra cosa! Oramai sapeva bene chi era che veniva ad assumere meco le gioie del talamo, ahi vedovo della prima moglie fin da quando mi sono promesso colla seconda!

Avete la gotta? Tenetevela cara, perché vi risparmierà molti altri guai. Ma se non l'avete, badate bene di non frantendermi e non ve l'augurate per l'amor del cielo, a meno che non ne abbiate bisogno per pulirvi il pian di sopra, come ne aveva io. Ho voluto soltanto venir a dire che anche gli spasimi del dolore fisico, e non importa quali, possono avere una benigna influenza sopra lo spirito, allo stesso modo come le angoscie del cuore possono avvalorarvi a sostenere le torture del corpo. Nient'altro. Dolor accerrimus farmacus.

Ma se le mie sofferenze morali avevano assunto precisamente quella forma, di mille men dolorose che avrebbero potuto, non era stato davvero per colpa di una così detta malattia «contemporanea» che risale invece ai tempi di Eraclito e di re Saulle, e nemmeno per colpa di Monna Podagra, che ha buono stomaco e che si serve, per annunziarsi, di quello che trova... no no, la vera colpa l'ho avuta io medesimo, che essendo umorista, vale a dire uomo essenzialmente capriccioso, ho voluto fare il re per l'appunto, senza considerare che anche l'umore è una gran forza, appena che sia ben diretta, e che può talvolta arrivare dove non arriva la logica, nel campo del pensiero, né la esperienza nel campo dei fatti. In ogni modo, camicia di Nesso o nimbo leggiero che esso sia, non diventerà mai tale cosa da potersi levare e mettere come un abito di cerimonia, e non importa nulla se guasterà talvolta le cose buone, che non sono molte, perché più sovente darà mano a sopportare le cattive, che non sono poche.

Io intanto ho già guadagnato che la regina non mi dice più «Così è». Dice «Così mi pare».

Via, mi veniva, checchè abbiano detto a suo tempo i più pravi lettori del mio modus vivendi con Sua Maestà Divina, e checchè dicano ora della seguente pagina.

 

 

 




12 Nel testo "ricacciale". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]






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