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Francesco Domenico Guerrazzi
Beatrice Cènci

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CAPITOLO XVIII.

 

ROMA.

 

Or di tante grandezze appena resta

Viva la rimembranza; e mentre insulta

Al valor morto, alla virtù sepulta,

Te barbaro rigor preme, e calpesta.

Testi, A Roma

 

Giacomo Cènci convitato a mensa da monsignore Guerra si ridusse a casa tardi nella notte successiva; e se a donna Luisa quella sua dimora soverchia fu motivo di affanno, il suo giungere non la consolò meglio; imperciocchè egli si dimostrasse pensieroso e mesto: ricusò vedere i figliuoli; si astenne perfino da baciare, come soleva, lo infante; anzi al vagire di quello tramutò visibilmente nella faccia. Postosi a giacere lo travagliarono sogni tormentosi, e fu sentito lamentarsi dicendo; è morto! è morto! Allo improvviso si svegliò esterrefatto; girò attorno torbidi gli sguardi, e, vistasi la moglie al fianco, l'abbracciò stretto stretto come soverchiato da interna passione, esclamando non senza lacrime:

- Quanto era meglio che io avessi cessato di vivere!

- Ti penti forse essere tornato nel seno della tua famiglia che ti adora? - gli rispondeva la moglie affettuosissima.

- No, Luisa, no; Dio me ne guardi; e ciò nonostante, credimi, sarebbe stato meglio che io fossi morto... e lo vedrai.

- Luisa da femmina discreta tacque, attribuendo cotesto fastidio angoscioso alle commozioni passate; e confidò nel tempo, nelle sue cure, e nelle carezze dei figli per ricondurre la pace nello spirito agitato di lui.

In quella medesima notte si partirono da Roma Marzio ed Olimpio provveduti di molta moneta di oro. Cavalcavano due poderosi cavalli; e comunque camminassero senza sospetto d'incontrare per via cosa che fosse al loro andare molesta, pure procedevano muniti di armi pronte a far fuoco.

Scorsi alquanti giorni, don Francesco sentendosi bene della persona disposto, e del piede abbastanza rimesso, certa mattina, sul fare dell'alba, sveglia di repente la famiglia, e le ordina, che così come si trovava vestita scendesse. - Nel cortile Beatrice vide apparecchiati cavalli da sella, la carrozza, ed uomini di scorta; indizio manifesto di lungo viaggio. Dove il padre la menasse, per quanto tempo sarebbe rimasta lontana da Roma, questo fu quello ch'ella non gli domandò, alcuno della famiglia si attentò a richiederglielo.

Il Cènci aveva provveduto a tutto con la sua ordinaria solerzia. Non gli parendo bene avventurarsi co' soli famigli per le vie infami, che da Roma conducevano alla Rocca Ribalda, aveva stipendiato per alquanti giorni una mano di guardie campestri, che gli tutelassero il cammino. Altre volte egli aveva percorso le cinquantotto miglia che passano tra la città e cotesto feudo, in un giorno solo; ma adesso non vi era da contarci sopra, considerando da una parte la carrozza lenta a muoversi, e dall'altra le strade o sprofondate nella polvere, o dirotte pei poggi, e il caldo grande della stagione. Nei cariaggi il Conte aveva fatto riporre biancherie, argenti, di ogni maniera vettovaglie, e vini di più ragioni, fra i quali una fiasca di keres che aveva sopra la veste dipinta la data del 1550, raccomandando che ne avessero cura particolare.

Beatrice, prima di entrare in carrozza, indirizzandosi al Conte gli disse:

- Signor Padre, ho da parlarvi...

- Silenzio; salite...

E Beatrice, volgendogli supplichevoli le mani, di nuovo:

- Signor Padre, uditemi per lo amore di Dio... ne va della vita vostra...

Ma il Cènci, reputando coteste smanie sforzi per sottrarsi dallo aborrito viaggio, la cacciò di una spinta in carrozza, chiuse a chiave lo sportello, e fece abbassare diligentemente le cortine.

Dato il cenno della partenza don Francesco salì con gli altri a cavallo, e tutti si posero in via senza dire un fiato. Cotesta compagnia, più che di cavalcata viaggiatrice, aveva sembianza di associazione di qualche illustre defunto. Uscirono dalla porta di San Lorenzo, e tenendo sempre la strada Tiburtina giunsero a Tivoli.

Non poeta traversò la campagna romana senza cantare il tumulto degli affetti, e dei pensieri che destò nel suo animo la vista di tanti luoghi solenni per grandezza di antiche memorie, per decoro di fabbriche, e per desolazione moderna: solo che il cuore gli si commuovesse a pietà, spontanee e belle gli uscirono le parole dai labbri come le lacrime dagli occhi. - Nessuno ardì maledirci - nessuno - tranne uno solo, nato dalla gente che ha per costume di rompere la fede ridendo103; - il quale non aborrì insultare un popolo fatto cenere per la vendetta del mondo congiurato a suo danno, per la maligna onnipotenza dei fati, e pel perpetuo tradimento dei suoi; - egli solo calpestava lo immane sepolcro oltraggioso e protervo; però che ci venisse dalla gente leggiera, farfalle insanguinate, astiosa del parlare, e della fama romana104.

Non pittore traversò la campagna romana senza rapire a questo cielo qualche tinta azzurra e di oro per trasportarla sopra i suoi quadri, che indi furono divini. Dacchè Dio volle che l'aere di questo sepolcro si mantenga glorioso, e magnifiche sieno le aurore, e stupendi i crepuscoli. Le querce annose scuotendo le fronde al vento mormorano antichi misteri, e l'erba cresciuta sopra le fosse funerali spira voce fatidica.

Passerò io per la campagna romana senza gittarvi sopra uno sguardo di pittore, o di poeta? Le pagine immortali del Byron, del Goëthe, della Staël, del Montaigne, e di altri famosi antichi e moderni scrittori mi sbigottiscono forse? Oh! l'ala della immaginazione percuotendo contro i ferri della carcere si rompe, e gronda sangue. La musa, vergine mite, si arresta sul limitare della casa dei sospiri, e torce altrove lo sguardo. Levando gli occhi in alto io non incontro più la casta faccia delle stelle, che versano su l'anima luce, amore, e poesia. I campi aperti e il sole mi tornano alla mente affaticata dalla empia virtù della prigione, come le immagini dei ruscelletti del Casentino tormentavano maestro Adamo condannato a perpetua sete nello inferno105. - Ma dalle mani di Dio escono spiriti tranquilli, che, a guisa di lago, compiaccionsi riflettere nella limpida superficie le sponde floride, i colli cerulei, i bianchi casolari, la parrocchia, il campanile, le croci del camposanto di campagna, - le gioie, insomma, di coloro che nascono inosservati come le foglie di aprile, e muoiono inosservati come le foglie di autunno. Ogni soffio leggiero da cima in fondo gli scompiglia, e la pace, rimane in essi sconvolta con la dolce armonìa. Altri poi, senza requie commossi, amano fare specchio di se alla faccia di Dio divampante fra i fulmini come l'oceano in tempesta: si nutriscono di procelle, e le corde di ferro delle loro arpe eolie non rendono suono se non le scuote il fulmine. Ora, quando pure la sventura non avesse inaridito il mio spirito come fa il sole della erba dei campi; quando pure il mio spirito non avesse rovesciata la sua fiaccola a guisa di genio al fianco di un sepolcro, perchè userei la sua forza ad evocare sopra le pianure antiche eserciti di combattenti, e agiterei con palpito nuovo i miei lettori sopra le vicende della pugna, e i pericoli di una gente, il cuore della quale cessò di palpitare da venti e più secoli? Perchè aprirei sommessamente le porte del tempio di Giano, di cui il cigolìo scuoteva un giorno le viscere della terra? Con qual consiglio popolerei la via sacra di carri, di cavalli, e di cavalieri armati lampeggianti ai raggi del sole? Perchè la ingombrerei di nuvole profumate, che si alzano dai turiboli d'oro, ( - profumi, e vasi rapiti - ) di sacerdoti, di vittime, e di re barbari incatenati? Perchè i nitriti di cavalli, e le grida dei cavalieri già da mille anni disfatti spaventeranno gli echi ormai usi da secoli a ripetere il salmo cantato dietro la povera bara del villano morto di febbre dal frate tremante pel ribrezzo della febbre? Scoperchiamo gli avelli, e interroghiamo le ossa dei sepolti in questa parte della campagna romana - gli Orazii, i Plauzii, gli Scipioni - : costringiamo anche Cestio, - anche Metella, entrambi i quali nascosero il mistero della loro vita sotto splendidi monumenti, lasciandoli ai posteri come uno enimma a indovinare - a narrarcelo intero. Io posso, per virtù di poesia, farvi vedere dalle gelide labbra dei morti scintillare parole come faville elettriche. E quando tutto questo potesse farsi, e quando tutto questo facessi, qual prò ne ricaverebbe la Patria? Forse dalla storia dei gesti antichi ricaverebbero argomento di forza i viventi? Ahimè! Dio si è ritirato da noi perchè la nostra ignominia supera la sua misericordia. Forse delle glorie antiche vorrò comporre un flagello nuovo per percuotere la moderna fiacchezza? - Tutti siamo rei. Vestiti di cilizio, col capo cosparso di cenere, prostesi a terra i Profeti lamentarono la desolazione di Gerusalemme: sopra i fiumi di Babilonia le vergini di Sion, sospesa l'arpa ai salici, - piangevano l'amara schiavitù: - più felici di noi perocchè lamentassero ad alta voce, e tutti i Giudei accompagnassero i mesti inni con i singulti! A noi è tolta perfino la libertà del pianto. Deh! sussurrate sommessi, onde per avventura il vostro ronzìo non rincresca allo straniero, e vi calpesti come i vermi della terra; - gemete sommessi, onde i vostri stessi fratelli non vi denunzino al giudice fratello, e questi vi mandi in prigione o per gli ergastoli, o a morte per amore dello straniero, che gli pane, titoli, e infamia.

Addio, cascate di Tivoli; invano il vostro Genio tenta abbagliarmi coll'iride, che mandano gli zampilli dell'acqua rotta su gli orli dello abisso: - voi non avrete gli onori di altri canti. - Addio, flutti pallidi dell'Aniene, consapevoli dei riti arcani degli Aborigeni; scorrete in pace per la morta campagna: io non vi domanderò se le stirpi andate degli Enotrii, degli Ausonii e degl'Itali fossero più o meno infelici di noi sopra questa terra, dove la mèsse, alimento dell'uomo, cresce per solchi pieni di morte; la vigna, letizia del cuore, per la costa riarsa del vulcano; la intelligenza, fra i pruni della superstizione; la virtù, sotto il taglio della mannaia. Ahimè! ahimè! Il fegato di Prometeo non è favola in Italia. -

Ma se sarebbe vanità rammentare glorie vetuste, mi giova tratto tratto soffermarmi nella via che percorrono i miei personaggi, e raccogliere gli amari pensieri che desta la vista di luoghi famosi per ricordanze lugubri. Il dolore è della famiglia dei cancri, e intende essere alimentato di carne, e della più sensibile del cuore umano. E non sapete voi, che la creatura può trovarsi ridotta in tale stato da mettersi con piacere le dita nella piaga, e lacerarla, e vederne, esultando, stillare fino all'ultima goccia il suo sangue? Catone, quando altro non gli fu dato, si strappò le viscere, e le battè nel viso alla fortuna, come costumavasi fare ai traditori.

Ecco da questo lato il campo di Marte, che fu podere di Tarquinio il superbo. Il Popolo, nel giorno della vittoria ne svelse le spighe mature, e le gittò nel Tevere; - i manipoli resistendo al corso delle acque sceme mescolaronsi con la terra, e ne composero l'isola sacra dedicata ad Esculapio, dio della Salute106. Ma quante volte il Popolo seppe rammentare, che i doni del tiranno si convertono in arsenico dentro le sue viscere? Tutti si stringono - ed io l'ho veduto, e lo vedo - tutti si stringono intorno alla tirannide a succhiare, come intorno alle infinite mammelle di Cibele. Vi aggrada cotesto umore? Succhiate, maledetti! A stille, e per mercede, vi si rende quello che a largo sorso fu bevuto dalle vostre vene.

Ecco la via Appia, che da Roma, traversando le paludi pontine, andava a Brindisi, reliquia di paterna grandezza rimasta come scherno delle nostre opere di un giorno. presso contristano più moderne rovine, quelle di Anagni, dove fece naufragio il superbo concetto del Papato107. La guanciata di Sciarra Colonna sopra la faccia di Bonifazio VIII infranse irreparabilmente il triregno. Non essendosi aperta in quel momento la terra sotto i sacrileghi, come a Datan e a Core108, il mondo dubitò che Dio stesse davvero (come gli s'imponeva credere sotto pena della eterna dannazione) col suo Pontefice. I colli di Roma non imitavano ancora il monte di Gerusalemme, dove si annidano le volpi109; qualche volta vi ruggiva anche il lione; ma da quel giorno in poi le chiavi di San Pietro, - le chiavi della Città Celeste - dall'avara viltà dei Sacerdoti furono sovente presentate ai Potenti della terra come chiavi di vinta città.

Ecco Ferentino, dove è fama che Manfredi, impaziente di regno, calpestasse come uno scaglione la testa del padre Federigo per salire sublime. O corona! quanto hanno ad essere infernali i tuoi splendori, se un cavalieredegno non rifuggì acquistarti a prezzo di un parricidio!

Più oltre apparisce San Germano, dove i Pugliesi furono bugiardi a Manfredi per Carlo di Angiò; antica usanza di schiavi, che immaginano mutare stato perchè mutano soma. Si abbiano l'abbominazione dello antico signore, e il disprezzo del nuovo; chè troppo bene meritarono ambedue.

Da questa parte giacciono i campi Palenti, dove la stella scintillante della casa Sveva tramontò per sempre dentro un lago di sangue. Stella imperiale, la tua aurora fu vermiglia; il tuo mezzogiorno purpureo; il tuo tramonto sanguigno: quel colore fu ricavato dal mollusco dei mari di Tiro, bensì dalle vene degli uomini, che non ne mancano mai.

Volgiti al Mediterraneo; , è un piccolo castello, infame pel tradimento del giovane falco degli Hohenstauffen. Infelice Corradino! quantunque cresciuto alla preda, ci commuove il tuo fato di fiore reciso su l'aurora della vita. Tu almeno saresti stato leggiadro, ed animoso tiranno!110 - Tu avresti sbranato, non leccato il sangue... E che cosa altro di meglio concessero le Eumenidi di fare al tiranno?

Poco oltre sorgeva un giorno Minturna; e Mario, trepidante per la sua vita, si nascose nel fango fuggendo coloro che lo cercavano a morte; e egli fugava col terrore dello sguardo il Cimbro omicida... Dio del cielo! allora ai nostri padri per fugare i barbari bastava la virtù di uno sguardo! - O Mario, che valsero i tuoi trionfi contro i Cimbri e i Teutoni, e che cosa valsero quelli del tuo fiero avversario Silla contro Mitridate? Andate perpetuamente maledetti, però che voi foste la rovina di Roma. Le discordie della plebe co' patrizii avvantaggiarono la repubblica finchè terminarono in leggi; ma quando il sangue cittadino scorse a rivi per le strade, e toccò il limitare dei tempii a guisa di onda commossa dagli Dei infernali; ma quando per la prima volta furono viste le spoglie di romani trucidati portate in trionfo insieme alle spoglie dei barbari, allora incominciò l'agonìa di Roma, e l'ombra invendicata di Annibale rise fin su la foce di Averno111.

Dentro i sepolcri della proscrizione si generano i serpenti della discordia; il sangue chiama sangue da Abele in poi; e la Vendetta, tolti in prestanza dal Tempo l'orologio a polvere e la falce, guarda quello, e arrota questa: quando l'ora sarà giunta, popoli e genti cadranno come fieno mietuto: - anche la Morte ha da avere i suoi saturnali; e lo vedrete.

Volgiamoci all'Adriatico, poichè da questi luoghi si scorgono entrambi i mari; colà si levano ancora le torri di Ancona, le quali una volta rammentavano disperata difesa cittadina, ed esoso nemico respinto; oggi poi ricordano gemino stupro, e invendicato da gente, che si nutrisce di vergogna come di pane. Cesena richiama alla mente la strage nefanda ordinata dal Cardinale di Ginevra. Giovanni Acuto, soldato di ventura, sentì ribrezzo dello indistinto eccidio; ma il sacerdote furibondo urlava: «Sangue; io voglio sangue, e siano morti tutti»112 O Cardinale, tu a buon diritto ti guadagnasti la porpora vermiglia.

Poco più oltre ecco Senigaglia, che dura famosa nel mondo pel modo tenuto dal duca Valentino, il truce bastardo di Alessandro VI, per ammazzare i Baroni della Romagna113.

Così, sia che tu ti volga alla diritta, o alla sinistra sponda, i mari d'Italia gridano lungo i liti: tradimento!

Da Rocca Petrella guardando a oriente vedi le acque del lago Fucino: esse dormono adesso simili a quelle del mare morto. Un giorno furono piene di stridi feroci, di aneliti, e di stragi. Claudio, sazio delle morti del circo, qui volle letiziare i suoi occhi con lo spettacolo di una battaglia navale, e trovò tremila uomini, o piuttosto belve con la faccia umana, che consentirono a trucidare, e ad essere trucidati pel piacere dello Imperatore; già con ira, o imprecando sul capo di lui le furie, ma lieti e salutanti114. Così l'antica Roma ebbe più schiavi disposti a morire per la ricreazione di un tiranno, che Roma moderna cittadini per la libertà della Patria!

Basta. - Addietro visioni che spaventate l'anima agitandola. - Cessa una volta, spirito infermo, di scuotere davanti a te stesso la camicia insanguinata della umanità. Il gran Cieco inglese renunziò a dettare la storia della Ettarchia sassone sul fondamento, che tanto valeva scrivere quella degli avvoltoi; io avrei voluto sapere, che cosa gli fosse sembrato scrivere raccontando quella degli uomini115.

Sopra tutto questo mare di rovine la basilica di San Pietro Vaticano con la sua croce in cima alla palla, pare che galleggi come l'arca di Noè. - Perchè non ha ella salvato il genere umano, e perchè non rinnuovò il patto dell'alleanza della terra col cielo? - Di cui è la colpa? - Un'altra volta forse lo dirò, non certo nuovamente, ma inutilmente sempre. La Esperienza, che scrive la storia, si assomiglia alle figlie di Danao affaticate a riempire le botti senza fondo. L'universo è un fiume, e la umanità spensierata sta sopra le sponde a guardare scorrere le acque: può egli l'uomo rammentarsi dei flutti dell'anno passato, o può farne suo vantaggio? Così passano gli eventi irrevocati dalla memoria, sterili di virtù. -

I miei personaggi da Tivoli seguitando la via Valeria si ridussero a Vicovaro, ove a cagione del caldo grande e della via malagevole ebbero a soffermarsi, e con quanto cruccio del Conte Cènci non è da dire, il quale invano tentò di spingersi innanzi. I cavalli trafelati non obbedivano a frusta a sprone. A vespro ripresero il cammino, e pervennero alla osteria della Ferrata ovmestiere lasciare le carrozze, e salire il monte su cavalli e su muli. Il Cènci scese, e chiamato l'oste lo interrogò se avessero dalla Petrella mandato somieri per prenderlo.

- Io non ho visto muli, rispose l'oste con faccia brusca.

- Ma non si trattenne qui, passando, un mio fante che ha nome Marzio?

- Non so di Marzio, e non ho veduto marzi, aprili.

Don Francesco aveva mosso codesta domanda ad arte per assicurarsi se fosse stato ucciso Marzio, e per infingersi ad ogni buon riguardo ignaro dell'omicidio; ma poichè l'oste nulla sapeva, gli parve bene simulare una gran collera, e bestemmiò Marzio, e la pigrizia dei servi a soddisfare gli ordini dei padroni, mostrandosi imbarazzato a procurarsi i trasporti; se non che l'oste, burbero sempre secondo il costume dei romani, gli osservò:

- A che serve imbestialirvi, Eccellenza? E quando avrete bestemmiato tutti i santi del paradiso, avrete fatto apparire muli e cavalli? Se voi altri signori ci levate ancora il privilegio della bestemmia, che cosa vogliate lasciare a noi, poveri vassalli, in di Dio io non saprei. - Il vostro fante non gli avrà trovati; sarà caduto infermo nella ròcca; non avrà pensato tanto prossimo il vostro arrivo; lo avranno ammazzato i banditi per la via, e che so io? Si danno tanti casi al mondo! Ad ogni male ci è il suo rimedio. Lasciate fare a me. Voi sapete, che oste viene da ospite; e se la fortuna non mi avesse sempre guardato in cagnesco, vorrei albergare la gente secondo i comandamenti degli Apostoli.

- Io credeva, rispose il Conte sorridendo, che oste derivasse da un'altra cosa...

- Da che?

- Da hoste, che vuol dire proprio nemico in lingua latina; ma forse avrò sbagliato. Ora sentiamo un poco che cosa vi avvisereste fare, ospite mio?

- Manderemo questo ragazzo qui su pei boschi dove stanno i carbonari. A questa ora le buche del carbone hanno ad essere fatte; sicchè i carbonari, un po' per usarmi cortesia, un po' per buscare qualche scudo, saranno contenti di venire fin giù, e condurvi alla Rocca Ribalda. Bisognerà che camminiate tutta la notte, perchè a un bel circa, poco più poco meno, prima di arrivarci saremo su le trentaquattro miglia.

- La strada è come quella del paradiso, che si vorrebbe fabbricata più larga per comodo di noi altri poveri peccatori. Ad ogni modo la luna si leva sul tardi, e agevolerà lo scendere e il salire.

- Ma perchè non aspettate domani? Qui troverei modo di ripiegarvi tutti... rammentatevi che abbiamo un collo solo.

- No, a me importa arrivare presto.

- E aggiungete, che domani per tempo avrete cavalli da pari vostro...

- No, manda pei muli dei carbonari...

- Farò come vi piace, Eccellenza; anche i muli portano a casa.

Il ragazzo bruno di carne, con occhi fissi di falco stavasene appollaiato sopra una catasta di legna, contento come su di un cuscino di velluto. Nel sembiante mostrava tale idiotaggine, da mettere ribrezzo in chiunque avesse avuto bisogno di alcun servizio da lui. Il Conte sdegnoso, guardandolo di traverso, gli diceva:

- Non hai inteso? A questa ora dovresti essere lontano un miglio.

- Non vi date fastidio, Eccellenza, chè sarebbe fiato perso. La povera creatura non vi può intendere; gli è sordo-mutolo di nascita, ma con quattro ammicchi vi sbrigo.

Il Conte, dubitando essere tolto a scherno, stava per dare tale un suo ricordo alla trista all'oste traditore, che se ne sarebbe rammentato per tutto il tempo della vita; ma questi incominciò ad armeggiare con le mani tanto, che parve avere fatto capire il ragazzo: se non che il sordo-muto sbadigliava stendendo le braccia, e con altri moti dimostrava repugnanza a partire. Allora l'oste, a guisa di perorazione, aggiunse al suo discorso un prenderlo per l'orecchio destro, e un trarlo giù dalla catasta dandogli al punto stesso un calcio solennissimo, che lo mandò a rotolare contro la porta. Da tutto questo il ragazzo potè comprendere, che si trattava di affare di premura.

Messi i cavalli in istalla scaricano le carra apparecchiando fardelli, e funi per adattarli a soma sui muli. Le donne e Bernardino furono fatti salire in una stanza al primo piano, e chiusi. Il Conte aggirandosi sospettoso, da per tutto spiava.

Il ragazzo corse buon tratto su per una viuzza: quivi si fermò, e voltatosi dalla parte della osteria stese la destra col pugno; chiuso in atto di minaccia, come costumano le scimmie quando le piglia il dispetto: poi spiccò un salto, e via, a modo di capriolo, per la costa del monte Santo Elia, che dalla Ferrata mena a Rio Freddo.

La salita, malagevole dapprima, incominciò a diventare aspra, e finalmente dirotta. Il ragazzo non aveva rimesso punto dello ardore, e balzando di greppo in greppo sembrava piuttosto volare che correre. Lasciamolo andare, ch'egli conosce la strada, e non si smarrirà di certo.

 

*

* *

 

Colà dove il monte Santo Elia è più scosceso, sotto querce secolari che stendono largamente i loro rami sopra arboscelli, di mole minore, arde un magnifico fuoco. Su per coteste vette l'aria punge nelle notti di settembre, quantunque nei piani la caldura soffochi; e poi gli uomini, che vi stavano intorno, con atti diversi lo avevano acceso per vederci, e per compagnia. In quel punto pareva che la noia piovesse giù dagli alberi sopra i loro capi; imperciocchè taluno fischiasse supino tenendo ambedue le mani sotto la testa, il cappello tirato su la faccia, ed una gamba a cavalcioni dell'altra ripiegata lungo la coscia; tale altro aggomitolato dentro al tabarro si voltava ora di qua, ora di , traendo di tratto in tratto un sospiro: - sovente in coro si alzava uno sbadiglio universale.

- Pericolo, che Marzio voglia convertirci? - favellò un bandito.

- Che cosa abbia inteso Marzio di fare io non lo so, rispose un altro; per me intendo, come siamo di patti, tenere fermo fino a domani: poi, quanto è vero San Niccola, diserto con arme e bagaglio.

- Su questi monti mandarci il vino a compito! Guarda! tutti i fiaschi stanno morti per la terra. Io vorrei vedere piuttosto uno sbirro, che un fiasco vuoto.

- E poi levarci anche i dadi!

- Le sono crudeltà da fare svenire Nerone.

- Quasi, quasi io mi sentirei tentato di recitare il rosario, Che ne dici, Orazio?.

- Ella è una cosa come un'altra; per passare il tempo. Però avete torto marcio a lagnarvi, perchè domani termina il nostro debito; e se in questo frattempo non arriva nulla di nuovo, io m'immagino che saranno questi i primi danari guadagnati senza rimorso, come senza pericolo.

Orazio è un bandito alto di persona; di sembianze gravi, e, comunque sul declinare degli anni, bello sempre. La sua fronte e il suo cuore portavano impressi i solchi di tutte le passioni; adesso elle erano spente, ma le ceneri anche tepide facevano testimonianza dello incendio fumando. Il fodero durava più della lama. Orazio sopravviveva a se stesso. Fin erasi rimasto appoggiato a un tronco di leccio, col capo chino su i ginocchi, senza profferire parola. Lui salutavano i banditi poeta, medico, e legislatore della brigata. Interrogato rispondeva, richiesto consigliava; invitato, senza farsi troppo pregare cantava canzoni da lui composte, o raccontava strane vicende di lontani paesi; altrimenti, sempre taciturno, meditava sopra i suoi casi, che davvero molti, e varii la fortuna gli aveva apparecchiato davanti. Spirito fantastico, amante del maraviglioso, il quale spesso, invece di farsi cercare da lui, gli andava incontro. Vissuto in altri tempi, dove tre o quattro omicidii non guastavano, con la prestanza del braccio, e il valore del canto avrebbe avuto fama in corte di Provenza su qualsivoglia menestrello o barone uso a servire dame: adesso la miseria, che gli si era irrugginita addosso, la usanza vecchia di far giudicare le sue liti dal coltello che teneva al fianco, e finalmente il genio nativo lo avevano condotto alla macchia. Tale era Orazio.

- Ma la noia, Orazio, non conti nulla la noia?

- Io la conto moltissimo; ma ella è un cilizio che si attacca alla vita di tutti: imperatori e papi la portano cucita fra la camicia e la carne; e vorreste non sopportarla voi per quattro notti, o sei? Noi fummo pagati, e bene; e questo, che duriamo, non è troppo travaglio. Così mi fosse avvenuto sempre, che non mi sarei trovato ad avere a venti anni i capelli bianchi!

- Come bianchi! o non hai nera la barba?

- Ma i capelli sono bianchi. - E qui Orazio levò una specie di cuffia, che gli cuopriva la testa intorno intorno rasente le orecchie, ed i banditi conobbero per la prima volta, com'egli non avesse capello che non paresse filo di argento; i sopraccigli poi e la barba si conservavano nerissimi. - Da venti anni in qua io diventai canuto.

- Domine in adiutorium meum, esclamò un vecchio bandito; tu non saresti mica parente del diavolo?

- Che io sappia, no.

- Qui dentro ci è della fattucchieria, - ripresero gli altri spaventati.

- Con licenza vostra, non ci ha che fare il Diavolo; ma un'Aquila grigia.

- O come un'Aquila?

E tutti gli si posero attorno. Orazio, sempre col capo scoperto, e godendo della paura dei compagni, che non cessavano di contemplare con maraviglia mista di terrore quei capelli bianchi, e quella barba nera, incominciò a parlare:

- Ve lo dirò; in mancanza di vino, un racconto vi piacerà sempre meglio dell'acqua; n'è vero? Il padre mio, boscaiolo, morì come visse povero quanto San Quintino, che suonava a messa co' tegoli. La mamma dopo la sua morte non ebbe più un'ora di bene, e, povera donna! cadde inferma di palpito di cuore. Il curato, che era uomo saputo, ci disse che cogliessimo certa erba, chiamata fu116, la quale cresce per questi monti; ne spremessimo il sugo, e glielo dessimo a bere, che le avrebbe fatto bene; e come disse trovammo essere vero; ma fu, o non fu, quando la candela arriva al verde bisogna che si spenga; e la vecchia si spense: requiescat in pace. Amen.

E i banditi rispondevano:

- Requiescat in pace.

- Nell'anno domini... aspettate che me lo ricordi... l'anno, che il terremoto mandò a terra il campanile di Santo Andrea... potevo avere a un bel circa venti anni, in giorno di venerdì andammo in tre fratelli al bosco per tagliare legna, e per cogliere un poco di erba fu. A venti anni costa poco salire, e noi ci arrampicammo pei dirupi del monte Terminillo. La neve ne cuopre quasi sempre la cima, ed in coteste solitudini altro non si udiva che stridi, e il rombo delle aquile arrabbiate per non trovare pastura. Arrivati proprio in vetta al monte, ecco ci comparisce davanti una figura umana immobile, come se fosse scolpita nel sasso. La credemmo il Diavolo, e ci segnammo devotamente secondo la regola; ma quella ferma. - Candido, il nostro maggiore, che aveva più seme in capo di una zucca, osservò, che avendo resistito al segno della santa croce diavolo non poteva essere; ed infatti diavolo non era; però poco meno. Costui, solo sopra quella cima, stava considerando giù in fondo di un precipizio tagliato a picchi sul fianco della montagna, un nido di Aquila. Noi gli si accostammo cautamente, per timore che scosso allo improvviso non pericolasse; egli ci avvertì. Io lo guardai: misericordia! che occhi maligni! Pareva proprio dipinto in viso dalla invidia col colore verdenero117 dell'odio. Borbottava fra i denti:

«E' sono fuori di tiro, costà nessuno arriva a toccarli, e se ne stanno tranquilli come pontefici; in breve... ecco torneranno i genitori col cibo... e saranno tutti contenti; - i primi da me veduti, e rimasti felici

Qui volgendo il capo ci scòrse; noi lo salutammo, e gli domandammo qual fantasia lo avesse preso di avventurarsi sopra cotesti scavezzacolli, e se non temesse del capo-giro.

- Perchè volete voi sapere il mio segreto? - ci rispose turbato. - Che cosa importa a voi di me, a me di voi? Se siete banditi vi darò la moneta che ho indosso, e andatevene col diavolo, che vi porti.

E noi lo avvertimmo, che per quel quarto di ora eravamo boscaioli e cacciatori, e che non avrebbe corso danno a mostrarsi meglio garbato.

- Sta bene; non volete acquistare come re, guadagnerete come servi; accostatevi qua... presso me... guardate laggiù...

- Dove?...

- In dirittura del mio dito... in quel fondo ... il nido dell'aquila?

Circondato di nebbia, si scorgeva appena un punto nerastro.

- Sì, lo vediamo.

Ed egli, teso sempre il dito, aggiungeva: «A cui di voi si sente capace di portarmi i tre aquilotti...»

- O come sapete, io interruppi, che ci hanno tre aquilotti nel nido?

- Perchè gli scorgo distinti con le piume saure dorate. -

Io pensai: s'ei non è il Diavolo, come ha detto Candido, per lo meno ha da essere suo cugino; però che io ci vedessi allora, e veda sempre, mercè santa Lucia, come un cacciatore; e non pertanto non mi bastasse l'animo di scorgere altro, che una macchia cenerina grande come un pugno.

«Chi di voi, continuava costui, mi riporta i tre aquilotti si godrà dieci ducati di oro».

Dieci ducati di oro! E' ci era da comprare un reame. Volevamo andare tutti: per metterci d'accordo facemmo il conto, e toccò a me. - Sciogliemmo le corde, che noi altri cacciatori di montagna costumiamo tenere cinte a più doppii intorno alla vita, ed annodatele insieme ci parve potessero bastare per giungere laggiù: mi calarono; con la sinistra agguantava la corda, con la destra stringeva la coltella tagliente meglio di un rasoio: arrivo al nido, lo stacco, me lo assicuro fra il braccio, e il costato. Gli aquilotti strillano, - sono sordo; gli aquilotti beccano, - gli lascio beccare: agito la corda, mi tirano su, ed incomincio a salire piano piano come una secchia: ogni cosa cammina d'incanto. Giunto a due terzi, e forse saranno stati anche i tre quarti, della salita, mi percuote un rumore di aria rotta violentemente a modo di turbine, e m'intronano stridi disperati. Il giorno diventa buio, e al tempo stesso due punte m'investono, di cui l'una mi straccia la pelle del capo, e l'altra mi fora il cappello, e se lo porta via; perocchè le aquile fossero due, maschio e femmina, e a quanto pare, come Gildippe ed Odoardo, amanti e sposi: per giunta poi, genitori degli aquilotti che portavo meco. Ambedue rivolsero il volo per piombarmi di nuovo a perpendicolo sul capo. Io non aveva mai visto aquile così sterminate. Santo Uberto mi aiuti! Quando mi vennero vicino menai colpi da disperato; ne giunsi una fra la spalla ed il collo, ma non la ferii bene; all'altra mozzai un quarto di ala: ma egli era nulla; si alzavano, si abbassavano, volteggiavano, mi ferivano nel petto, su le spalle, nei fianchi, si avventavano così ratte ad artigli spiegati contro i miei occhi, che davvero incominciai a pentirmi di essere disceso laggiù: però mi difendeva il molinello, che faceva stupendamente veloce con la coltella per tutta la persona. Pensate un po' voi se dovevano, o no, essere nuovi spettacoli un cristiano sospeso per l'aria, che girava girava come fuso che torce la canapa, col nido degli aquilotti in collo, giuocare di scherma incontro alle aquile, le quali con tutte le malizie loro s'ingegnavano lacerarmi, e lo abisso pieno di stridi degli uccelli, e di voci umane le mille volte ripetute dagli echi, di penne svolazzanti, di sangue grondante, e di furore. Nel voltare la faccia in su incontro la faccia dello sconosciuto sporgente dalla balza, che rideva mostrando i denti a guisa di lupo quando ha fame; mi si abbagliarono gli occhi, e un sudore diaccio mi corse lungo la spina... Santa Vergine! Quale orrore! Nel menare colpi io aveva per inavvertenza tagliata più che mezza la corda, già abbastanza sottile, la quale mi teneva sospeso... mi pareva che mi fosse, e certo mi era cresciuto il vedere; imperciocchè io distinguessi cedere, e disfarsi ad uno ad uno i fili della fune, e gli occhi taglienti dello sconosciuto segare con le pupille la parte rimasta salda. In quel punto sentii come darmi di un grosso picchio sul capo, rimpiccolire la statura, strizzarmi nelle costole, e diminuire di grossezza. Chiusi gli occhi, e vidi fuoco; - gli riapersi ben tosto, però che quattro graffi dolorosi nella fronte mi ammonissero che accorressi a difenderli, se non voleva che le aquile me li cacciassero di nido, come io aveva fatto agli aquilotti loro. I fratelli, temendo che io mi fossi abbandonato, non sapevano sovvenirmi in altra maniera, che gridando «coraggio, fratello! Orazio, da bravo!» e dando alla corda terribili squassi, per cui ogni momento più s'indeboliva...

Sono presso all'orlo dello abisso due... braccia... un braccio... tremendamente atterrito stendo una mano al ciglione, getto il nido, e con l'altra mi aggrappo convulso, e bene mi avvisai; imperciocchè i miei fratelli, appena ebbi mostrato il capo, lasciassero la fune, e fuggissero via urlando da spiritati: pure, come Dio volle, ne uscii a salvamento, e mi gettai avvilito sopra la neve. Lo sconosciuto con quei suoi occhi di vetro mi guardava curiosamente, e mi esaminava in silenzio il capo: strappommi tre o quattro capelli, se gli recò nel palmo della mano, sempre esaminando; li pose di contro alla luce, li tagliò, e finalmente ridendo mi disse «tu hai avuto paura». I fratelli intanto, riavuti dal primo stupore, si accostavano levando gli occhi al cielo, e a grande stento si persuadevano che io fossi quel desso di prima. I miei capelli, in uno istante di agonìa, di neri si erano mutati in bianchissimi118.

Lo straniero con certi suoi argomenti ci dette ad intendere essere avvenuta naturalmente la cosa, che io non compresi allora; e molto meno saprei ridirvi adesso. Mentre favellava egli trasse di tasca un suo pugnaletto, e, senza punto cessare dalle parole, tagliò il capo agli aquilotti. Le aquile ferite, e spennacchiate non ardivano accostarsi a noi chè eravamo troppi, ed avevano già fiutata la polvere dei nostri archibugi119; però da lontano gittavano tali strida desolate, che fendevano il cuore. Colui, mozza ch'ebbe la testa all'ultimo aquilotto, ci disse:

«Orsù, miei bravi, volete voi guadagnare due volte tanto danaro di quello che avete avuto? Andate a rimettere questi tre aquilotti morti nel nido donde gli avete cavati. Non ho meco altra moneta; ma venite a Rocca Ribalda, ed io conte Cènci vi manterrò la promessa

A noi parve per quel giorno averne avuto d'avanzo; e poi, comunque bestie, le aquile avevano patito troppo strazio. Allora il barone si allontanò fischiando dall'altra parte del monte, senza darci, aspettare il saluto.

- E tutto questo che monta? - notò un vecchio bandito, che pareva nato a un parto col Caronte della cappella Sistina - O come hai provato, che tutto questo non accadesse per opera del demonio?

- Ma o non hai inteso, che il barone era il conte Francesco Cènci di Rocca Ribalda?

- Bella ragione! Non poteva il diavolo aver preso la sembianza del Conte Cènci? E mettiamo il barone da parte; o le aquile e gli aquilotti non potevano essere demonii?

- Ma vedi il caparbio! Ho sempre sentito dire che il diavolo è un gran signore. Ora pensa s'egli avesse voluto prendersi briga di una povera creatura come sono io.

- Eh! un'anima poi pesa quanto un'altra nelle bilance del diavolo.

- E dodici fanno una dozzina.

- Ma, a caso, portavi addosso nessuna reliquia?...

- Che domande! - Sicuro, eh! - Avevo un breve con la orazione di Santo Brancazio contro le streghe; un cornino di mare per la jettatura; la medaglia di San Tebaldo, oltre ad un pezzo di lumen Christi in tasca...

- Tutto questo può bastare; ma per chi va pei monti è necessaria la medaglia di San Venanzio. Ricordatevene, figliuoli; il maligno, capite Orazio, il maligno s'ingegnava, farti morire senza sacramenti, e portarti diritto dentro lo inferno: di qui, figliuoli, chè posso essere padre a tutti voi altri, comprenderete quanto profitto sia all'anima vostra starvi vicini a santa madre chiesa. E poichè dianzi mi è venuto parlare di rosario, o che trovereste male; per ammazzare il tempo, recitarne una mezza dozzina? Ma che dico male? Non sarebbe tanto bene messo nel salvadanaio per il mondo di ?

Il vecchio bandito trasse fuori di tasca una immagine della Madonna, e la conficcò col coltello nel tronco di una quercia. Piegate le ginocchia, prese a dire molto devotamente il rosario. I compagni, o mossi dallo esempio, o per vera devozione, o per mille altre cause, che sarebbe ricercare soverchio, conciossiachè i nostri atti sieno mossi ordinariamente da un complesso d'incentivi, non già da una singola cagione, piegarono le ginocchia, e rispondevano al vecchio alternando pater nostri ed ave marie.

Se il diavolo fosse passato per di si sarebbe dato al diavolo.

- Basta così, Ghirigoro, disse un bandito alzandosi; e mentre con le mani si poliva ambedue le ginocchia, aggiunse: ma sapete che il vostro dubbio intorno al diavolo mutato in due Aquile patisce, con reverenza, dello scemo!

- Scemo io? - E tu non sai, ignorante, che ventimila diavoli possono entrare dentro un lupino, ed un diavolo solo condire tutto un convento di frati Francescani? E non sai, che a salvarci dal diavolo non basta metterci a sedere nella piletta dell'acqua santa, e tenere un Cristo in bocca, chè tanto un foro per entrarci in corpo egli lo sa trovare, come neanche a Santo Antonio fece profitto averlo preso con le molle pel naso?

- Con le molle?

- Pel naso?

- Già! - rispose interrompendo il bandito - appunto con le molle pel naso...

- O sentiamo anche questa...

- La è chiara come l'acqua. Una volta il diavolo, per fare scappare la pazienza a Santo Antonio, si trasformò nello sgabello dove si metteva a sedere: eccoti, che il santo viene in cella, e subito va a leggere i libri di divinità; il diavolo gli scappa di sotto, e il santo a gambe all'aria. Un'altra volta si convertì in leggìo, e gli cascò sul naso rompendogli gli occhiali; e poi in cane, in gatto, e in donna; sebbene molti credano che quando il diavolo apparisce in forma di donna non si tramuti, ma che proprio vi sieno i Diavoli donne, o vogli dire le Diavolesse, e questo credo ancora io. Insomma; il maligno quante ne poteva immaginare, e tante gliene faceva; ma il santo, sempre con pace esemplare, lo prendeva per un orecchio, e lo ammoniva: «Diavolo, diavolo! ti par egli, che tu sia nato per gabbare un santo pari mio? Il mondo è grande, e possiamo starci tutti e due senza darci fastidio: va' pei fatti tuoi, e non mi rompere il capo». Poi lo metteva fuori di cella, e gli chiudeva l'uscio in faccia. Un giorno, che il nostro dabbene Santo Antonio si ammanniva a fare una bellissima meditazioncella sopra la moltiplicazione dei pani e dei pesci, inchiavacciò per bene la porta, e sul foro della toppa mise un pezzo di lumen Christi, sperando in questo modo avere la pace: ma e' furono novelle. Ad un tratto sente rodere, e con la coda dell'occhio vede il diavolo, che aveva cacciato il muso fuori da un buco scavato nella parete. Il santo, senza darsene per inteso, agguanta adagio adagio le molle del cammino, e poi in meno che non si dice amen si avventa sul diavolo, e lo prende per il naso. Il diavolo strillò... ma il santo sodo: il diavolo si provò in cima delle molle a trasformarsi ora in leone grande quanto il monte Terminillo, ora in serpente lungo un miglio; ma tanto non si usciva, e il santo lo tenne stretto fino a che non lo ebbe affogato dentro un orciuolo di acqua vite, conforme io stesso con questi miei propri occhi vidi, e verificai alla fiera di Tagliacozzo, dove un religioso di santissima vita me lo mostrò, e mi disse che il diavolo, prima di spegnersi nell'acqua arzente benedetta, aveva durato a friggere mezza ora e più come ferro arroventato120.

- Come! tu vedesti un serpente lungo un miglio?

- Il diavolo era rimasto nella forma ultima, che aveva preso nelle sue tramutazioni. Quella del serpente non era stata l'ultima.

- Dunque, o che figura aveva egli?

- Quella di talpa lunga due palmi compresa la coda...

Uno scoppio immenso di risa proruppe da tutta la brigata, sicchè il vecchio ne rimase sconcertato. Preso da cruccio, si avviluppò nel tabarro brontolando:

- Gia voi siete eretici; e un giorno o l'altro vi accorgerete voi, che cosa significi fare i banditi senza un po' di religione.


 

 

 




103 Nella Storia delle Rivoluzioni d'Italia degli anni 1847-1848-1849 del Generale Pepe viene attribuito al Salviati. Veramente cosiffatta osservazione è troppo più antica; e troviamo nelle Storie di Tito Livio screditati i Galli, come quelli che costumavano: ridendo frangere fidem. Però antichi, moderni esempii nostrali mi avrebbero persuaso a muovere questa querela grave, ma pur troppo meritata da un Popolo necessario così alla dannazione come alla salute del mondo, laddove in opera parzialissima alla Francia io non leggessi queste parole, che ho citate altra volta: «I Galli si dilettarono di buona ora a gabbare, come dicevano nel medio evo. La parola per loro non aveva nulla di serio: promettevano, poi schernivano, e così terminava ogni cosa!» Tristo giuoco, nel quale hanno troppo più scapitato che guadagnato. Deh! che anche per cotesto Popolo grande il giorno del giudizio non venga dopo la morte!



104 «Quando non ti possono far bene, tel promettono; quando te lo possono fare, lo fanno con difficoltà, o non mai: sono inimici del parlare romano, e della fama loro».

Macchiavelli, Della natura dei Francesi.

Il detrattore nostro è Lamartine: di lui soventi volte mi dolsi, e mi dolgo; molto più che non emendò uomo di stato le colpe del poeta. Costui bandì impedire ogni intervento straniero a danno dei Popoli, i quali si rivendicassero in libertà; e poi nella sua Storia della Rivoluzione di Francia del 1848 sostenne, la Francia non potere in conto alcuno patire la formazione di uno stato grande fra l'Austria e lei. Vieta politica, scusabile forse ai tempi del cardinale Richelieu, ed ostentata dal poeta per figurare di saperne. La costituzione del 1848, composta sotto gli auspicii di questo poeta, statuì, il Popolo francese non dovere far mai guerra contro la libertà di verun Popolo, e l'Assemblea francese assunse la impresa contro Roma; e questa fu brutta sequela di bruttissime ed antichissime ingiurie. Qual maraviglia pertanto che altri non rispettasse questa costituzione, se tanto poco mostrarono rispettarla quei dessi che la fecero? Provammo la Francia sotto tutte le sue trasformazioni politiche; è lecito tuttavia confidare in lei? - La condizione nostra mi sembra piena di dubbiezza; conciossiachè se la Francia non ci aita, quale altro Popolo lo voglia, e lo possa io non saprei vedere: e per altra parte deve sperarsi che la Francia senta la vergogna, e il pericolo della sua decadenza, non meno che il bisogno di riunire in un fascio i Popoli occidentali, per opporli agl'intenti a cui mirano i Settentrionali con miracoloso accordo.



105 Gli ruscelletti, che dei verdi colli

Del Casentin discendon giuso in Arno

Facendo i lor canali freddi, e molli,

Sempre mi stanno innanzi, e non indarno,

Chè la immagine lor vie più mi asciuga,

Che il male ond'io nel volto mi discarno.

Dante, Inferno, C. XXX



106 Tito Livio, Storie, lib. II. c. 2. Dionisio di Alicarnasso, Antichità Romane, lib. V. c. 13.



107 «Nell'anno 1616 passando di costà Leandro da Bologna trovò la città di Anagni tutta in rovina. Interrogati alcuni maggiorenti Anagnini intorno alla causa del soqquadro, questi gli narrarono come dal tempo della prigionia di Papa Bonifazio in poi non avessero avuto altro che sventure da piangere».

Così il buon Monaco Tosti, su la fede del Ciacconio: Vita di Bonifazio VIII. - Questo monaco insigne propugnò, in varie opere dettate con fiore di lingua e singolare dottrina, le prerogative del Papato; al tempo stesso però egli si mostrava tenerissimo della Patria italiana: ciò bastava ond'ei non potesse più durare tranquillo, in Monte Cassino. Tanto, nella stagione che corre, la paura di non essere trovato abbastanza umile, ed obbediente dai suoi Protettori vince nel Pontefice il merito che monaco, o sacerdote possa avere acquistato appo la Chiesa: e i Padri Gesuiti cantano Osanna! Io non gli avrei mai creduti di così poca levatura, come li conobbi a prova.



108 Numeri, Cap. VI.



109 Geremia, Cap. ultim.

«Propter montem Sion quia disperiit, vulpes ambulaverunt in eo».

 



110 Per questi fatti vedi i capitoli storici della Battaglia di Benevento.



111 Siccome quel che il Macchiavello scrive intorno alle discordie dei cittadini avrebbe giovato assaissimo negli anni passati, se avessero voluto leggerlo, e meditarlo; e siccome, forse, potrebbe essere di utilità nei futuri, io qui lo riporto supplicando Dio che i miei lettori lo antepongano, come merita, al testo:

«Le gravi, e naturali nimicizie, che sono intra gli uomini popolari, ed i nobili causate dal volere questi comandare, e quelli non obbedire sono cagione di tutti i mali, che nascono nella città: perchè da questa diversità di umori tutte le altre cose, che perturbano le repubbliche prendono il nutrimento loro. Questo tenne disunita Roma, questo, s'egli è lecito le cose piccole paragonare alle grandi, ha tenuto divisa Firenze, avvegnachè nell'una, e nell'altra città diversi effetti partorissero. Perchè le inimicizie, che furono da principio in Roma infra il popolo, ed i nobili disputando, quelle di Firenze combattendo si disfinivano. Quelle di Roma con una legge, quelle di Firenze con lo esilio e con la morte di molti cittadini terminavano. Quelle di Roma sempre la virtù militare accrebbero, quelle di Firenze al tutto la spensero. Quelle di Roma da una ugualità di cittadini in una disuguaglianza grandissima quella città condussero; quelle di Firenze da una disuguaglianza ad una mirabile ugualità l'hanno ridotta. La quale diversità di effetti conviene sia da diversi fini, che hanno avuto questi due popoli, causata. Perchè il popolo di Roma godere i supremi onori insieme coi nobili desiderava, quello di Firenze per essere solo nel governo, senza che i nobili ne partecipassero combatteva. E perchè il desiderio del popolo romano era più ragionevole, venivano ad essere le offese ai nobili più sopportabili, talchè quella nobiltà facilmente, senza venire alle armi, cedeva: dimodochè dopo alcuni dispareri a creare la legge dove si soddisfacesse ai desiderii del popolo, i nobili nelle loro dignità rimanessero, convenivano. Dall'altro canto il desiderio del popolo fiorentino era ingiurioso, ed ingiusto, talchè la nobiltà con maggiori forze alle sue difese si preparava, e perciò al sangue, ed allo esilio si veniva dei cittadini. E quelle leggi, che poi si creavano non a comune utilità, ma tutte in favore del vincitore si ordinavano. Da questo ancora procedeva, che nelle vittorie del popolo la città di Roma più virtuosa diventava, perchè potendo i popolani nell'amministrazione dei Magistrati degli eserciti, e degl'imperii essere con i nobili preposti, di quella medesima virtù, ch'erano quelli si riempivano, ed in quella città crescendo la virtù cresceva la potenza. Ma in Firenze vincendo il popolo, i nobili privi dei magistrati rimanevano, e volendo riacquistargli, era loro necessario con il governo, con l'animo, e con il modo di vivere simili non solamente ai popolani essere, ma parere».

Storie, Libro III.



112 Roberto di Ginevra, cardinale legato, cercò scostare i Bolognesi dalla lega promettendo loro il perdono del commesso errore, ed il mantenimento della libertà, che avevano ricuperata, purchè obbedissero alla suprema autorità della Chiesa; e siccome i Bolognesi risposero: «Noi siamo apparecchiati a tutto soffrire, piuttostochè sottometterci di nuovo a persone di cui il fasto, la insolenza e l'avarizia abbiano fattocrudele esperimento», il Cardinale proruppe: «ed io non mi allontanerò da Bologna, finchè non mi sia lavati piedi e mani nel sangue loro».

«...Il legato obbligò Galeotto Malatesti ad aprirli la città di Cesena, da questo signore mantenuta in fede della Chiesa. La Murata, quartiere pochi anni prima difeso eroicamente da Marzia Ordelaffi, fu dato per istanza ai Brettoni; ma questi barbari vi si comportavano troppo peggio che in città vinta: rapivano robe, mogli, figlie, risparmiavano ai cittadini maniera veruna di strazii. Perduta la pazienza i Cesenati assaltano alla sprovvista i Brettoni, e ne ammazzano 300 nel 1.º febbraio 1377. Il Cardinale, presente al fatto, condannò i soldati, e promise perdono, purchè i Cesenati tornassero ad aprirgli le porte, ed essi così fecero: allora costui ordinò perfidamente si mettessero a morte tutti. Non contento di aizzare alla opera atroce i suoi Brettoni, chiamò ancora l'Acuto (Giovanni Aukwood - falcone in bosco) co' suoi Inglesi, che stanziava in Faenza, a far sangue; e siccome questo capitano non si sapeva risolvere a commettere tanta enormezza, «Sangue, urlava furibondo il Cardinale, io voglio sangue!» Durante la strage soventi volte fu udito gridare: «morte, a tutti!» Sismondi, Storia delle Repubbliche italiane, tom. VII, p. 78. - L'Abbate Cistercense aveva già comandato, alla presa di Bezieres, si uccidessero tutti i terrazzani eretici, o no, che Dio poi gli avrebbe scelti a comodo nell'altro mondo: «Caedite eos, novit enim Deus qui sunt ejus». Caesar Heisterbac, lib. V, p. 21. - Tali preti un giorno; quali adesso, vel dicano Roma e Romagna, e l'effemeridi loro truci, ed irrequiete eccitatrici agli odii, alle persecuzioni, alla servitù, ed al sangue. S'è giusto così, giudichi Dio.



113 Macchiavello. Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino per ammazzare Oliverotto da Fermo, Vitellozzo Viletto, il signor Gianpagolo, e il Duca di Gravina Orsini.



114 «Nel seccare, e dare la via al lago Fucino fece prima fare una battaglia navale. Ma gridando quelli che avevano a combattere: «sia il ben trovato lo Imperatore; ti salutano coloro, che stanno per morire» e avendo egli risposto: «ed a voi pure salute!» essi pensarono, che mediante cotesto saluto egli gli avesse licenziati dal mettersi in pericolo di vita, e non volevano combattere. Per la qual cosa egli stette un pezzo sopra di se pensando se avesse a mettere fuoco alle navi, o piuttosto tagliarli a pezzi. - Finalmente levatosi da sedere incominciò a correre intorno al lago balenando, e stando per cadere, tantochè egli li costrinse a combattere parte con le minacce, parte co' prieghi. Affrontaronsi insieme in cotesto spettacolo l'armata Siciliana, e quella di Rodi, dodici galere per banda, e nel mezzo del lago sorse un Tritone di argento, il quale suonava la trombetta

Svetonio, tom. II, p. 226.



115 Hume. Storia d'Inghilterra, tom. I.



116 L'erba fu è propriamente la valeriana maggiore, o domestica, rimedio specifico per le palpitazioni del cuore.



117 Ordinariamente la natura dipinge i malvagi con i colori dei serpi, e dell'erbe palustri. L'appellativo verdinegro è di regia origine, e fu circa a quei tempi inventato da Filippo II, il quale in cotesto modo designava l'Escovedo, segretario del suo fratello don Giovanni d'Austria, commettendone la strage a don Antonio Perez suo ministro.

«Certo convendrà abrebiarlo de la muerte del Verdinegro antes que haga algo con que non seamos despues a tiempo, quel no deve de dormir ni descuidarse des sus costumbres. Acedlo y daos priessa ante que nos mate».

Questo è un biglietto scritto da Filippo II di propria mano a don Antonio Perez, riportato dal signor Mignet nella sua opera Antonio Perez e Filippo II, p. 70. - Tali erano le regie pratiche quando i principi volevano torsi davanti agli occhi un uomo increscioso: oggi si adopera diversamente: si chiamano sei, od otto paltonieri mascherati da giudici, e s'incumbenzano di finire l'uomo non abrebiando, bensì allungando, trapanando col diuturno carcere; uccidendo, insomma, il corpo mercè i dolori dell'anima. La morale, che presiede a siffatte giustizie, da Filippo in poi non è punto mutata; e chi ha vaghezza di conoscerla la può trovare esposta nel consulto del padre Diego de Chaves confessore del prelodato re Filippo II, al quesito, che gli mosse in proposito l'assassino Antonio Perez: «Lo advierto segun lo que yo entiendo de las leyes, que el principe seglar que tiene poder sobre la vida de sus subditos y vasallos, como se la pueda quitar por justa causa y por juyzio formado, lo puede hazer sin el, teniendo testigos pues la orden en lo de mas, y tela de los juyzios es nada por sus leyes, en las quales el mismo puede dispensar. - No tiene culpa el vasallo, que por sii mandado matasse a otro, que tambien fuere vasallo suyo por que se ha da pensar que lo manda con justa causa, como el derecho presume que la ay en todas les acciones del principe supremo». Vedi Mignet, Opera citata, p. 66. - Le quali parole volte in italiano suonano così: «Vi ammonisco secondo la mia opinione intorno alle leggi, che il principe secolare il quale ha potere sopra la vita dei suoi sudditi e vassalli, come se la può prendere per giusta causa, e per via di regolare giudizio, così può torsela anche senza, essendo che le procedure giudiziarie nulla rilevino davanti i suoi comandamenti, potendo egli dispensare da quelle... commette peccato il vassallo, che per ordine suo ammazzasse un uomo, che fosse pure vassallo di lui; conciossiachè si abbia a ritenere che il re comandi per giusta causa, conforme per diritto si presume che la giusta causa si contenga sempre in tutte le azioni del principe supremo. - Egregio re, più egregio ministro, egregissimo confessore! Secolo di oro, a cui sacerdoti e principi, stretti in fraterno abbracciamento, vorrebbero ricondurre la sviata umanità.



118 Questo fatto successe in Sardegna a Domus nova nel 1839; con la differenza, che il cacciatore invece di andare pei nidi di Aquila, cercava quelli di Avvoltoio. Intorno a queste stupende, e subitanee trasformazioni di capelli, oltre gli esempii addotti in parecchie opere mie, il signor Alibert, nel vol. I. p. 180 delle malattie della pelle, narra di una donna bionda diventata nera dopo il travaglio del parto, e di altro individuo il quale per malattia tramutò i capelli bruni in rossi. Parla eziandio di capelli turchini, e verdi; questi si vedono frequentemente ai fonditori. Un tale Bichat imbiancò da un punto all'altro per cattive nuove. Perat moglie di Leclerc, citata a comparire davanti alla Camera dei Pari nel processo Louvel, incanutì nella notte. Si sono vedute barbe nere da un lato, e bianche dall'altro, come canuta una parte del capo soltanto. Rayer, Malattie della pelle, t. III. p. 81.



119 Questa virtù di odorato in alcuni uccelli si nega: eppure non si può mettere in dubbio, che quando una bestia morta passa in istato di putrefazione, dalle parti più remote dell'orizzonte si vedono comparire punti neri, a mano a mano avanzarsi, e svelarsi alfine per corvi, o per avvoltoi, attirati dagli effluvii ch'emanano dalla carogna per divorarla. Genè, Errori popolari sopra gli animali. - Corvo ed Avvoltoio.



120 Questo miracolo veramente non operò Santo Antonio, bensì San Dunstano abbate di Glaustenbury, e questa sua presa del diavolo con le molle tanto grande autorità gli compartì sul popolo, ch'egli ne trasse baldanza da imprigionare, e perfino uccidere la sua regina, senza che per ciò ei ne menomasse il credito. Hume, Storia d'Inghilterra, t. I. - Così sacerdoti, e re procedono concordi finchè si tratta immontonare il Popolo; immontonato che sia, si divorano fra loro; e la storia è aperta per dimostrarlo.






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