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Francesco Domenico Guerrazzi
Beatrice Cènci

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CAPITOLO XIX

 

LE FANTASIME.

 

Tra male gatte è capitato il sorco.

Dante, Inferno.

 

 

Appena il vecchio masnadiero aveva cessato di favellare, che una voce sonora e argentina rompendo i silenzii della notte, portò agli orecchi dei banditi questa canzone:

 

Avventa le zanne,

Atterra lecciòli,

Nocciòli - corniòli,

Fa il bosco tremar.

 

- Non vi muovete, disse Orazio ai compagni, che entrati in sospetto già già ammannivano le armi: egli è l'amico nostro; il sordo-muto della Ferrata: egli non possiede in questo mondo nulla, eccetto voce e miseria; e la prima voi non potete, e la seconda voi non gli volete togliere.

Infatti indi a breve comparve il garzone della Ferrata, il quale oltre la età scaltrissimo, aveva trovato il suo conto a fingersi sordo-muto, e idiota, e così prese a interrogarli:

- Marzio dov'è?

- Se ce lo insegni noi te lo diremo. Questa è l'ultima notte del nostro obbligo di aspettarlo; o viene in breve, o non verrà più: il meglio, che tu possa fare, è di attenderlo qui con noi.

- Questo è guaio grande: che importa pescare, se non si bada alla rete?

- Vien qua, fanciullo, e cantaci la tua canzone; intanto Marzio potrebbe venire.

- Oh! vi pare egli? Ella è una canzone composta da qualche montanino ignorante di questi luoghi; - pare proprio fatta con la piccozza.

- Che sia stata composta su questi poggi non ha da dubitarsi, interruppe Orazio con modo acerbo; ma che l'abbia fatta uno ignorante non è vero, brutta scimmia, perchè l'ho fatta io...

- Orazio... vi chiedo perdono... io non credeva...

- Credessi, o non, credessi, impara che non istà straziare, la canzone a cui la canta: veramente la mia poesia non vale la tua voce; ma ad ogni modo, senza i miei versi come sapresti far sentire i tuoi canti?

Il garzone, per torsi d'impaccio a rispondere, sciolse una nota limpidissima. Orazio non ebbe coraggio interromperlo, ed egli continuò:

 


Correte alle poste,

Chè scende il cignale

Non venne l'uguale

Pei boschi a stormir.

 

Avventa le zanne,

Atterra lecciòli.

Nocciòli, - corniòli,

Fa il bosco tremar.

 

Per setole ha stecchi,

Ha fiamme per occhi:

Nessuno mi tocchi,

Grugnando egli va.

 

Le belva percosse

Del mostro allo strido,

Disertano il nido,

I figli, e l'amor.

 

I colti devasta

Così, che ai bifolchi

Par corsa nei solchi

La fiamma del ciel.

 

Le macchie salvate,

Ai campi accorrete,

Battete - uccidete

Quel verro crudel.

 

La carne del verro,

Un rubbio ben pieno

Di gran saraceno

Il premio sarà.

 

La testa, e del tiro

Si aspetta l'onore

Al franco uccisore

Del marzio cignal.

 

E premio più caro

Lo aspetta, del viso

Di Clelia un sorriso,

Baleno di amor;

 

Di Clelia la bella,

Che quale la mira

Delira, - sospira,

Più posa non ha.


 

- Eccoti un bacio, e uno scudo; disse Marzio uscendo da un macchione in compagnia di Olimpio. Iddio ti ha dato la grazia del canto come il raggio alle stelle - luminosa, e soave: io ti chiamerò l'usignòlo dei banditi.

Ma il giovanetto, lusingato dalle lodi, ricusò la moneta, e rispose:

- Marzio, io per danaro non canto; la voce mi fu data senza pagarla, ed io la dono, non la vendo: così mi sembra il canto più bello. Io ti servo per amore, e basta. Il nostro amico della Ferrata mi manda a dirti, che il Barone è giunto...

- È giunto?

- Certo, ed io l'ho visto; ha seco la moglie, i figliuoli, ed una scorta di guardie campestri, o masnadieri che sieno. Io vengo ancora a cercar muli dai carbonari perchè il vecchio non intende fermarsi, e vuole continuare il viaggio in questa stessa notte.

- Quanti di scorta?

- Dodici; ma non di queste bande: alla parlata paiono delle parti di Toscana.

Presto furono in ordine i muli. Orazio, così ordinando Marzio, si tinse il viso e le mani di carbone; tolse la vesta di un carbonaro, e insieme col garzone menò le bestie alla Ferrata.

I banditi levarono il campo, e seguitando Marzio si ridussero al luogo predisposto alle insidie.

Arrivati i muli alla osteria don Francesco comandava li caricassero, e quando fossero in ordine lo avvertissero per partire. Non passò bene un'ora, che ogni cosa era in punto; ond'egli discese per esaminare se tutto fosse a dovere. Mentre da un luogo ad un altro si affaticava, un pipistrello investì con l'ale la lanterna che gli portavano davanti, sicchè l'uccello sbalordito gli cascò in mano; egli la scosse prontamente con un senso di ribrezzo gittando via la trista bestia, e notò:

- Cattivo augurio è questo, e prudenza vorrebbe sospendessi il partire... Qui l'oste, mostrando un viso di sasso - dove rompeva qualunque vergogna - soggiunse:

- Non vi faccia specie, Eccellenza, perchè il cattivo presagio viene compensato, anzi superato con uno buono...

- E quale?

- Caricando i fusti del vino, poco anzi, se n'è rotto uno... e siccome il vino sparso è allegria...

- Per avventura la fiasca dello keres, dove si leggeva il numero tinto di bianco?

- Non vi si leggeva nulla; state tranquillo, e fiasca non era.

- Andiamo a vedere un po' dove si è rotto...

- Giù in cucina...

- Vi sarà rimasto il guazzo...

- Eh! no, i mattoni lo hanno bevuto; anche i mattoni hanno voluto fare un brindisi a vostra Eccellenza...

- Ma questa casa parmi fabbricata almeno da un secolo addietro.

- Sicuramente; ma il pavimento è nuovo.

- Chi aveva ragione di noi altri due: tu, che facevi derivare il nome oste da ospite; od io, che lo desumeva da nemico?

- L'oste, a vero dire, interruppe il carbonaro, non fa razza da se; ma la natura lo ha messo nella grande specie, che dondola tra il somaro e il coccodrillo.

- Chi vide mai questi animali?

- Voi gli avete davanti, Eccellenza; questa razza è il popolo, che quasi sempre porta, qualche volta divora.

Don Francesco, percosso da coteste parole, prese la lanterna e la sollevò al viso del carbonaro. Orazio riconobbe lo sguardo verde, il riso maligno, la faccia di marmo del conte. Il Conte ravvisò i capelli canuti e le sembianze di Orazio, comecchè gli sembrasse assai prostrato dagli anni, e forse, come ei credeva, dai patimenti.

- Pare che noi non siamo conoscenze nuove, favellò il Conte; l'avventura dei capelli bianchi non è di quelle, che si possano leggermente dimenticare.

- È vero, i capelli bianchi non si dimenticano, - già si rammentano da se.

- Quantunque io vi conservi rancore per non avermi contentato a riportare gli aquilotti nel nido, pure, che siate uomo animoso non è da dubitarsi. - Mi duole che la fortuna non vi abbia sollevato; e se potessi, io le direi in viso che ha torto, e si vergognasse una volta.

Orazio, che incominciava a sentirsi venire i brividi addosso per la paura che gli metteva lo aspetto del conte, alle parole oneste tutto si riconfortò: gli piacque udire rammentare il caso del nido, e si profferse svisceratissimo al conte. Però Orazio accanto a don Francesco non era più quello di prima; il suo coraggio andava in fumo; e questo avveniva perchè, secondo una bella espressione dello Sterne, con molta ala di vela non aveva una oncia di zavorra; e imperterrito contro le palle, credeva alle streghe, temeva della jettatura, e senza le cinque o sei medaglie che portava appese al collo egli non si sarebbe attentato giammai di passare solo la notte.

Don Francesco, Orazio, e il garzone (ch'era tornato a fare da idiota, e a favellare con ammicchi) in compagnia di sei guardie campestri aprivano la caravana; in mezzo le donne, Bernardino, i servi armati e le bagaglie; dietro altre sei guardie chiudevano la comitiva.

Beatrice più volte si era affaticata ad accostare suo padre, più volte lo aveva supplicato con parole, o con cenni a porgerle ascolto: prima di uscire dalla osteria gli si era gittata in ginocchio davanti, e gli aveva detto:

- Signor Padre, non andate oltre, o siete morto... Marzio...

Ma il Conte a cui cotesto nome suonava delitto, e reputando eziandio le continue smanie della figlia come sforzi supremi a sottrarsi dalla imminente prigionia della Petrella, la ributtò con maniere acerbe, ed ordinò che la guardassero, e la impedissero di trascorrere dal luogo che l'era stato assegnato.

La notte diventò più buia, chè metteva un'aria, piena di nuvole a strappi, chiamata dai campagnuoli le pecorelle; e a mano a mano che salivano il fresco si faceva mordente; il vento zufolava per le fronde degli alberi: si cacciarono su per l'erta di Rio Freddo alternando discorsi, e avvertimenti di badare al cammino, che davvero meritava attenzione. Passato Rio Freddo, per la piana del Cavaliere pervennero a Rocca Carenzia. Di qui ripresero a salire, per una viuzza del Monte di Bove, fin sopra la cima, dove videro comparire la luna.

Quanto è diverso il primo quarto di questo pianeta dall'ultimo! Il primo rassomiglia una speranza, l'ultimo uno addio: gli uomini che videro di frequente il primo, bene pensarono a convertirlo in ornato della Diva dei boschi; quelli poi che più spesso contemplarono l'ultimo, ne fecero con migliore accorgimento lo attributo di Ecate, la Dea dello inferno. Chiunque ha contemplato la luna nelle varie sue fasi, per molte notti, ad ore diverse, comprende come possa essere stata salutata a ragione Dea degli amanti, e dei ladri. Le tenebre, non che ne fossero rischiarate, sembravano più triste; e il vento trasportando le nuvolette spesse, e più o meno dense, venivano ad alternarsi ora buio intero, ora mezza oscurità, ora splendida luce, che trasformavano stranamente e rendevano più terribile la faccia delle cose.

Potevano essere circa le due ore dopo la mezza notte, allorchè, traversata Rocca di Cerro per la via Valeria, rasentarono il taglio portentoso delle rupi di Tagliacozzo. Se avesse albeggiato, od anche fosse stata luna piena, quinci sariasi potuto distinguere la Rocca Ribalda; imperciocchè, passato alcun poca di valle, s'incomincia a salire il colle della Petrella, in cima del quale, sopra una rupe di pietra calcare giallognola, che si fa cenerina dalla ròcca.

Io co' miei viaggiatori ho percorso buon tratto della campagna; ma quantunque prossimo, non sono arrivato anche al termine del cammino: avanti dunque, chè pochi più passi rimangono.

La via che conduce alla Ribalda sopra la schiena del colle Petrella è aspra, rotta, e incassata in due ripe donde si rovesciano giù per le pareti pruni, e cespi di macchia cedua ove più radi, ove più folti. Nella stagione delle piogge il sentiero convertendosi in torrente, mai le acque giungendo, per la ripidezza dello scolo, a toccare la cima delle sponde che fanno loro di letto, ne avviene che il sentiero largheggi nella base, e si restringa in cima.

Quando il Conte Cènci con la sua compagnia entrò in questo cammino la luna si era appiattata dietro una nuvola nera, che viaggiava, a cagione della sua mole, più lenta delle altre, sicchè procederono quasi tentoni per un buon quarto di miglio. Allo improvviso la luna liberandosi dalla nuvola gitta un raggio obliquo, ed illumina la scena. Don Francesco alzando la testa vede sbucare fuori delle macchie una moltitudine di strane sembianze affacciate dal ciglione con gli archibugi tesi pronti a sparare. Non vi era scampo a resistere: a fuggire nemmeno, perchè l'erta dirupata rompeva la lena, e la china, oltre all'essere impedita dalla gente stipata dietro le spalle, non presentava intoppi minori. Coteste erano veramente forche caudine.

- Fermi tutti: - se muovete un passo siete morti! -

Così si fece sentire una voce dall'alto, come folgore che rumoreggi per le nuvole; e la compagnia si fermò.

I banditi, i bravi, e le guardie campestri, maniere di gente che assai rassomigliavano fra loro, come fu avvertito poco anzi, si mostravano quasi sempre osservatori fedeli della data promessa. si creda già, che studio siffatto muovesse da sentimento generoso: tutto altro. Egli veniva dalla considerazione, che dove avessero mancato, cotesto loro mestiero diventava fallito; imperciocchè i Signori o avrebbero smesso le ribalderìe, che da loro si volevano mandate ad esecuzione, o avrebbero ricorso ad altri uomini e ad altri provvedimenti: sicchè essi ponevano nella sciagurata loro vita lo impegno medesimo, che il buono artefice mette a riportare un lavoro puntuale per mantenersi il credito e lo avventore. Indotte da questo, le guardie campestri di scorta al Conte Cènci non fuggirono; e il caporale, fattoglisi dappresso, gli favellò:

- Eccellenza, che abbiamo a fare?

- Il leone è caduto nella fossa...

- Se ci muoviamo ci ammazzano come cani senza difesa, e senza vendetta.

- Lo vedo; qui forza non vale. Entrate a parlamento; guardiamo se l'arte giova, e procurate capitolare co' banditi...

- Oe, gridò il caporale, da quando in qua cane mangia carne di cane?... Fin qui credeva, che dai confetti di piombo e dalle nozze di canapa in fuori non avessimo a correre altri pericoli...

E gli fu risposto:

- Parole corte. Noi non cresceremo il fascio delle legna al boscaiuolo. La scorta dei dodici uomini torni sopra i suoi passi senza essere svaligiata: depositi gli archibugi, che domani alla calata del sole ritroverà alla osteria della Ferrata. I lupi dello Abruzzo non dicono due volte: badati; la seconda parlano con la bocca degli archibugi.

- E la compagnia?

- Con essa abbiamo altri conti.

Le guardie campestri non istettero ad aspettare altre intimazioni, e si allontanarono senza profferire parola, fatto prima fascio delle armi.

- Il Conte Cènci passi alla coda della caravana; - intimò la medesima voce.

Il Conte, ostentando allegria, obbediva. Orazio lo seguitava, e lo intendeva favellare così:

- Semprechè nelle cose adoperai avarizia provai ogni successo a traverso: - doveva prendere cinquanta di scorta, ed avrei risparmiato un tesoro. - Cotesti gentiluomini, oltre la perdita delle bagaglie, chi sa quanto pretenderanno di riscatto!

Giunto alle spalle della caravana, quattro banditi saltarono giù dal ciglione; e siccome, malgrado il proponimento di andare per prova di arte, il naturale istinto spinse il Conte a metter mano al pugnale, appena fece l'atto si sentì stringere le braccia da due tanaglie di ferro. Sì volse irritato per vedere chi fosse, e riconobbe Orazio. Orazio, a cui cresceva forza la paura, che gl'incuteva il Conte.

- Ah! siete voi, cacciatore?

- Sono io...

- Pare, che il quarto d'ora del bandito sia venuto per te...

- Certo in questo punto smetto la parte del somaro, e prendo quella del coccodrillo....

- Guarda da legarmi; io non ti perdonerei mai questo oltraggio: impara, villano, a rispettare i gentiluomini.

- Ah! signore, perdonateci innanzi tratto perchè noi siamo ignoranti, e non sappiamo altro che guardare alle nostre sicurezze. - Questi quattro compagni sono scesi appunto per aiutarmi a legarvi...

- La comitiva, gridò la voce dall'alto, prosegua il suo cammino. Il Conte Cènci ha da restare con noi. -

In questo punto un capo si affaccia per un momento all'orlo del ciglione. Beatrice, che era stata attenta a contemplare i varii casi che si succedevano, lo vide, lo riconobbe, e comprese pur troppo qui non trattarsi di sequestro per estorcere danari, siccome costumano ordinariamente i banditi romani e del regno: più terribile intenzione covava sotto, s'ingannava; perocchè lasciatasi andare giù dal cavallo si pose al fianco del padre, e incominciò a parlare di forza con la faccia levata in su:

- Il ragnatelo insidia la mosca con reti di bava, e se la porta nel buco per succhiarle il sangue. Voi non siete lupi dello Abruzzo, ma ragnateli di sotterraneo. L'aquila per l'aria vive di preda, e il leone sopra la terra; siate leoni, ed abbiatevi la preda: io non vi parlo di quanto portiamo con noi; questo è già vostro: intendo parlarvi del nostro riscatto. Chiedete; noi siamo pronti a pagarlo; chiedete quanto vi basti ad arricchirvi tutti, e a farvi stare contenti in casa vostra senza le cure della miseria, e il pericolo della forca... noi possediamo danari più che non potete immaginare; fissate voi i limiti del nostro riscatto...

- Beatrice, vaneggi? Per fare quello che suggerisci essi non hanno mestieri dei tuoi consigli... e sono capaci da non lasciarti neanche gli occhi per piangere...

- Tacete, Padre mio; voi non pensate qual pericolo vi pende sopra la testa: lasciatemi favellare. - Noi vi pagheremo questo tesoro, purchè lasciate che con noi venga il Conte: egli si legherà per fede a sborsarvi il danaro di qui a dieci giorni. Se non vi basta la sua promessa aggiungerò la mia, e la conformerò con giuramento; che dalla parte di mia madre mi vennero moneta, e gioie in buon dato. Se neanche questo vi basta, tenete me in ostaggio, e lasciate andare il Conte: io sono giovane e sana, egli vecchio ed infermo. Pensate alle vostre famiglie, - pensate alla contentezza di mangiar pane non immollato nel sangue... ai figliuoli che avete... a quelli che potrete avere... ai vecchi padri pieni di necessità... affamati davanti lo spento focolare...

- Via - interruppe una voce imperiosa; ma Orazio rispose:

- Lasciamola parlare: udiamo fino in fondo... che molte cose buone mi pare che le dica.

- Sentite, proseguiva Beatrice, se strascinate via il Conte voi ve lo troverete ammazzato fra le mani; voi non guadagnerete nulla, perchè quelli che vi hanno condotto non vogliono la moneta, ma il sangue di un povero vecchio; - e poco scampo vi rimarrà dalla forca, che le corti di Napoli e di Roma, mosse dalla fama del personaggio e dalle aderenze potenti, v'inseguiranno come lupi di macchia in macchia, e vi converrà morire di laccio, o di piombo. Dopo Sisto V, quale spelonca è rimasta ignota? Qual ròcca inespugnata? - Come finì il Cavaliere dei Pelliccioni? Impiccato. Come Marco Sciarra? Impiccato. Come il signor Duca di Amalfi? Impiccato; tutti impiccati comecchè potentissimi. Sappiate dunque adoperare la occasione che la fortuna vi mette fra le mani...

La fanciulla favellando caldamente incominciava a insinuarsi nello spirito dei banditi, in ispecie in quello di Orazio; e dove poco più le fosse stato concesso parlare gli avrebbe svolti tutti, se Marzio, comprendendo il pericolo, non avesse mandato Olimpio a qualche distanza a sparare lo archibugio. La botta empì di sospetto i banditi; e Marzio allora, per maggiormente spaventarli, gridò con quanto fiato aveva in gola:

- Maledetti! Egli è tempo questo da sentir cantare la calandra?... Alla foresta! alla foresta! - La corte ci è sopra.

E Olimpio, correndo, urlava a sua posta:

- Salva... salva... la corte ci è sopra.

- Il Conte... portate il Conte...

A Beatrice toccò una spinta nel petto, che la mandò a percuotere con le spalle nella parete del cammino; e mentre, punto sbigottita, continuava a gridare:

- Udite... siete ingannati... cinquanta contro uno..., e tali altre parole, trassero seco loro il Conte; il quale persuaso che fosse negozio cotesto da comporsi a danaro, sopportava meno acerbamente lo affronto, volgendo già nel cupo animo mille disegni di vendetta crudelissima. Per quale via lo traessero i banditi a lui non fu dato di scorgere, però che a breve distanza, di costà gli ponessero la benda sopra gli occhi; e poi, scaltrito com'era in simili arti, capì che lo facevano avvolgere sopra se stesso per confonderlo, onde in qualunque evento non riuscisse a rinvenire più il luogo.

Allo improvviso gli parve essere rimasto solo; portò le mani alla benda, e non udendo voce alcuna che lo impedisse togliersela se la levò ad un tratto, e si trovò dentro una caverna spaziosissima. Senza indugiare un momento prese una lanterna lasciata appesa alla volta, ed esaminò sottilmente le pareti, il pavimento, e il soffitto; gli parve che le pareti e il pavimento in parte fossero vuoti, ed in vero erano; ma così bene chiusi con assi, che ogni via alla fuga conobbe disperatamente impedita. - Una tavola, qualche scranna, e un mucchio di foglie coperto di pelli erano i soli mobili che guarnivano il luogo. Don Francesco si pose a sedere, e più che pensava più si persuadeva, che se il riscatto non gli apriva le porte di cotesto sepolcro, qualunque altro modo per uscirne gli sarebbe tornato corto. Altre volte si era trovato ad andare prigione, ed anche vi aveva corso pericolo non piccolo, ma pure non si era mai sentito fiaccato come adesso; forse la età gli aveva sottratto alquanto della baldanza per cui fu temuto una volta, e forse anche un presentimento lo travagliava indistinto, e grave, che lo teneva sbalordito: insomma, non può dirsi che avesse paura, ma neppure il coraggio consueto lo sosteneva. Posizione maravigliosa per sentire le trafitte del dolore; imperciocchè da un lato manchi la forza per prorompere, e divertirci in mezzo alla procella dello sdegno, e dall'altro manchi la stupidezza, che ci rende insensibili ai colpi di ventura.

Dovevano essere passate parecchie ore dacchè ci si trovava chiuso dentro, avvegnadio s'impadronisse di lui uno sfinimento che gli faceva desiderare qualche ristoro. I bisogni del nostro fisico si fanno sentire anche in mezzo alle tempeste dell'anima: il pane par cenere, il vino fuoco dentro lo stomaco, che li chiede con angosciosi strappamenti, e l'uomo è costretto a nutrire il cancro che lo divora. Stette un pezzo prima di risolversi a chiamare, però che alla sua fierezza pesasse chiedere la vivanda ai banditi; ma la natura urgendo, gli fu mestieri piegarsi a picchiare alla porta. Tocco appena l'uscio gli venne aperto, e subito comparve un garzoncello accorto, che con parole ossequiose, ma che pure svelavano un senso sottilissimo di scherno, gli disse, che da buon tempo stava di fuori aspettando; non avere ardito prevenire la chiamata temendo disturbarlo nelle sue meditazioni; ed egli sapere essere il carcere luogo adattatissimo a meditare. Al Conte parve ravvisare il garzone, e veramente egli era il sordo-muto della osteria della Ferrata.

- Dimmi, fanciullo, come hai tu fatto a recuperare la favella? - domandò il Conte.

- Per virtù di Santo Andrea Avellino, il quale si diletta operare per queste parti di miracoli assai.

- Se io n'esco, pensò il Conte, furfanti, ve li darò io i miracoli di Santo Andrea Avellino. La rete è stata tesa da mano maestra; anche l'oste d'accordo... Ma dov'è Marzio? Non fosse rimasto ucciso? - Fosse una trama ordita da lui? Ah! potessi sapere che cosa avvenne di Marzio!

- Eccellenza, proseguì il garzone, se ha cosa da comandarmi rimango; altrimenti non vorrei riuscirle importuno...

- No, figlio mio; ti ho chiamato perchè tu veda portarmi un po' da mangiare...

- Subito, Eccellenza; - e andava.

- Senti, vieni qua; adesso fa giorno, o notte?

- Notte, perchè senza lumi qui non ci si vedrebbe.

- Non qui... ma fuori...

- Fuori è buio ugualmente. Se poi lassù faccia notte o giorno io non saprei informarne vostra Eccellenza, perchè per ora non mi concedono salire...

- Che parli tu di salire? A me non parve scendere venendo qua dentro.

- Vi è parso perchè è dolcissimo il pendìo, che mena nello interno della spelonca; ma avete da sapere, che ci troviamo delle miglia ben molte sotto terra.

Don Francesco vedendo essere preso a gabbo, dal petulante garzone gli vibrò tale uno sguardo, che per quanto costui fosse sfrontato non ebbe forza di sostenerlo, ed uscendo avvertiva:

- In un baleno torno col pranzo, che

 

Il nostro gregge e l'orticel dispensa

Cibi non compri alla non parca mensa,

 

come dice il signor Torquato Tasso.

Questo baleno durò per così lungo spazio di tempo, che il Conte attribuendo la dimora a nuova malizia del garzone, sempre più s'inviperì contro di lui, e dispose dargli tale ricordo, che se ne potesse rammentare per un pezzo. Tornò alla fine il ragazzo simulandosi ansante come chi viene in fretta, e portò due candelieri di singolare fattura: erano due mani scarne, che reggevano le candele accese; i lini per imbandire la mensa, e di più ragioni vivande accomodate squisitamente, e in copia da bastare a dieci: dispose ogni cosa con accortezza sopra la tavola, procurando starsene lontano quanto meglio poteva dal conte. - Questi spiava il modo di mettergli le mani addosso; ma il garzone, svelto, si cansava a guisa di mosca sul muso dello alano, che gli svolazza fastidiosa ed assidua pel naso, per le orecchie, e per gli occhi; e quando sbuffando avventa le zanne fugge via, ed egli morde l'aria. Don Francesco allora, traendosi di tasca un ducato, gli disse:

- Vieni qua, figliuolo, come ti chiami?

- Chiamatemi come vi pare, Eccellenza...

- Ma un nome devi averlo; non ricevesti tu il battesimo?

- Sarà; sebbene avessi a trovarmici presente, pure non me ne ricordo... Ah! aspettate; ora sì che mi viene in mente; mi posero nome Onorato...

- Onorato! E' pare, che per metterti cotesto nome il tuo compare non consultasse l'astrologo.

- Così diceva ancora io; ed anche se prima di battezzarmi avessero sentito il mio parere, non avrei permesso simili bugiarderie.

- Va, tu mi piaci; siete tutti concettosi voi altri: prendi questo scudo, che te lo dono.

- Ed io non lo voglio...

- Perchè?

- Perchè non si deve accettare per limosina quello che possiamo pretendere per taglia.

- Ah! dunque anche tu vuoi taglieggiare il barone?

- Figuratevi ch'e' sia come carne di fagiano; tutti nella vita vogliono assaggiarne una volta.

- Anche tu vuoi taglieggiare il barone!

E si frugava in seno; ma il garzone presagendo la mala parata, di un salto toccò la porta, e si riparò dietro l'uscio.

- Prendi questo per taglia; e sì dicendo, il Conte scagliava il pugnale contro il ragazzo: questi lo schivò facilmente, e il ferro andò a piantarsi dentro la porta, dove, dopo avere alquanto tentennato, quietò. Allora sbucò fuori, lo staccò senza ira, e sporgendolo verso il conte gli disse:

- Io ve lo conserverò con diligenza, e spero in Dio potervelo rendere quando i miei superiori me lo concederanno.

Il Conte vedendo fallito il colpo, mormorò dispettosamente: ne anche un colpo mi riesce più ad assestare! - E si accostò alla mensa. Se la cura molesta non vi si fosse seduta accanto a lui, per certo il cibo gli sarebbe tornato accettissimo atteso la grande fame che lo travagliava: ad ogni modo prese a tagliare la vivanda, ed accostandosene alla bocca un frammento non potè trattenersi da esclamare «ho fame!...»

Nel medesimo punto, a breve distanza da lui, una voce lamentevole rispose «ho fame!..»

Gli parve illusione; ma nel sollevare lo sguardo ecco li, proprio seduto a mensa dirimpetto a lui, gli apparisce uno spettro pallido, lungo, orribilmente scarno, con occhi spenti a guisa di pesce morto, il quale, poichè l'ebbe fissato in volto, gli parve che presentasse, e presentava certo le sembianze di Olimpio. Il Conte, tenendo il braccio sospeso fra il desco e la bocca, prese a dire:

- Ch'è questo? Sono io diventato don Giovanni Tenorio, e voi, mio bello spettro, volete sostenere le parti del commendatore di Lojola? Ma io mi permetto osservarvi, che il Commendatore era stato invitato da don Giovanni, e voi venite spontaneo; la quale improntitudine sconviene altamente a spirito bene allevato: inoltre il Commendatore era di marmo, e voi di qual materia siete? Ad ogni modo, ben venuto signore spettro, e se vi garba mangiare, mangiate, che buon pro vi faccia.

Mirabile a dirsi! Appena ebbe il conte profferito coteste parole, che lo spettro, come se lo travagliasse quella terribilissima infermità, che i medici chiamano bulimo, o fame canina, si gittò frenetico sopra le vivande imbandite, e tutte le fece sparire in un battere di occhio, arraffando anche il piatto posto davanti al conte: qui fermandosi, ingolò tovagliuoli, e tovaglia; poi azzannò le stoviglie, e stritolandole co' denti ne trangugiava i pezzi121. Al conte, fra maravigliato e atterrito, non bastò l'animo di salvare nulla, nemmeno il frusto di carne fitto dentro la forchetta; ogni cosa divorò lo insaziabile vampiro: poi ridivenne immobile; e guardando fisso il conte, con la bocca aperta, e mostrando i denti ripetè:

- Ho fame!...

- Per la morte di Dio! - esclamò don Francesco, ostentando una baldanza che era lontana dall'animo suo, - che cosa ho a darti io? - -E scorto in un angolo della caverna certo fascio di paglia, lo spinse presso a cotesta belva dicendo:

- Prendi, divora...

E lo spettro divorò anche la paglia. Terminata che l'ebbe, tese come prima la orribile faccia verso il conte, urlando a bocca aperta:

- Ho fame!...

- Io non ho altro a darti... mangiati il cuore...

- Ho fame!... ho fame!... non il mio cuore, ma la tua carne io mangerò, cane, che mi hai fatto morire di fame...

E infuriando come belva rovescia tavola e lumi, e si avventa alla vita del conte: questi provò svincolarsi; sennonchè, sbattuto giù come sasso da forza irresistibile, si sentì mordere di rabbia sopra la spalla manca. Don Francesco, quantunque fieramente commosso, e rifinito dal digiuno, non per questo si abbandonava, chè il pensiero di rimanere divorato da cotesto cannibale gl'infondeva nei muscoli forza tetanica. Si rotolavano entrambi per terra mordendosi a vicenda, e ingegnandosi di stringersi alla gola: di tratto in tratto cacciavano urli disperati; si laceravano co' denti; si sgraffiavano con le ugne; si pestavano a pugni; l'anelito usciva fumoso dalle narici e dalla bocca; il cuore, tremante per tremendo palpito, minacciava scoppiare loro nel petto... orribile lotta era quella!

Ma la potestà non corrispondendo al volere, ormai il Conte stava per perdere conoscenza: radi, e compressi gli uscivano dalla gola i sospiri: negli estremi sforzi si dibatteva, quando fu udito strepito di catene, ed una voce che gridava:

- Il vampiro ha rotto la catena!

Al Conte parve, imperciocchè non vedesse distinto, che certe figure nere, e truci, con tronchi di pino accesi entrassero da più parti nella caverna staccandosi dalla parete, e gittandosi sopra la trista belva giungessero ad incatenarla con quattro catene, e tenendone i capi uno discosto dall'altro la strascinassero fuori della caverna. Egli stava sempre disteso sul pavimento; puntando la mano a terra gli riuscì, quantunque con isforzo, a mettersi seduto: ansava affannoso, grondava sudore, e sangue. Delle candele una era spenta, l'altra rovesciata; si provò a rimetterla dritta nel lugubre candeliere: forte sentiva dolersi la gola, la spalla, ed altre parti della persona. Volle richiamare la mente sopra coteste vicende, ma non gli successe: anche il cervello gli doleva informicolito, e davanti agli occhi gli andava in giro un diluvio di faville. Spossato dalla fatica, attrito dal digiuno e dal dolore, il Conte brancolando... a tentoni cercò il letto di foglie, e lo rinvenne. Il ribrezzo che gli si era fitto nelle ossa lo persuase a mettersi sotto le pelli; prese a sollevarle con mano tremante, quando una voce sepolcrale quinci uscendo incominciò a favellare così:

- Venga il desiderato... quanto mai tardasti! è tanto tempo che io ti aspetto vegliando!

Il Conte si drizzò su le ginocchia intendendo a quello che era, e vide un corpo umano ignudo con la faccia coperta da un bosco di capelli scarmigliati, e intrisi di sangue: in mezzo al petto gli usciva fuori un manico di pugnale, e dalla ferita aperta gli spicciava perenne un rivo di sangue.

- Sono la fanciulla di Vittana, proseguiva la voce: se io ti odiai una volta e' fu perchè aveva dato ad un altro fede di sposa; ma ora la morte mi ha sciolto dall'obbligo, e mi sono accorta dal dono, che mi facesti, e porto qui in mezzo del cuore, quanto tu sii più generoso amante. - Appressati, via... rimettiamo il tempo perduto... a me tarda inebriarmi di amore.

E l'aborrita figura, tese le braccia, a lo attirava con gesti provocanti. Il Conte rifuggiva inorridito, e con tutte le forze rimastegli la respingeva. Invano però; chè la femmina sottentrando lo ricinge alla vita duramente, e lo sforza a giacere. Ora se lo preme delirante contro il seno, e col manico del pugnale ammacca le costole e il petto del conte, che mugola pel nuovo spasimo, e poi lo bacia, e lo ribacia con le labbra ingrommate di sangue. In breve mani, seno, faccia, e capelli del conte grondano sangue: non poteva tenere gli occhi aperti e la bocca senza che se ne sentisse piovere dentro caldi ruscelli, e accecarlo, e soffocarlo. Finalmente il furore del succubo toccò il delirio; raddoppia ardentissimi i baci e i singulti, e così stringe spietato fra le braccia di ferro il vecchio conte, che questi sentendosi spezzare le ossa del petto, singhiozzando per la insopportabile angoscia venne meno.

Innanzi che lo intelletto tornasse a raggiargli nella testa, una confusione di strida e di guai dolorosi mista di fragore di catene gli percuote le orecchie. La pelle delle ciglia abbassata non basta a difendergli le pupille dal molesto bagliore. Apre finalmente gli occhi, e vede la camera in fiamme: balza atterrito sopra il letto, ed ecco in mezzo a cotesto fuoco comparirgli diversi sembianti in attitudini disperate, che urlavano in modo da intronare il cervello:

- Allo inferno! allo inferno! E dalla torma delle larve se ne staccò una tutta nera, se non che getti di fuoco palesavano gli occhi, il naso, le orecchie e la bocca: le rughe del volto erano segnate parimente da liste di fuoco. La larva appressandosi al conte levò la mano fiammeggiante in atto di maledire, e profferì queste parole:

- Io sono l'anima del falegname di Ripetta. Maledetto per la morte atroce, che mi hai fatto soffrire: - maledetto per lo affanno della mia moglie: - maledetto per la miseria di mio figlio: - mille volte maledetto per lo inferno dove mi hai precipitato, però che io morissi senza sacramenti, e la mia anima spirasse bestemmiando Dio. -

Il Conte, comecchè nel corpo si sentisse infranto da potere appena trarre il fiato, e nell'anima avvilito, pure per abito, più che per intenzione di scherno, favellò fiocamente:

- Poichè tu sei, per quanto io credo, il primo corriere che il diavolo manda in questo mondo, fa' di darmi notizie dello inferno...

- Le vuoi?... Porgimi la mano...122

E siccome il Conte nicchiava, la larva irridendo riprese:

- Ha paura il conte Cènci?

E quegli gliela porse. Allora la larva stese lo indice della destra, e lo appuntò in mezzo alla palma del conte. Come dalle torcie di bitume sorrette obliquamente gocciolano stille infiammate, le quali cadute sul terreno continuano ad ardere finchè non si consumino, così dal braccio della larva scaturirono bolle di sudore di fuoco, che stridendo si precipitarono giù pel dorso della mano, e pel dito sopra la palma del Cènci. Urlò questi; e non potendo sopportare l'ambascia, volle ritirare la mano per iscuoterne il fuoco, ma non potè; chè la larva gliela tenne ferma dicendo:

- Ricevi le stimate del demonio, vecchio ribaldo.

E il Conte, mugolando per l'insoffribile crucciato, svenne da capo.

- Non ne può più, esclamarono le larve; lasciamolo a mordere la terra; - e sì parlando si dileguarono con grandissimi scrosci di risa.

Umana, o divina, cotesta vendetta pungeva acerba davvero, e per quello che sembrava eravamo al principio...

Lungamente stette privo di sensi il mal capitato conte. Quando con un sospiro tornò in se si sentiva, a refrigerio delle angosce che durava, detergere da mano soccorrevole il sudore della fronte, e con abluzioni di acqua fredda temperare la vampa della febbre che gli ardeva le vene: aperse gli occhi, e gli apparve cosa più delle altre stupenda.

Beatrice, la sua figliuola, sedutagli al fianco sopra le foglie, che dopo avergli lavato la faccia e fasciato le ferite s'industriava a farlo rinvenire. Le sembianze angeliche della fanciulla spiranti pietà, e il dolce atto di amore avrebbero persuaso i più tristi e villani intelletti, lei essere mossa da impulso dolcissimo di carità; e non pertanto il Conte nell'anima malvagia immaginò subito che la sua figlia fosse complice dei suoi persecutori, e quivi venisse a rampognarlo dei casi passati, e a godere del suo trionfo. Beatrice, tostochè lo ebbe scorto ritornato in se stesso, gli si accostava all'orecchio, e con voce soave gli domandò:

- Vi sentite la forza di reggervi in piedi, Padre mio?

E siccome egli si apparecchiava a risponderle, ella prontamente soggiunse sommessa:

- Non parlate, no... accennate col capo.

Il Conte accennò sì. La fanciulla riprese:

- Signor Padre, bisogna che vi aiutiate con ogni sforzo; - qui ci vuole diligenza davvero, perchè io non solo dalla carcere intendo condurvi alla libertà, ma dalla morte alla vita. -

Potenti suonano sul cuore della creatura umana le parole di libertà e di vita; imperciocchè il Conte, malgrado gli acerbi patimenti, fosse tosto in piedi, esprimendo col moto di tutte le membra: «andiamo

Lasciata la caverna entrarono in una seconda molto più spaziosa della prima, e quivi, in mezzo alle masserizie rubategli sparse a rinfuso per terra, vide, al chiarore incerto di lumi ottenebrati da densa caligine, forse quindici o venti banditi addormentati quale steso sul pavimento, quale appoggiato alle tavole. Quantunque egli usasse infinito studio a camminare reggendosi sul braccio di Beatrice, pure, andando com'ebbro per la debolezza e il dolore, investì dentro una tavola, e rovesciò un vaso di terra, che cadendo si ruppe strepitosamente. Gelò di terrore, che taluno si muovesse; ma girando gli occhi intorno vide Olimpio e l'odiato garzone oppressi dal sonno, e vide eziandio la fiasca dello keres col collo rivolto in giù sopra la tavola.

- Ah! bevvero il mio vino medicato. Tardi si sveglieranno... qualcheduno mai più; - e lasciava il braccio di Beatrice.

- Dove andate, signor Padre?

- Lascia che ne ammazzi a conto almeno un paio: - e sì dicendo traboccava giù in terra, se le mani pronte di Beatrice nol soccorrevano.

- Badiamo a salvarci, per amore di Dio... vedete, che male potete reggervi in piedi;... e ripresolo pel braccio lo traeva seco.

Continuarono il cammino, e chiunque avesse potuto contemplarli avrebbe creduto vedere la pittura di Raffaello nelle logge Vaticane, rappresentante la liberazione di San Pietro dal carcere per opera dell'Angiolo. I banditi dormivano atteggiati come i soldati; bella, e divinamente benefica incedeva Beatrice uguale all'Angiolo. La testa del Conte talvolta, lo abbiamo già avvertito, sembrava quella di un santo: però, considerati i suoi meriti, era giusto che non a quella di San Pietro, sibbene all'altra di San Giovanni decollato si rassomigliasse.

Percorsa la caverna salirono una viuzza scavata nel masso parallela alla porta, e dopo piccolo tragitto riuscirono all'apertura, nascosta con diligente accuratezza sotto una folta macchia di pruni. - Soffiava su que' poggi una brezza matutina mordente assai, in ispecie per coloro i quali, come Beatrice e il Conte, uscissero da luoghi caldi, e fossero leggieri di vesti: di più il Conte aveva la febbre addosso, e non pertanto, assorti entrambi nel pensiero della fuga, o non la sentivano, o non la badavano. Il sole non si era anche levato, ma l'alba serena concedeva allungare la vista intorno alle cose circostanti, e a Beatrice venne fatto di scuoprire immediatamente un cavallo, che legato a un albero pascolava poco oltre i primi cespugli del bosco. - Andò; lo sciolse: mancava di arnesi atti a cavalcare, e ciò nonostante gradito sempre a cagione del padre, che poco a piedi poteva aiutarsi. Il Conte lo riconobbe pel cavallo ch'egli aveva raccomandato a Marzio; e sebbene a stento, pure, aiutato dalla figlia, gli riuscì salirvi: voleva ancora recarsi in groppa la donzella; ma questa considerando la debolezza sua, la febbre che lo consumava, le dolenti ferite, e il difetto di sella e di staffe per potersi sostenere, fece conoscere al padre ch'ella così sarebbe stata impaccio, e pericolo alla fuga.

Ella era molto compassionevole vista quella di una fanciulla delicatissima, con ogni maniera di barbari trattamenti tormentata dal padre, immemore adesso delle ingiurie patite, presaga, eppure improvvida degli strazii futuri, accesa di amore filiale guidare il cavallo per quei greppi; e punto badando se i sassi di cui andava aspro il sentiero ammaccassero i suoi morbidi piedi, avvertire poi che in essi il cavallo non inciampasse, e le ferite del vecchio infermo per isquasso repentino non s'inacerbissero. - Di tratto in tratto ella fissava il suo nello sguardo del genitore; non mica per averne grazie, ma per vedere se gli si sciogliesse punto la durezza del cuore, che a se e ad altri aveva fatto passare tanti giorni pieni di affanno. Il Conte, chiuso nei suoi pensieri, teneva gli occhi appuntati fissamente alla testa del cavallo, torbido, e sussurrante accenti brevi, e feroci. Egli, che tanto aveva offeso nel mondo, senza profondissima ira non sapeva concepire come altri avesse ardito di offenderlo, e mulinava fra se disegni spaventevoli di vendetta... Ora, come il terrore di provocare il conte Francesco Cènci non gli aveva trattenuti da mettergli le mani addosso? - Ah! qual supplizio di cotesti miserabili avrebbe mai potuto placarlo?

Già si accostavano al luogo dove accadde l'aggressione, quando, con maraviglia pari allo spavento, videro una mano di banditi sempre appostata, anzi pure con gli archibugi tesi occupare il sentiero. Beatrice agitata da affannosa ansietà si ferma, il Conte si riscuote, e, vista la mala parata, torna sopra i vecchi sospetti interrogando:

- Mi hai tu condotto qui per vedere la mia morte? Non era meglio lasciarmi uccidere dentro la caverna?

Beatrice solleva gli occhi al cielo, e sospira; poi abbandonata la cavezza del cavallo, che teneva in mano leggiera e spedita, corre colà dove vede comparire i banditi: ma prima assai di arrivare sul luogo intendendo lo sguardo, si fu accorta dello inganno; onde voltasi al padre lo confortava con voce e con cenni a venire risolutamente avanti.

- Venite sicuro, chè non vi è pericolo alcuno.

Il Conte, affidato dallo aspetto e dalle parole di Beatrice, e dall'altra parte considerando come nulla giovasse la diffidenza però che fosse tolta alla fuga ogni via, spinse oltre il cavallo, ed egli pure si fu accorto ben presto come i banditi, a fine d'incutere spavento, e per comparire quattro volte più numerosi di quello che veramente fossero, avevano disposti pali lungo il ciglione della via, e fasciati di paglia e di stracci, dando loro sembiante di banditi messi alla posta. Percorso il sentiero incassato riuscirono allo aperto, e al sicuro; però che, quando anche i banditi fossero stati in facoltà di farlo, non avrebbero osato appressarsi a giorno alto di tanto alla Rocca Ribalda popolosa di ben mille persone, di cui la più parte gagliarda per le quotidiane fatiche, e armata tutta di archibugi e di scuri. - Qui il Conte con accento severo ordinò a Beatrice:

- Dimmi con quale argomento tu potesti giungere fino a me.

- Signor Padre, non sarebbe meglio affrettare il passo adesso, e differire la storia a quando, ristorato dei patiti disagi, voi foste in termine di porgermi più pacala attenzione?...

- Tu... appena io manifesto la mia volontà, sei usa a contrapporre subitamente la tua... e sì... e sì che a questa ora avresti dovuto capire, che io aborro gli oppositori. - Obbedisci. - Nelle mie mani la gente ha da essere come morta...

- Obbedirò - rispose Beatrice levando gli occhi al cielo, quasi volesse dire: Signore, dammi pazienza. - Marzio, mentre io era in carcere, mi raccontò la pietosa strage della fanciulla di Vittana...

- Che? Come? Cosa favelli?

- Quando mi teneste chiusa in prigione nel sotterraneo del palazzo di Roma, Marzio mi espose la morte di Annetta Riparella di Vittana...

- Avanti...

- E mi disse ancora lui esserle marito, voi avergliela ammazzata; epperò legarlo un giuramento, fatto sul corpo della defunta, di vendicarla nel vostro sangue. A questo fine essersi allogato in casa nostra; ma vista la vita infelicissima che voi ci condannate a condurre, l'odio suo contro noi essersi convertito in pietà, e non avere voluto commettere in casa l'omicidio di voi, secondo che aveva disegnato, per timore che noi ne fossimo incolpati, e ce ne venisse danno.

- E tu, sapendo questo, me lo hai taciuto?

- Signore! E come poteva dirvelo io? - In carcere, appena schiusa la porta mi gettavate acqua e pane, e volgevate crucciato le spalle...

- Ma se volevi, potevi...

- E quando? Sul partire, due volte io vi scongiurai ad ascoltarmi; voi mi cacciaste in carrozza, e, chiuso lo sportello, vi poneste la chiave in tasca. Alla Ferrata, lo rammentate, mi respingeste; per la via, ordinaste che non mi lasciassero trascorrere, e voi ve ne andaste lontano... come dunque aveva a fare io?

- Tu sempre ardisci avere ragione; - io ti dico che tu potevi avvisarmi: - chè se non partecipasti alla iniqua trama in cuore, almeno non desiderasti prevenirla. Continua...

- Marzio partì la notte, dopo avere posto in salvo Olimpio, che voi avevate condannato a morire di fame...

- Dunque vive costui?... Ah scellerati, come bene congiuraste a mio danno!... Continua...

- Al momento dello assalto procurai badare attentamente quello che accadeva, e malgrado la diligenza usata da Olimpio e da Marzio a mascherarsi...

- Marzio! Dunque anch'egli è morto?

- Io lo ravvisai tra i banditi; anzi guidatore dei banditi. Allora mi accorsi che non si trattava del vostro sequestro soltanto, ma della vita; e quindi il mio discorso, e le larghe promesse ai banditi perchè, tratti dalla cupidità a separarsi da Marzio, noi lasciassero andare. Riuscito il tentativo a vuoto, mi calai chetamente da cavallo e vi seguitai alla lontana, appiattandomi ora dietro a un tronco, ora dietro a un cespuglio: giunti che furono i banditi al taglio del dirupo di Tagliacozzo, ecco sparirmi di subito davanti agli occhi. Mi accosto studiando il passo, e trovo l'apertura, comunque coperta con diligenza di piante; scendo il corridore, che abbiamo percorso insieme, e ascolto uno schiamazzo confuso di bestemmie, e di scherni. Io non sapeva allontanarmi, e per altra parte non mi riusciva immaginare il modo di potervi sovvenire. In questa udii Marzio che ordinava a un bandito di prender gente, e avviarsi a Tagliacozzo; onde io mi ritirai di corsa, mettendomi di vedetta dentro una macchia. Uscirono parecchi masnadieri, e per molte ore rimasi appiattata; a notte fitta mi avventurai di nuovo nel sentiero che mena alla caverna; tesi l'orecchio, e non udii rumore alcuno; sporsi la faccia, e al chiarore moribondo delle lanterne vidi i banditi tutti addormentati; mi attentai entrare; palpitando muoveva in punta di piedi; scòrsi una porta, pensai che voi foste chiuso la dentro; levata la spranga apersi, e vi trovai svenuto sul pavimento. Dio ci ha dato visibilmente soccorso, e voi siete salvo.

- Sta bene, disse il Conte. - Intanto erano giunti alla ròcca. Don Francesco prima di porsi a giacere, premendo le angosce che lo travagliavano, chiamò alcuni dei suoi servi, e promise loro quattromila zecchini se gli avessero portato morti o vivi i banditi, che avrebbero potuto prendere a mano salva nella caverna di Tagliacozzo.

 

*

* *

 

Dopo lungo sonno i masnadieri si svegliarono. Orazio fu il primo a dire:

- E' pare che abbiamo legato l'asino a buona caviglia: questo maledetto vino mi ha come impiombato il sangue nelle vene. Vediamo un po' che cosa si ha da fare del nostro prigione: a me sembra che quando avesse su l'anima anche il doppio dei peccati, ch'egli ha commesso, meriterebbe ormai assoluzione plenaria.

- Sì, rispose Marzio, egli è tempo che noi gli celebriamo la messa di requiem.

- Adagio ai ma' passi; prima del requiem bisogna cavargli di sotto qualche cosa, come sarebbe un ventimila ducati...

- Sicuramente, riprese Ghirigoro, lo strazio che ha sofferto basta; e non potremmo rinnuovarlo senza che ci restasse fra le mani.

- Davvero, continuò Orazio, io credo avergli sfondato lo stomaco col manico del pugnale, che mi ero adattato sul petto; ed anch'io mi sento indolenzito, perchè lo stringevo con rabbia, e con paura: ve' come sono concio da quella criniera di cavallo insanguinata; il sangue della vescica mi ha imbrodolato tutto, e mani, e seno, e braccia...

- Io ti so dire, riprese Olimpio, che senza le tue candele non saremmo venuti a capo di nulla; come mordeva il tristo vecchio! Per certo ha da avere il diavolo in corpo. Deh! Orazio, , o come hai fatto a comporre coteste tue infernali candele?

- E' sono segreti, che a me per impararli costarono spesa e fatica. Uno astrologo Armeno, in Venezia, per insegnarmi la ricetta volle che io gli contassi cinquanta ducati di oro...

- Non ti credevamo avaro, Orazio. Se pretendi essere rimborsato, ti renderemo i ducati; ma fra noi ogni cosa dovrebbe essere comune...

- Oh, io non l'ho detto mica per questo! Uditemi, dunque, e imparate. Cotesta chiamasi mano di gloria, e si compone così: taglisi primamente la mano sinistra allo impiccato, e avviluppatala dentro un pezzo di tela nuova ripongasi in un vaso di terra, e vi si lasci stare per quindici giorni coperta di balsamo di Arabia; poi ha da esporsi al sole leone tanto che si secchi. Le candele si fanno di grasso d'impiccato, di cera vergine, e di sesamo di Lapponia. Queste candele, messe fra le dita della mano di gloria, hanno la virtù di stupidire la gente a farla travedere con apparenze piene di terrore123.

- E certo esse hanno istupidito anche noi, perchè io pure mi senta la testa tutta confusa...

- Sarà; ma io temo che quel vino di Keres, che abbiamo bevuto, fosse medicato...

- Se Marzio anch'egli faceva la sua parte sarebbe stata compita la festa: - , Marzio, perchè non sei venuto?...

- Io? Perchè mi prese un furore di stringergli il collo, e strozzarlo senz'altri argomenti; e così la mia vendetta non era piena, e voi rimanevate defraudati del riscatto. - Orsù, ormai mi tarda lo indugio: andate ad estorcere a quel dannato la moneta che volete; poi, secondo il patto, lasciatelo in mia potestà.

Qui si fecero a rinnuovare l'olio nelle lanterne, e si accostarono alla porta della prigione: trovarono la spranga levata; la prigione vuota.

Alzarono un urlo di rabbia, al quale dalla bocca della caverna rispose un grido di spavento. Entrò un bandito vacillando, che aveva rilevato una ferita nel fianco, e disse tutto angoscioso:

- Siamo sorpresi... fuori, o ci ammazzano come volpi nel covo.

I banditi afferrarono le armi, e si affrettarono a uscire dalla caverna.

Questo dialogo spiega i tormenti, che avevano fatto subire al Conte. La mano e le candele di gloria erano superstizioni, alle quali prestavano piena fede in cotesti tempi. Gli apparecchi per cura di Marzio disposti nella caverna, e il terrore avevano fatto credere paurosamente soprannaturale una scena da giocolieri.


 

 

 




121 Pur troppo anche questa malattia terribile travaglia la umanità! I pratici la distinguono in bulimo, cinoressìa e licoressìa. Il granatiere Tarare divorava un quarto di bove per giorno; in pochi minuti si trangugiò il desinare apparecchiato a ventiquattro operai: inghiottiva carboni, calcinacci, turaccioli di sughero, ciottoli, quanto insomma gli capitava sotto le mani; gli piacevano le serpi; mangiava i gatti vivi vivi, e dopo mezza ora ne vomitava il pelo. Essendo sparito dall'ospedale un fanciullo mentre egli vi soggiornava, caddero sospetti sopra di lui, che se lo fosse divorato; però lo cacciarono via. Morì nel 1799 di diarrea purulenta, che accennava putrefazione di visceri addominali. Vedi il Descoret, Medicina delle passioni. Nel medesimo scrittore è da vedersi la storia di Anna Dionisia Lhermine, ammalata di fame canina. A me basti riferirne questo, ch'essendole caduto un tozzo di pane nella catinella mentre il cerusico la salassava, lo ritrasse, e se lo mangiò avidamente così com'era insanguinato; e che, presso a morire, ormai impotente a mangiare, pregò sua sorella che le mangiasse accanto al suo capezzale, perchè: «se il buon Dio non voleva ch'ella mangiasse più, potesse almeno morire col piacere di veder mangiare».



122 Leggesi che a Parigi fu uno maestro, che si chiamava ser , il quale insegnava logica e filosofia, ed aveva molti scolari. Intervenne che uno dei suoi scolari, tra gli altri acuto, e sottile nel disputare, ma superbo, e vizioso di sua vita, morì. E dopo alquanti , essendo il maestro levato di notte allo studio, questo scolare morto gli apparve: il quale il maestro riconoscendo, senza paura il domandò quello che di lui era. Rispose, ch'era dannato. E domandollo ancora il maestro, se le pene dello inferno erano così gravi come si diceva; rispose che infinitamente maggiori, e che con la lingua non si potrebbero coniare, ma che gliene mostrerebbe alcun saggio «....... Ed acciocchè la mia venuta a te sia con alcuno utile ammaestramento di te, rendendoti cambio di molti ammaestramenti che desti a me, porgimi la mano tua, bel maestro». La quale il maestro porgendo lo scolare scosse il dito della sua mano, che ardeva in su la palma della mano del maestro dove cadde una piccola goccia di sudore, e forò la mano dall'un lato all'altro con molto duolo e pena come se fosse stata una saetta focosa, ed acuta. «Ora hai saggio delle pene dello inferno» disse lo scolaro, e urlando con dolorosi guai sparì. Il maestro rimase con grande afflizione, e tormento per la mano forata ed arsa; mai si trovò medicina che quella piaga curasse, ma infino alla morte rimase così forata. Donde molti presono utile ammaestramento di correzione. E il maestro compunto, tra per la paurosa visione, e per lo duolo temendo di non andare a quelle orribili pene delle quali aveva il saggio, deliberò di abbandonare la scuola, e il mondo. Onde in questo pensiero fece due versi, i quali la mattina vegnente in iscuola davanti ai suoi scolari, dicendo la visione, e mostrando la mano forata ed arsa spose, e disse:

Linquo coax ranis, - ora corvis, vanaque vanis

Ad loicam pergo - quae mortis non timet ergo.

«Io lascio alle rane il gracidare, ai corbi il crocidare, le cose vane al mondo; io m'incammino a logica tale, che non teme la conclusione della morte» cioè alla religione. E così abbandonando ogni cosa si fece religioso, santamente vivendo fino alla morte. Passavanti, Specchio della vera Penitenza. Dist. 2. cap. II.



123 Segreti del Piccolo Alberto. Lione, 1731.






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