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Francesco Domenico Guerrazzi
Beatrice Cènci

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CAPITOLO XXIII.

 

I GIUDICI.

 

Di nuova pena mi convien far versi.

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

Chè dove l'argomento della mente

S'aggiunge al mal volere ed alla possa,

Nessun riparo vi può far la gente.

Dante, Inferno.

 

Ha la sventura un vento che la precorre, e chiamasi augurio: le anime pacate per mille indizii lo presentono, come gli uccelli lo approssimarsi del turbine: le altre poi, dalla vicenda dei quotidiani eventi perpetuamente commosse, non se ne accorgono, e la sventura le coglie subitanea e improvvisa.

Invano il giudice Ulisse Moscati chiudeva le orecchia alla voce interna, la quale insistente gli diceva: «tu getti via i passi». La voce tornava a sconfortarlo, e per la sua mente si avvolgevano pensieri simili a spettri, che in parte celino, e in parte palesino il minaccioso sembiante; nè egli osava interrogarli, e che si scuoprissero più palesemente aveva paura: tuttavolta, sciolto un grandissimo sospiro, e supplicato il cielo di uno sguardo, si avviò al palazzo Vaticano. Fattosi annunziare aspettò con pazienza per bene due ore, finchè il camerario del Papa gli partecipò che poteva entrare, e scortato da lui si trovò al cospetto del Sommo Pontefice.

Fosse per amore della vista, o quale altra causa più vera lo persuadesse, il candelabro appariva circondato da un cerchio di seta verde per modo, che dal busto in su la faccia di Clemente VIII non si distingueva, nè punto vedevansi Cinzio Passero e Pietro Aldobrandino cardinali nipoti, che stavano fermi in piedi dietro la spalliera della seggiola. Allora i Papi si assomigliavano tutti come le dita della stessa mano, stesa per molti secoli sul capo di parte non piccola del genere umano... e se per benedirlo, Dio onnipotente un giorno giudicherà. Adesso qualche maggiore differenza corre tra loro; non tanta però, che paiano nati di diversa famiglia: e tacendo degli altri per dire degli ultimi, Pio IX si mostrò tenerissimo delle libertà dei popoli; e della patia sua, la veneranda madre Italia, figlio amorosissimo: delle cose di religione poi studioso sì, ma non rigidamente zelatore, almeno sul principio del suo pontificato: all'opposto Gregorio XVI non versò in altro che in divinità, di cui fu maestro solenne; della libertà, e felicità dei figli suoi dilettissimi prendendo cura alquanto minore. Questi, per istringere il vincolo soave tra figli amati e il padre amante, chiamò uno straniero solo; quegli, per istringerlo più forte talchè in processo di tempo non avesse ad allentarsi più mai, ne chiamò quattro, e due ne conserva per aiutarlo a far portare al popolo romano quel dolce giogo, ch'è il suo amore: e se io dica il vero, la Civiltà Cattolica (dotto, pio, e soprattutto sagace diario dei Reverendi Padri Gesuiti) informi.

Clemente vestiva la mezzetta di velluto sanguigno ornata di ermellino, e il roccetto di trina finissima; il cappuccio pur di velluto rosso; la toga, le calze e le scarpe di seta bianca, e sopra queste ricamata la croce di oro. La luce dei doppieri spandendosi su la parte inferiore del capo del Pontefice metteva in rilievo un piede del servo dei servi, che, posato superbamente sul pulvinare di velluto vermiglio ornato di gallone e di nappe di oro, sembrava che comandasse a chiunque si accostava: baciami. Il giudice Moscati era troppo buon cattolico per non sentire cotesta voce; e comecchè per gli anni male egli si tenesse fermo su la persona, la vanità non consentì che l'altro si rammentasse caduco essere e mortale come lui, e gl'impedisse l'atto ignominioso: il Moscati cadde giù gravemente, e col capo venerando di canizie urtò nella gamba del Papa, il quale, malconcio da abituale podagra, forte se ne sentì trafitto; ma mordendosi il labbro compresse il lamento, finchè con voce acerba potè dire:

- Sorgete.

Il vecchio, appuntellata la tremula mano sul pavimento, non senza tornare a piegar le ginocchia più volte, giunse a raddrizzarsi sopra le gambe. Sorto, e ripreso lena, con ingenua franchezza egli aperse al Pontefice l'animo suo intorno al processo; della famiglia Cènci; lo chiarì della incertezza degl'indizii, espose la inverosomiglianza dei deposti, la età novella di alcuni fra gli accusati, i fatti non pure discordi, ma contrarii; e quantunque parecchie ne aggiungesse di suo, ripetè le considerazioni discorse da Beatrice; si avventurò eziandio a toccare (suprema audacia in cotesti tempo) delle prove dubbiose, che, a parer suo, nascevano dai tormenti; imperciocchè se Marzio aveva confessato in grazia della tortura, aveva ancora soppresso la sua confessione, ed era morto fra i tormenti in testimonianza di aver detto per ultimo la verità. I Cènci poi, tranne la donzella, un po' avevano confessato, un po' negato, dichiarando essersi accusati unicamente perchè costretti dalla forza del dolore: maravigliosa, egli aggiunse, essere la ingenuità di Beatrice, stupenda la efficacia dello eloquio, il modo di persuadere irresistibile, sicchè in quanto a lui giudicarla innocente. Queste cose avere voluto per debito di coscienza significare a Sua Santità, onde nel suo infallibile giudizio avvisasse quello che fosse da farsi pel meglio. Bernardino, fanciullo di dodici anni, avere sperimentato con la corda, e sentirsene al cuore un rimorso e uno affanno indicibili. Beatrice no, parendogli proprio commettere peccato mortale.

Mentre favellava il Moscati, i due Cardinali per quella mezza oscurità avvicendavansi sguardi simili a baleni precursori della tempesta, e il Papa anch'egli aggrottò i sopraccigli più volte; ma, per antico costume, a dissimulare e a simulare espertissimo, si contenne, e in suono di voce più pacato assai che di ordinario non soleva, commendò il Moscati della ottima mente sua, promise far capitale delle cose rapportategli, e, confortatolo con amorevoli parole a tornare il giorno veniente alla medesima ora, lo accomiatò impartendogli l'apostolica benedizione.

E il Moscati, pratico della temperie di corte, nonostante le singolari dimostrazioni di benevolenza, se ne andava col cuore più chiuso di quando ci era venuto: la voce interna, più incresciosa che mai, lo ammoniva aver gittato la opera e i passi: educato alla scuola della esperienza, ben egli sapeva come con gli uomini in generale, ma segnatamente co' Prelati, quanto il promettere si allunga si accorcia lo attendere, e le speranze nate in corte o su la pianta appassiscono, o, a modo del fiore di papavero, al primo soffio si spelano; - spiagge insidiose si provano le corti, dove mai tanto non fosti prossimo a naufragare come quando il cielo si mostra sereno, e il mare tranquillo.

Nonostante il presagio, l'uomo dabbene alla ora destinata andò, supplicando il Signore che almeno gli tenesse conto del buon volere. Accolto dai camerarii con insolito ossequio, lo resero avvertito attenderlo nelle sue stanze lo eminentissimo Cardinale San Giorgio, nipote di Sua Santità. I tristi auspicii sempre più si colorivano; ma l'uomo, che cosa può mai contro il fato? Certo quando ogni industria nostra per procurare alcun bene riesce invano, piccolo conforto è pensare che noi operammo quanto stava in nostra potestà; e nondimeno, da questa in fuori, altra consolazione non ci avanza. Il Cardinale Cinzio, versato per tempissimo nelle faccende di governo (chè tuttavia giovanetto accompagnò come segretario lo zio Ippolito, allora Cardinale di San Pancrazio, nella sua legazione di Polonia) andava famoso per la perizia delle arti cortigianesche, onde non fa mestieri raccontare se accogliesse il Moscati con esquisita urbanità: lo fece sedere accosto a se, non senza essersi adoperato in prima con preghiere, che sopra la sua medesima sedia si assidesse. Poichè si furono entrambi adagiati, il Cardinale con piacevole favella incominciò:

«Sono lieto, clarissimo signor Presidente, poterla assicurare, Sua Santità avere avuto accettissime le savie avvertenze di lei intorno al processo dei Cènci; e questo essere stato segno manifesto non pure del suo ottimo cuore, quanto del suo eccellente giudizio; onde se prima lo reputava assai, adesso averle a mille doppii accresciuto l'affezione e la stima: - però essere mente di Sua Santità considerare questo negozio seduto, e con quella gravità di cui gli sembrava meritevole: rifuggire il Beatissimo Padre dalle asprezze, comecchè salutari, della gloriosa memoria di Papa Sisto, ma detestare nel medesimo tempo la soverchia benignità Gregoriana: con inestimabile amarezza egli vedere come le male piante, a cagione della poca diligenza usata durante la guerra di Ferrara, ripullulassero più spesse e maligne che mai in grembo ai suoi stati: questo la sua religione non potere comportare, e il debito che gli correva davanti a Dio. Tuttavolta non potersi mettere in dubbio, senza offesa della somma pietà del Beatissimo Padre, che i partiti a cui avesse reputato nella sua suprema saviezza doversi appigliare, non fossero consentanei alla giustizia». E qui di punto in bianco data una giravolta, vie più benigno aggiungeva: «Le paterne viscere del Sommo Pontefice sono state commosse nel considerare il deperimento notabile di salute d'un servitore zelante, e benemerito quale ella è, chiarissimo signor Presidente; egli ha saputo con profonda amarezza avere la sventura visitato casa sua, e desidera, per quanto a mano mortale è concesso, alleviare il dolore di vostra signoria illustrissima. Questo per bocca mia le significa: il Santo Padre rimane dello zelo di lei, chiarissimo signor Presidente, edificato; ma carità, ma giustizia non consentono accettare il più che umano sagrifizio suo.

- Ah! vi sono affanni qua dentro (rispose il Moscati, a cui le parole soavemente spietate del Cardinale fecero lo effetto di una mano che prenda a fasciare la piaga per vederla, non già per medicarla) che gli uomini non possono consolare; inasprire si. Iddio solo lo potrà, e forse col rimedio unico a tutti i mali - la morte.

- Ed io lo credo; però tanto più mi maraviglio come, travagliato da tanto domestico lutto, le basti la mente per dare opera alle incumbenze del suo officio, le quali, faticose e per propria natura malinconiche, invece di sollevarla devono mantenere nello animo suo lugubri considerazioni.

- È vero; ma io vi persevero perchè ho sempre creduto, e credo, che tra soldato e magistrato non corra divario; e debba questi per sommo onore morire al suo banco, come quegli sul campo di battaglia: anzi gl'Imperatori romani, considerati i travagli e la costanza dei primi, la Eminenza sua conosce meglio di me come non dubitassero di preporli con amplissime lodi ai secondi.

- Questa, che vuolsi estimare e commendare bontà egregia di suddito, sarebbe ripresa come durezza nel Principe; il quale non può patire che il magistrato fedele si logori nella fatica finchè diventi pianta infracidita, buona solo a farne fuoco: anche i Romani, che furono sì operosi, com'ella dottissimo non ignora, quando giungevano a quella parte di vita, da loro distinta col nome di senio, senza infamia potevano ritirarsi dai pubblici negozi; verso sera ogni animale, che vive in terra, cessa dalle opere.

- Ed anche a me, Eminentissimo, piacerebbe seguitare lo usato tenore di tutte le creature; non già per riposarmi, chè a riposare tempo ne avanza anche troppo nel sepolcro; bensì per apparecchiarmi con la meditazione delle cose divine a quel termine, per tutti noi quanti siamo comune, e da me sopra gli altri mortali desiderato; ma nonostante gli esempii pagani, ne temo biasimo. Bene altramente c'insegnò la virtù del sagrifizio Gesù Redentore; onde io, che per questa parte mi sento incolpevole, vorrei senza rimprovero portare i miei capelli bianchi alla fossa.

- In primo luogo io la conforto, carissimo fratello in Cristo, a porgere volonterose le orecchie alla chiamata che le viene dall'alto; inoltre io l'assicuro, che invece di biasimo dai buoni non può venirlene altro che lode, e dal Beatissimo Padre amplissima approvazione; a nome del quale io le profferisco tutti quei favori, che possa desiderare più acconci per condurre a termine l'ottimo suo proponimento.

- Poichè, Eminentissimo, con tanta benignità le piace consolare questo mio cuore trafitto, io le paleserò sentirmi vocazione di rendermi a Dio in qualche Regola di religiosi insigne per santità non meno, che per opere utili ai miei fratelli di tribolazioni.

- E di queste regole siffatte, mio caro, abbonda sì la santa Chiesa Cattolica, che non vi ha altro imbarazzo se non quello di scegliere. Ella ha i monaci di San Giovanni di Dio, consacrati alla cura dei poveri infermi; ha gli Agostiniani del Riscatto; l'Ordine dei Predicatori, veri atleti di Cristo; i Francescani, che, coi Domenicani, Papa Onorio (per rivelazione, divina) conobbe sostenere la Chiesa periclitante; ma tutte queste religioni, come quelle che appartengono alla Chiesa militante, quantunque convenevoli allo zelo di vostra signoria illustrissima, male si confanno agli studi suoi ed alla età. I reverendi Padri Benedettini di Montecassino, consacrati alla vita contemplativa, andarono per esercizio di cristiane virtù e per dottrina famosi fra i più distinti ordini della Cristianità; ed io le proporrei riparare fra loro, se per mia convinzione non trovassi a preferire i Padri della Compagnia di Gesù...

- I Gesuiti?

- Per lo appunto. Chi meglio di loro meritò della Chiesa? Francesco e Domenico sostennero la Chiesa pericolante, i Gesuiti la rilevarono pericolata. Chi sarebbe stato a pari di loro gagliardo a durare le lotte della fede co' Luterani, Calvinisti, Zuingliani, e l'altra peste maledetta di eretici, che Cristo confonda? Al Papato e al Principato i Gesuiti sono più necessari che i denti in bocca all'uomo; senza essi non si mastica: ed io so quello che mi dico. Il Principato attese a deprimere la Chiesa; e la Chiesa, legittimamente difendendosi, crollò il Principato: dannose le mutue offese, e quelle dei Principi, per di più, empie. Ora poi che assursero i Popoli ad avvantaggiarsi delle diuturne discordie, e, rotto il freno, minacciano il trono e l'altare, i Principi hanno fatto senno; e, uniti in bel vincolo di amore, attendono a sanare le scambievoli ferite: di entrambi adesso ne stringe pari la cura, però che entrambi derivino da Dio, quantunque immediatamente la Chiesa, mediatamente il Principato. I Gesuiti ottimamente compresero la doppia missione, e la esercitano con la sapienza del serpente, e la semplicità della colomba: non dubbii in loro, non esitanza, non disonesto spirito di discussione. Obbedienza e fede trionferanno del mondo, perchè deve capire, chiarissimo signor Presidente, come colui, che si avvisa a sottoporre ad esame i dogmi della Chiesa e i motuproprii dei Principi, se non è diventato eretico e ribelle, già cammina per la strada di esserlo.

- Eh! sì... i Gesuiti... non dico; in verità meritano moltissimo: ma dei Girolamini, Eminenza, che ne parrebbe a lei?

- Santa Vergine! Vorrebbe, signor Presidente, scegliersi per avventura ritiro imperiale? Questa non mi parrebbe umiltà: extra jocum, anche i Girolamini meritarono ottimamente della Chiesa. Già come sono frati ella può andare a occhi chiusi; se quelli paionle buoni, e questi proverà meglio; è tutta messe del seme di Dio. S'ella si sente vocazione per la regola di San Girolamo, dia retta alla chiamata di Dio.

- Il Signore la rimuneri di avermi illuminato: in breve, se la Eminenza sua si degnerà concedermelo, depositerò nelle mani riveritissime di lei il memoriale onde Sua Santità mi dispensi dallo ufficio; e nel presentarglielo, che farà la Eminenza sua, io la supplico di renderla capace, con quelle parole che le parranno più acconce, delle ragioni che mi muovono a questo passo, affinchè mi sia continuata la grazia del Padre dei Fedeli.

- Non rimettere a domani quello che puoi far oggi, ci ammonisce una sentenza antichissima. Davanti a lei, carissimo, ella ha quanto bisogna per iscrivere; tregua agl'indugi: dei buoni ufficii miei stia sicuro, della ottima mente del Santo Padre verso di lei non dubiti punto.

Ulisse, stretto dall'ardente pressa, scrisse la supplica, e scritta che l'ebbe la consegnò al Cardinale di San Giorgio; il quale l'accolse con sottilissimo riso, che appena gli fece tremolare i peli estremi dei baffi: forse era di compiacenza, forse di scherno, e può darsi di ambedue. Ridottosi a casa, meditando sopra lo accaduto, e riandando con mente quieta le parole e i fatti, Ulisse si accorse come, prevalendosi del turbamento dello animo suo, lo astuto prete lo avesse condotto se non a sbagliare, almeno a mutare strada, e cavatogli di sotto quanto ei desiderava. Però quegli che n'ebbe profitto questa volta fu il vinto; avvegnadio il Moscati senza viltà si ritraesse da un passo, donde indietreggiare senza pericolo, e oltrepassare senza infamia non poteva. Di grazie, favori, pensioni od altri simili vantaggi non fu fatto parola nel memoriale, nè nel breve; e il Moscati non si curò ricordarli al Cardinal Cinzio: egli schivo e superbo, avarissimi gli altri; sicchè avevano detto, consigliandosi fra loro: nulla ha chiesto, nulla pertanto egli vuole; e poi, un povero frate di che cosa abbisogna? E poi, copia di beni possiede anche troppa, e fa anni più di quaranta che tira paga dallo stato; e poi aggiungete, che questa impresa di Ferrara ha propriamente disastrato lo erario, e bisogna rinsanguarlo; inoltre assegnandoli pensione parrebbe un guastare la umiltà e spontaneità dell'atto; e chi sa ancora, ch'egli non siasi taciuto su questo tasto per superbia? Chi più ne ha più ne metta, chè tanto non arriverà a indovinare tutti i poi, pei quali l'avarizia crede potersi sdebitare dall'obbligo senza metter mano alle tasche. - D'altronde è cosa nota che papi, principi, e cardinali eziandio, non meno che l'altra gente di alto affare, ed illustri, che Dio manda per sollievo della umanità, sono di buona memoria (quando ce lo incidono) sopra le lapide soltanto; in ispecie poi Papa Clemente, il quale pativa di chiragra e di podagra; e se ne teneva, a quanto pare, avendo donato due gambe di argento massicce alla Casa di Loreto, allorquando la visitò incamminandosi a prendere possesso del Ducato di Ferrara, quasi perchè i posteri non dimenticassero cotesta sua qualità154.

Ulisse Moscati si ritrasse, come aveva divisato, nel chiostro; però non prese mai gli ordini sacri, e godè per alcuni anni quella pace stanca, che aspetta gli uomini, non già tutti, bensì i meglio fortunati, dopo le contese e le percosse di questa battaglia, che si chiama vita.

Il Cardinale di San Giorgio nella sera stessa presentò la supplica al Papa, il quale postala sopra la tavola la compresse col pugno chiuso; e poi, assentendo col capo e con uno stirare delle labbra verso gli orecchi, che per lui voleva dire riso, favellò breve al nipote della sua predilezione:

- Or, Cinzio, abbiate avvertenza all'altro.

Se nelle pianure dell'Affrica o dell'Asia, ed anche nei campi di Sardegna, avvenga mai che muoia cavallo o montone, e sotto la sferza ardente del sole incomincino appena a svilupparsi da cotesto cadavere i primi effluvii della corruzione, ecco tu levi la testa, e dal punto culminante dello emisfero passeggiando il tuo sguardo fino all'estremo orizzonte ti comparisce tutto dintorno limpido e puro: torni ad alzarla di nuovo, e tu vedi, colà dove il cielo pare che tocchi la terra o le acque, avanzarsi un nuvolo di punti neri, il quale ad un tratto dilatandosi ti è sopra, e all'occhio attonito ti manifesta una torma di avvoltoi, i quali, in virtù dello stupendo odorato, vengono tratti all'oscuro convito. In questa guisa stessa i perversi, senza paura d'ingannarsi, fiutano alla lontana i perversi; si ravvisano subito, si stringono, e prestansi aiuto. Soventi volte, e con inestimabile dolore, io ho notato la immensa e forte fratellanza dei maligni. Non è mica giuramento di setta che sospinge gli uni verso gli altri, nè disciplina di collegio, nè istituto di consorteria, no; bensì un arcano magnetismo animale, un soffio alitato sopra il capo di costoro dalla bocca del demonio. Quando ti muovono guerra renditi per vinto, dacchè tu non li potrai neanche combattere; dispersi in polvere sottilissima ti si avventano agli occhi, penetrano nei pori, s'insinuano nel sangue; invisibili, e nondimeno potenti; impalpabili, eppure invincibili: essi ti stritolano nelle mani un disegno come vetro; ti fermano lo strale sopra la noce; si cacciano sotto la rota del carro trionfale, e lo arrestano a mezzo cammino; accosti le labbra alla tazza, ed essi si mescolano nel vino che prende sapore di fiele; accosti le labbra a quelle della moglie, dei figli e del padre, ed eglino si posano sopra coteste labbra sicchè ti sanno di terra; insomma, anima e corpo ti seppelliscono sotto un cumulo di arena. Per altra parte, e con altrettanto rammarico, ho avvertito la indifferenza dei buoni fra loro; non già perchè patiscano difetto di cuore, o rifuggano dal sovvenirsi cortese con mutui offici; all'opposto, completi di virtù e di senno, pensando bastare a se stessi, non credono doversi collegare a difesa, molto meno ad offesa. Ercole potè raccogliere nella pelle del lione tutta la gente dei pigmei perocchè essi fossero almeno alti un cubito; ma oggi, ridotti in polvere, sfuggirebbero al tatto di lui, che ne avrebbe irrimediabilmente pieni gli occhi e la bocca. O sapienti, fate senno una volta; e conoscete a prova, che se il diritto è l'elsa, la forza è la lama della spada. Sì legge scritto come, nelle Indie orientali, le turbe dei formicoloni assaltino lo elefante, ed in breve ora lo riducano a tale, che di lui non si trovano altro che le ossa politissime, e bianche: quello che nella India costumano le formiche, in Europa fanno i nulli, i mediocri e i perversi, a detrimento dei buoni e dei grandi. Certo il lione va solo; ma nel deserto, dove non trova gesuiti, nè commissioni governative, nè formicoloni dell'India, nè corti regie, nè procuratori generali.

In questo modo il cardinale Cinzio Passero avendo a sbrancare dalla trista mandra della magistratura una bestia malefica, alzò le narici, e gli venne dalla lontana fiutato il giudice Luciani. Chiamatolo a se gli usava le consuete carezze feline, e poi gli diceva come il Santo Padre, suo gloriosissimo zio, non rifinisse mai di favellarne con rispetto grande per la sua molta dottrina, e più per la prontezza e salutare severità con le quali egli spediva i negozii; egli sapere per conto suo, che la santa memoria di Papa Sisto lo teneva in ottimo concetto, e che lo aveva, prima di morire, raccomandato al Pontefice suo zio come soggetto commendevole per ogni punto, e da potersi adoperare a chiusi occhi in emergenze difficili: essere stata intenzione del Pontefice suo zio promuoverlo, e riconoscerlo dei molti meriti suoi, ma fino allora avergliene impedito il modo le faccende dello stato, e le cure della guerra, e di questo sentirne amarezza infinita. Intanto, per rimettere il tempo perduto, come segno della sua fiducia volergli confidare la procedura dei Cènci scandolosamente protratta, mentre, per quanto correva universale la voce, tante, e patentissime abbondavano le prove della reità degli accusati. Andasse, rompesse gl'indugi, facesse cosa gradita al popolo romano, e al Santo Padre accettissima: il nome di restauratore della giustizia si meritasse...

Anche le civette impaniano, dice il proverbio; e il Cardinale, infiammato dal desiderio di venire a capo del suo disegno, ci aveva messo troppo più mazza che non ci bisognava. Le pupille del Luciani oscillarono corruscando, come quelle delle belve prima di spiccare il salto; e la parola prorompendo impetuosa gli si rompeva fra i denti.

- Certo, balbutiva costui, certo, Eminentissimo, col signor Moscati non ci era verso di trarre un ragnatelo dal buco: gli avevano fitto in testa certi scrupoli... lo assalivano tali uggie... tanti rispetti, che nemmeno io mi sapeva dove mi trovassi. La s'immagini, Eminentissimo, io lo sperimentai renitente perfino ad applicare Beatrice Cènci alla tortura preparatoria monentibus indiciis, mentre (Dio mi guardi da formare giudizii temerari) a me sembra che la prova abbondi per farla impiccare (domando perdono del lapsus linguae, essendo ella nobile) - per farla decapitare dieci volte.

- Guardate un po' voi! - esclamava maravigliando il Cardinale, ed alzava ambe le mani.

- E quando dubitai che la potesse essere ammaliata, considerando la perspicacia dello ingegno e la pronta favella, niente affatto naturali in giovanetta ingenua, mi fece spallucce come se avessi pronunziato qualche eresia. La Eminenza vostra sa troppo bene, come il diavolo quasi sempre dia il dono delle lingue a coloro cui entra in corpo.

Sua Eminenza all'opposto sapeva, pel secondo capitolo degli Atti degli Apostoli, che il dono delle lingue si diparte dallo spirito; e che quando, dopo la Pentecoste, gli Apostoli scesero per la via favellanti in più lingue, le turbe non li giudicarono già invasi dal demonio, bensì ebbri di vino dolce155: tuttavolta, non trovando il suo conto a contradire il giudice, approvò stringendo le labbra, ed abbassando la testa.

- Riposino pure sopra di me, continuava il Luciani, come su due guanciali; io sono avvezzo a far presto, e bene. Quando Papa Sisto mi mandò a Bologna pel negozio del conte Peppoli, io ebbi l'onore di darglielo spacciato nelle mani in meno d'una settimana...

- Ah! il povero conte, che fu decapitato nell'ottantasei...

- Domando perdono, Eminentissimo è' fu nel millecinquecentottantacinque, il venerdì dopo la pasqua del Corpo di Cristo, nel primo anno del suo pontificato. Quel benedetto conte ne aveva fatte delle bige e delle nere; sicchè anche i suoi nodi un giorno vennero al pettine. Caduto in potestà della giustizia, siccom'egli era di ricchezze copioso, potente di parentadi, e abbondante di partiti, non si trovava persona la quale si avvicinasse deporgli contra; per le quali cose si correva pericolo di doverlo metter fuori per mancanza di prove. La Santità di Papa Sisto apprendendo queste novelle mi spedì incontanente per le poste fino a Bologna, affinchè significassi alla recisa a quegl'illustrissimi signori giudici, che se non condannavano alla forca, e subito, il conte Giovanni, Sua Santità avrebbe impiccato loro. Messi così nello strettoio, o d'impiccare o d'essere impiccati, impiccarono; e fecero bene: non però senza qualche scapito della reputazione della magistratura, per i passati indugi; avvegnachè, che cosa sia la legge nei governi bene ordinati? Niente altro che regola di condotta pei sudditi. Ora, chi fa la legge? Il Principe; dunque la sua volontà è legge; scriverla, e pubblicarla spetta alla forma, non alla sostanza; e Papa Sisto, che sapeva governare, volle che legge fosse la sua volontà non pure scritta, ma eziandio manifestata con la voce e col cenno156.

- Eh! Papa Sisto la intendeva pel suo verso.

- Le suppliche mandate al buon pontefice in pro del Conte sommarono a cinquecento, e tante; egli ne graziò una sola, e fu proprio del Conte stesso, il quale allegando i privilegi del nobile lignaggio, domandava reverentemente essere decollato piuttostochè impiccato. Sisto, con la consueta sua benignità, oltre la grazia supplicata, aggiunse di suo, che per maggiore onore gli concedeva di andare al patibolo con la spada al fianco; come di fatto successe. Però, continuava esitando il Luciani, io non capisco come la gloriosa memoria di Papa Sisto si degnasse raccomandarmi in morte; conciossiachè io gli venissi in uggia per modo, ch'io ci ebbi a rimettere il collo; e la veda, Eminentissimo, proprio in me non era colpa al mondo, e Dio sa se io lo servissi di cuore. Basta, un papa veramente grande egli fu; ma quando cotesta sua accesa natura montava su le furie, non ci era modo di poterlo attutire.

Lo Eminentissimo, che aveva detto una bugia, non era uomo da sgomentarsi per così poco; ond'è, che senza punto turbarsi così rispose:

- Certamente: siccome Papa Sisto passato il primo bollore di leggieri si ravvedeva, è da credersi che, riconosciuto lo error suo, non avendolo potuto riparare in vita, si adoperasse di farlo in morte. - E subito dopo, studioso di divertire l'attenzione del Luciani, interrogò: «E come vi avvenne, illustrissimo signor Presidente, di cadere in disgrazia ad un tanto pontefice?

- Avete a sapere, Eminentissimo, come una idea fissa si fosse impadronita della mente di Papa Sisto, infastidito di volgari supplizii; ed era una smania sterminata di far morire sul palco qualche principe. Tanto lo dominava questa fantasia, che talora, facendosi leggere per diletto la relazione della prigionia e morte della regina Maria Stuarda, sospirava dicendo: «O Signore! e quando verrà quel giorno in cui capiterà una tale occasione anche a me?» Ed altra volta, affacciatosi alla finestra, si voltò alla plaga di ponente, dove si dice che giaccia Inghilterra; e, sollevata la mano, quasi volesse parlare con la regina Elisabetta, ad alta voce favellò: «O te beata, regina, che sortisti dai cieli l'onore di poter far cadere una testa coronata! Va, che tu sei un gran cervello di donna». Ora mentre stava sopra questo appetito, la fortuna gli parò dinanzi la occasione per poterlo satisfare. Il signor Ranuccio Farnese, figliuolo del serenissimo duca di Parma Alessandro Farnese, contravvenendo al divieto del papa, si attentò portare armi per Roma; e non solo le portò per Roma, ma con esse venne in Vaticano, e si presentò al sommo pontefice. Papa Sisto, come colui che con le spie non soleva fare a spilluzzico, avvisato minutamente del fatto mise il bargello e gli sbirri in anticamera, dove il temerario giovane venne preso, e poi portato dritto come un cero in Castello Santo Angiolo. Chiara la legge, il delitto manifesto, e per di più qualificato dallo spreto dell'autorità e del luogo venerabile. Appena successo il caso si levò rumore grande per Roma, ed all'universale sembrava agevolissimo ottenere grazia al signor Ranuccio, considerando il credito che godeva infinito presso la Corte il cardinale Farnese, la fama del duca Alessandro tanto benemerito della fede cattolica, che Papa Sisto per via di legato speciale gli mandò sino in Fiandra il cappello, e lo stocco benedetti; l'autorità della casa inclita a paro delle più illustri, il parentado co' meglio potenti Principi della Cristianità, e finalmente la leggerezza degli anni giovanili del signor Ranuccio; ma quelli che conoscevano il papa da vicino tentennavano il capo, e dicevano: «e' ci è l'osso!» E questi la indovinavano. Di vero Sisto si mostrò, piuttostochè duro, incocciato a farlo morire; ed a quelli che gli esponevano i meriti del duca Alessandro Farnese, rispose: «nessuno meglio di lui averli tenuti, e tenerli in pregio; ma le virtù del padre non dovere, nè poter compensare gli errori del figliuolo»: agli altri, ed erano i giureconsulti, che gli obiettavano i principi ed i forensi non andare suggetti alle leggi statutali, a differenza delle altre che nascono dallo jus comune, opponeva cotesta ragione non correre, avvegnachè il principe Ranuccio, come vassallo della Chiesa, non potesse allegare ignoranza di statuto: per ultimo a coloro che adducevano la novella età del contumace, rivoltava contro lo argomento osservando, la poca età doversi apprendere come circostanza aggravante; e chi sentiva altramente parergli scemo di senno: dacchè se così tenero tanto egli ardiva, qual termine estremo, quale ultimo confino non avrebbe passato adulto? Insomma, egli era un gusto a sentirlo schermire; pareva un toro quando caccia per aria i cani nello steccato. Il cardinale Farnese, personaggio di quella gravità che la Eminenza vostra conosce, prese come prudente il suo partito; e fatti i suoi apparecchi con sagacia pari alla segretezza, calato il sole si fece a visitare Sua Santità. Giunto al cospetto del papa prese con ogni maniera di pietose supplicazioni a raumiliarlo, esortandolo di tratto in tratto a non empire di tanto lutto la casa Farnese, e contristare così l'anima del campione invittissimo della fede, il duca Alessandro. Per la qual cosa Papa Sisto, volendo torsi cotesto fastidio dattorno, presa una carta vi scrisse sopra l'ordine al castellano di Santo Angiolo di consegnare alle ore due precise di notte il prigione al cardinale Farnese, e al tempo stesso scrisse un altro ordine al medesimo castellano, che senza porre veruno indugio tra mezzo, nè anche di un minuto secondo, mettesse a morte il signor Ranuccio. Pare impossibile quale, e quanta fosse l'accuratezza dello eminentissimo cardinale Farnese, il quale, nel presagio che la cosa andasse come veramente successe, corruppe con danari l'orologiaro del castello, e gli fece avanzare l'ora; ond'egli presentatosi con tutta diligenza al castellano ne ottenne facilmente il Principe, che tosto mise in carrozza, e con tanto precipizio spinse fuori di Roma, che correndo, senza mai fermarsi, le poste, si ridusse in salvo ai suoi stati di Lombardia in meno di trenta ore. A me poi, senta qual trama tese cotesto benedetto cardinale. Papa Sisto mi aveva confidato l'ordine secondo, affinchè lo portassi, aprendomi l'animo suo; e, volendomi esercitare ad usar diligenza, mi diè una spinta, quasi intendesse balestrarmi di punto in bianco in castello. Ora mentre io mi affretto, allo scendere del ponte, o per corda tesa traverso o per altro argomento che vi adoperassero, i cavalli stramazzano di sfascio; la carrozza si rovesciò su di un lato, ed io, comecchè a fatica, pure senza offesa potei uscire dagli sportelli. Rimanendomi poca più via, mi disponeva farla a piedi; quando mi vennero attorno parecchi gentiluomini, i quali commiserando il mio stato si mostravano timorosi che qualche guaio mi avesse colto: io badava a ringraziarli, e a renderli capaci, che per grazia di Dio era rimasto illeso; ma essi, niente; non vollero rimanere convinti, e quasi a forza mi fecero salire nella carrozza loro, profferendosi pronti di condurmi al luogo ch'io mi fossi compiaciuto indicare. A questo patto, per non mostrarmi di soverchio scortese, accettai, manifestando subito il desiderio di esser condotto in Castello Santo Angiolo. «Subito; la rimanga servita, disse uno di quei gentiluomini; e affacciatosi allo sportello ordinò al cocchiere: «a Castello Santo Angiolo». Appena egli ebbe profferite queste parole ecco i cavalli s'inalberano, prendono a imbizzarrire, e quinci in breve a scappare via rovinosamente: andammo di su e di giù, percorremmo in tutti i lati la. città: a me pareva trovarmi nella botte in cui i Cartaginesi misero Regolo; sudava acqua e sangue pensando all'ira del papa. Finalmente i cavalli si acquietarono, e i gentiluomini, forte rammaricandosi dello accaduto, non senza molte cerimonie mi deposero alla porta del castello: io gli ringraziai con la bocca, mentre li malediceva largamente col cuore. Nello affrettarmi con celeri passi cavai l'orologio di tasca, e vidi che mancava qualche minuto alla un'ora e mezza di notte. Riprendo animo, e, rinforzato il correre, mi trovo davanti al castellano, a cui metto senza potere far motto la carta nelle mani: egli la prende, la legge, la volta sotto sopra, e poi mi sbarra in viso due occhi stralunati come avesse dato volta alle girelle. Gli domandai che cosa aveva, ed ei rispose, che ore pensava che fossero: ma, ripresi io, l'un'ora e mezza di notte circa. - Domani torneranno; per oggi contentatevi che sieno le tre. - Le tre? - Le tre, e staranno lì lì per suonare. - Io mi trassi l'orologio di tasca, che in quel punto segnava le due meno cinque minuti, e glielo posi sotto gli occhi. Nel medesimo istante all'orologio del castello batterono le tre. - Le trame dello astuto cardinale apparivano manifeste; ci aveva gabbato tutti, e me peggio degli altri. Quando al Santo Padre venne riferito il successo, non s'incollerì punto, com'io aveva immaginato, col cardinale Farnese; all'opposto, quando lo vide, gli andò incontro congratulandosi dell'arguzia e diligenza sue; me poi, allorchè mi condussi ai santi piedi per iscolparmi, non volle ascoltare; ma squadratomi bieco, con labbra tremanti di rabbia mi disse: «Toglimiti dinanzi in tua malora, e ringrazia Cristo s'io non ti mando adesso adesso in galera». Io non me lo feci ripetere due volte; ma lascio considerare a vostra Eminenza s'io mi meritassi siffatto rabbuffo157.

- Consolatevi, via, signor Presidente: vedete, l'ora del risarcimento non manca mai a cui la merita, e la sa aspettare... Orsù, andate, ed attendete al negozio, ch'io in nome di Sua Santità vi raccomando.

Il presidente Luciani inchinandosi fino al pavimento rinnuovò la sua alleanza con la polvere, e prese commiato. Nel condursi a casa non aveva membro che non gli sussultasse; tremava, il codardo. nella gioia pregustata di tribolare a voglia sua enti sensibili, creature di Dio. Se io affermassi che in cotesto feroce e vile intelletto non capisse desiderio di avvantaggiarsi con promozioni e pecunia, non sarebbe vero; ma siffatta passione veniva di gran lunga seconda all'altra di tormentare. Guardagli la faccia, e poi dimmi se sia uomo costui; la testa ha quadra, depressa la fronte, le orecchie indietro, il muso assai più largo nelle mandibole inferiori che negli zigomi, le guance pendenti, la bocca senza labbra si perde per le rughe, e non lascia indovinare dove abbia confine; i capelli irti, e rasi; il colore è di grasso vieto tranne la parte pelosa, che ha lite col verderame, e lo vince; gli occhi piccoli e tondi, e gialli come l'orpimento: creazione sbagliata, distrazione della natura; conciossiachè con una variante leggerissima nella gola la voce non gli sarebbe uscita articolata in parola, bensì abbaiata in latrato; ed allora invece di doventare uno arnese pessimo di quella, che gli uomini sogliono chiamare giustizia, sarebbe riuscito un ottimo cane da macellaro.

Ridottosi a casa, il presidente Luciani si mostrò fuori dell'usitato giocondo: favellò piacevole alla moglie, che di cuore diverso dal suo gli aveva dato il cielo; accarezzò le figliuole, poi si mise a sedere, e volle cena; festeggiando, come la gente del volgo costuma, col bere smodatamente la domestica allegrezza. Diventato più sciolto, anzi impudente di lingua per virtù del vino, esclamò:

- Orsù, via, figliuole mie; venite qua, che voglio darvi una buona novella, ed è, che prima che finisca la settimana intendo presentarvi di un magnifico dono.

- Magari! E che cosa ci dona, signor padre? - rispose la maggiore.

- Indovinate.

- Una faldiglia di seta?

- Meglio ancora.

- Un viaggio a Tivoli?

- Meglio, meglio. Io vi donerò quattro teste tagliate di gentildonne, e gentiluomini romani; e tra queste una attaccata ad un collo bianco, e rotondo come il tuo.

E sì dicendo, con gl'indici e i pollici delle mani le cingeva il collo. La fanciulla si sottrasse con ribrezzo alla stretta esclamando:

- Cotesti sono presenti pei carnefici: io non lo voglio.

E le altre sorelle, in coro:

- Tristo dono, tristo dono; noi non lo vogliamo.

- Donna, gridò il Luciani guardando con occhi arruffati la moglie, la nostra schiatta madreggia; - e così dicendo si levò in piedi, si trasse il berretto fino sul naso, e preso un lume s'incamminò borbottando alla sua camera, dove si chiuse per di dentro.

La mattina veniente, appena fatto giorno, fu visto il Luciani nella carcere di Corte Savella accompagnato da due vecchie femmine, o piuttosto furie, incamminarsi alla prigione di Beatrice.

La mesta fanciulla giaceva assorta da moltitudine di pensieri, i quali tutti mettevano capo ad affannose conchiusioni; ond'ella infastidita, e sazia di giorni, non rifiniva di raccomandarsi a Dio, che per pietà da questo martirio la chiamasse alla sua pace. All'improvviso, aperta strepitosamente la imposta della carcere, si presentano davanti alla dolente le sinistre sembianze del Luciani e delle sue compagne.

Costui con parlare succinto ed acre le dichiarò, essere venuti per visitarla se avesse fattucchierie addosso; però di buona grazia si accomodasse allo esame. Egli intanto si ridusse in un canto della stanza, e quinci, con la faccia rivolta al muro, ordinò alle due Megere che compissero lo ufficio.

Beatrice avvampando d'ira e di vergogna si ravviluppa nelle coltri, e, forte stringendolesi intorno al corpo, rifiuta sottoporsi alla umiliante ricerca. Non si rimasero per questo le due carnefici pinzochere, che, adoperandovi le mani loro adunche ed ossute, le strapparono di forza coltri e lenzuola. Nudo quel bell'angiolo di amore cadde in balìa di costoro.

- Dal capo vien la tigna, diceva il Luciani dal suo cantuccio; però incominciamo a perquisirle la testa: separate in prima i capelli per bene, guardate con diligenza la cotenna... voi, signora Dorotea, forbitevi gli occhiali... ve lo ripeto per la ventesima volta... voi le troverete una macchietta livida, o nera un poco più grande di una lenticchia... come sarebbe a dire un granchio secco... avete trovato?

- Non trovo altro, rispose Dorotea, che un visibilio di capelli sufficienti per farne una parrucca a tutt'e due, e ne avanzerebbe.

- Basterebbero a tutt'e tre, osservò l'altra.

- Scendete giù... guardate il collo, il seno, le spalle...

- Nulla...

- Come nulla? Egli è impossibile.

- Ella è così. Sarebbe più facile che passasse inosservato un bufalo sopra la neve, che un pelo vano sopra queste carni di latte.

In questo modo fu ricercata Beatrice sottilissimamente per tutta la persona, senza che potessero scuoprire il segno indicato.

- Veramente, prese allora a brontolare, sempre nel suo canto, il Luciani, i maestri dell'arte insegnano come il demonio per ordinario imprima la sua macchia sul seno, o sopra la coscia sinistra; tuttavolta, non essendo astretto a veruna legge, voltatela bocconi, e perlustrate con la solita diligenza la schiena.

- Ecco... troviamo...

- Che cosa trovate, nè? - domandò il Luciani, mal si potendo contenere nel cantone.

- Troviamo a mezza vita un neo, circondato di alquanta calugine color dell'oro.

- Bene!... benissimo! Comecchè i maestri dell'arte ammoniscano che la macchia deva apparire livida, o nera, tuttavolta ricorre la osservazione, che il maligno essendo spregiatore di ogni legge, non può essersi assoggettato a regola fissa: in ispecie adesso, che, avendola a fare con me, avrà capito che la va da galeotto a marinaro. Signora Dorotea prendete lo specillo, e procurate prima tuffarlo nell'acqua benedetta.

La beghina tratto fuori un lungo spillo di ferro lo immerse, borbottando non so quali preghiere, dentro un vaso di acqua santa. Il Luciani impaziente domandava:

- Insomma, avete fatto?

- Illustrissimo sì.

- Or via, da brava, cacciatelo giù adagio adagio dentro la macchia infernale.

Beatrice piangeva di rabbia nel vedersi ridotta a tanta abiezione, e forte dibattendosi cacciava lunge da se ora l'una, ora l'altra delle spietate pinzochere; ma costoro le tornavano sopra più gagliarde che mai. Adesso poi al sentirsi trafiggere le vive carni proruppe in furore, interrogando con voce concitata che insania fosse mai quella; ed aggiungeva lei essere cristiana quanto, e meglio di loro; e si vergognassero con quelle superstizioni turpissime tribolare una povera fanciulla, la quale avrebbe potuto essere a loro figliuola.

- Santissima vergine, belava la Dorotea con voce caprettina, menando tuttavia le mani audaci, noi non vi vogliamo mica male, cara sorella; no davvero, ma lo facciamo per vostro bene; proprio per la salute dell'anima vostra.

Intanto il presidente Luciani, senza mai volgere la testa, aveva borbottato nel cantuccio uno di quei tanti oremus, che incominciano In nomine Patris, Filii et Spiritus Sancti, e finiscono col per omnia saecula saeculorum, amen; col quale si faceva intimazione e precetto allo Spirito delle tenebre di sfrattare immediatamente, lasciandolo libero sgombro e vacuo, dal corpo di Beatrice Cènci; e compito ch'ei l'ebbe, così prese a favellare:

- Lodato sia Dio; adesso mi sento soddisfatto, e potrei dire quasimente sicuro, conciossiachè o il diavolo ci fosse, o non ci fosse: se ci era, in virtù dell'esorcismo a quest'ora se ne torna più che di passo in cammino per lo inferno; o non ci era, e ormai di entrarci non avrà più balìa.

E richiamate le donne, senza pure volgere uno sguardo alla derelitta, usciva con esso loro di prigione alternando insieme pii e dotti ragionamenti intorno alla potenza del demonio, a cui, secondo il suo avviso, la misericordia di Dio ne aveva lasciata troppa; - che se avesse avuto l'onore di consigliare il Padre Eterno lo avrebbe persuaso a impiccarlo addirittura ai corni della luna, e lasciarvelo penzoloni perchè servisse di esempio ai malfattori avvenire, così in cielo come in terra: poi, dato a ciascheduna di loro uno scudo, le supplicava a pregare per lui San Gaetano padre della divina provvidenza, ed impetrargli la grazia di riuscire a bene nello importante negozio che aveva per le mani, a sbigottimento degli empii, e alla maggiore esaltazione di santa madre chiesa cattolica. Le pinzochere corrisposero al desiderio incamminandosi difilato alla chiesa del Gesù, e pregando fervorosamente Santo Gaetano onde si degnasse concedere al dilettissimo fratello in Cristo presidente Luciani la grazia di poter mandare legalmente al patibolo tutta la famiglia Cènci, nessuno escluso, nè eccettuato.

E mentre il dabbene Luciani stava in aspettazione degli aiuti divini, non tenne le mani alla cintura per mettere in opera i terreni; dacchè appuntatosi con gli altri giudici di trovarsi la mattina di poi per tempissimo alla carcere di Corte Savella, vi si recarono di fatto; e quivi, senza porre tempo fra mezzo, egli ordinò si conducesse loro davanti la fanciulla.

Al posto resultato vacante per la promozione dell'auditore Luciani avevano preposto un certo coso, sciapito più del cetriolo; nè buono nè cattivo come uomo; iniquo poi come giudice, e veramente pessimo; imperciocchè, da quello di ritirare la paga nelle debite ricorrenze in fuori, non si fosse dato il travaglio di pensare a nulla, piegando sempre, a mo' che fa l'elitropio al raggio del sole, la sua volontà nella parte che gli veniva indicata da tutti i suoi superiori. Impasto vergognoso di viltà, d'ignoranza e di accidia, comunissimo fra gl'impiegati di ogni maniera, in ispecial modo poi fra coloro che chiamansi sacerdoti della giustizia, senza dubbio in allusione al costume dei sacerdoti pagani, di scannare e divorare le vittime. In ciò costoro trovano il tornaconto; onde siffatta pratica, nata dalla natura, essi rinforzano con l'arte: dacchè in questa guisa primieramente non consumano olio a studiare, con vantaggio così della economia come della salute; in secondo luogo schifano la noia del contradire, e i pericoli della opposizione; per ultimo, leggieri e galleggianti, si trovano a poco a poco trasportati alla riva della buona pensione con la croce, o senza. E il vulgo non li guarda in cagnesco; anzi gli accarezza, e li vezzeggia col nome di buoni figliuoli: quel vulgo, che non dìstingue tra bontà che delibera, o vuole, bontà di pendolo, che oscilla quando riceve la pinta, - e bontà di cappone perchè nacque cappone, e l'hanno accapponato.

Ecco Beatrice davanti al presidente Luciani Atrocemente barbaro  fu lo spettacolo, che fece trovar acuto solletico nel contemplare nei circhi fiere duellanti contro fiere, uomini contro uomini, od uomini contro belve: però sovente pari erano gli argomenti di difesa; e se talora impari, la disperazione più di una volta domò la forza feroce, e fu veduto il condannato spingere il braccio ignudo nella gola del lione, e soffocarlo. Ma egli è troppo più laido, e schifo spettacolo esporre una creatura stretta di ceppi alla rabbia, quanto quella delle belve bestiale, ma più ingegnosa assai, di un uomo che si chiama Giudice, il quale le si muove contro armato di terrore, circondato di forze insuperabili, accompagnato dai tormenti che neppure il demonio avrebbe saputo ricavare dalla corda, dal ferro, e dal fuoco.

- Accusata! - incominciò il Luciani con certo suo piglio plebeiamente acerbo, ch'ei per avventura immaginò rendere solenne, - udiste altra volta le imputazioni che vi vengono apposte; desiderate che vi sieno rilette?

- Non fa mestieri; le sono cose coteste, che udite una volta non si dimenticano più...

- Specialmente poi quando le abbiamo commesse. Ora io vi ammonisco, come pel deposto dei vostri medesimi complici voi siate pienamente convinta della vostra empietà; cosicchè la giustizia a rigore di termine potrebbe molto bene farne a meno.

- E allora, perchè con tanta insistenza me lo domandate voi?

- Ve lo domando per la salute dell'anima vostra; perchè come cristiana e cattolica, quantunque indegnamente lo siate, dovreste sapere, che morendo senza confessione voi infallibilmente andreste perduta.

- Come! la cura che voi, signore, dovreste porre alla salute dell'anima vostra, può darvi agio di pensare anche alla mia? Lasciate che ognuno provveda alla sua salvezza come meglio la intende. Queste sono cose che passano tra il Signore e la sua creatura, e non ci entrate voi. Voi, se siete convinto, condannatemi, e basta.

- Accusata! Fate senno, e avvertite che i modi temerarii adoperati da voi al cospetto dei vostri giudici ad altro non possono condurre che a peggiorare la vostra condizione, già grave abbastanza; e in quanto a me poi non possono partorire effetto veruno perchè, oltre all'avervi esorcizzata nelle regole, porto qui meco un rimedio sicurissimo contro le malìe e le incantagioni, quando mai vi fosse rimasta facoltà di adoperarle a mio danno. Ora, per la seconda volta ve lo domando; volete, o non volete confessare?

- Quello che la santa verità mi faceva debito confessare, ho confessato; la menzogna, che voi cercate, con lo aiuto di Dio, nelle braccia del quale io mi rimetto, non sapranno strappare i vostri tormenti, nè le vostre blandizie.

- Questo è ciò che staremo a vedere. Intanto io vo' che sappiate, bene altri cervelli che non è il vostro aver saputo mettere a partito, io. Notaro Ribaldella scrivete: «Invocato il santissimo nome di Dio. Amen. Decretiamo ec. prima di passare ad ulteriora la vigilia nei modi et termini consueti per ore quaranta, la quale dovrà subire l'accusata Beatrice Cènci in luogo di tortura ad quaestionem ec., incaricando di assistere alla predetta il notaro Jacomo Ribaldella per le prime quattro ore; per le seconde quattro ore il notaro Bertino Grifo; per le terze quattro ore il notaro Sandrello Bambagino; e così, tornando da capo, succedersi di mano in mano, finchè non sia decorso il termine assegnato, o non sia intervenuta la confessione dell'accusata». Firmate...

Così, dopo aver firmato il foglio che gli porgeva il notaro, ordinò il presidente Luciani, passandolo agli altri giudici; e gli altri giudici, come pecore (e il paragone è benigno) lo firmarono, quasi il Luciani pensasse, sentisse, e deliberasse per tre. Benefizio ordinario dei tribunali collegiali, di cui la trinità può rettamente definirsi: Due persone che dormono, ed una terza che fa le carte!

La vigilia era uno sgabello alto da terra un braccio e mezzo, col sedile acuminato a punta di diamante, e largo poco più di un palmo; la spalliera pari. - La mia storia non si fermerà a raccontare come quivi costringessero la derelitta a sedersi; come le legassero le gambe, affinchè distendendole non toccasse il pavimento ricavando refrigerio al suo martirio; come con una corda, calata dal soffitto per via di carrucola, le mani dietro i reni le avvincessero. La mia storia torcerà lo sguardo spaventato dagli sbirri, che vegliavano accanto alla misera vergine, i quali di tratto in tratto l'andavano urtando nei fianchi, onde con inaudito spasimo sopra la cuspide del sedile dondolasse, o nell'acuta spalliera percuotesse. La mia storia non dirà come il carnefice mastro Alessandro, due volte almeno per ora, avesse commissione di sollevarla con tratti di corda, e lasciarla quindi cascare a piombo sopra il sedile angoscioso; ed egli, come gli era stato ordinato adempiva; e che cosa poteva fare? Troppi erano gli occhi che lo guardavano attorno; e poi, a lui non era dato mostrare la sua tenerezza senonchè mandando per linea retta il paziente alla morte, e removendo il lussurioso, e il vano dei martirii: oltre ciò nè poteva, nè forse voleva; pietoso era, ma boia. Intriso di sangue il pane quotidiano che lo nudriva, e più infami, più atroci, più scellerate cose, che le sue non erano, e da persone a lui maggiorenti si commettevano tutto dì allora, e tutto dì si commettono anche adesso per un tozzo di pane, destinato a mantenere per brevi istanti una vita di verme per un mondo di fango. - La storia mia tacerà le scene turpi, i vituperii, le oscene allusioni: prodigate alla santissima fanciulla da tutte coteste belve dalla faccia umana, e sopra tutti dal notaro Ribaldella, che riverberava come specchio l'anima del Luciani: - tacerà del frequente apparire che fece, anche nelle ore più tarde della notte, il presidente Luciani infellonito della divina costanza di Beatrice, e il perpetuo digrignare fra i denti di costui «stringete più forte, squassate più spesso»: - tacerà le lacrime ardenti, il freddo sudore, gli spasimi ineffabili, gli spessi svenimenti della fanciulla, e la pietà crudele dei carnefici nel ritornarla con sali e spiriti al sentimento delle angosce: no; quelle cose, che i vicarii di Cristo sopportarono, e non solo sopportarono ma consentirono e promossero, oggi la penna aborrisce di scrivere, e lo inchiostro tracciandole diventerebbe rosso per la vergogna. Dirà ella piuttosto del coraggio sopraumano e della costanza della inclita donzella, la quale nonostante la immensità del suo martirio rimase ferma nel proponimento di morire in mezzo ai cruciati, anzichè contaminare la sua fama con la confessione di un misfatto, ch'ella non aveva commesso. Tolta quasi spirante dalla tortura lei portavano di nuovo al carcere, e quivi adagiavanla sul letto.

Colà fu lasciata stare due giorni: la sua intelligenza, ora luminosa, rischiarava il dolore percorso; e il tratto di gran lunga più amaro, che le rimaneva a percorrere, ora le s'intenebrava circondandola di trepidante incertezza: così il fanale di una nave per notte tempestante apparisce a vicenda e scomparisce sul dorso, o nel gorgo dei marosi, segno funesto di prossimo naufragio a cui palpitando la contempla dalla riva: solo irrequieto, durava in lei il senso dell'ambascia, il quale con le sue traffitte rammentava a quel cuore sicuro non già di cedere, bensì il proponimento di morire in silenzio.

Il terzo giorno gli sbirri tornarono per lei, che il Luciani chiamava a nuovi strazii. Ormai rassegnata al suo destino, ella non repugnò andare; solo li supplicava con voce soave volessero di tanto aspettare, che si fosse vestita: e poichè i manigoldi capirono che così ignuda, com'ella era, dinanzi al tribunale non la potevano trarre, risposero acconsentirebbero attendere; però fossero brevi gl'indugi, dacchè i giudici stessero adunati, e non conveniva ai colpevoli farsi aspettare. Intanto che Beatrice, sovvenuta dalla figlia del carnefice, si vestiva, così favellò:

- Senti, sorella mia; se mi chiamano, lo sai, e' lo fanno per tormentarmi: ora io dubito forte di rimanere morta fra le torture, come vidi accadere a quel povero Marzio; e come ho provato con lo esperimento proprio, che potrebbe pur troppo succedere anche a me: però io intendo non già ricompensarti della tua carità, Virginia mia, bensì lasciarti un ricordo di me sventurata. Tu ti prenderai tutti i miei pannilini e le vesti, che ho qui meco in prigione... e tieni... prendi ancora questa croce, che fu della signora Virginia mia madre; a patto... che se io torno viva dal tormento, e possa in altro modo lasciarti ricordo di me, tu me la renda; avvegnachè vorrei che fosse sepolta meco. Di queste viole, ahimè! innaffiate di pianto, e cresciute al raggio del sole che penetra obliquo e tristo per le inferrate della finestra, tu, finchè durano, ne farai ogni giorno un mazzetto, che offrirai alla immagine della Santa Vergine che tengo a capo del letto... anzi... ascoltami... Virginia, - e qui si fece per la faccia tutta vermiglia, e favellò più basso, - tu devi sapere ch'io ho... oh! no... io ebbi un amante grande, ben fatto a maraviglia, e buono; ed io l'amai... ed egli mi amò, e tuttavia io credo che svisceratamente mi ami;... ma in terra uniti noi non potremmo essere mai... e dubito forte se un giorno anche in cielo... colpa non mia, ahimè! - Tu prenderai cotesta immagine, e t'ingegnerai penetrare fino al cardinale Maffeo Barberini, e gli dirai che gliela mando io onde procuri che l'abbia il suo amico, e gli faccia nel punto stesso saper com'io sovente abbia pregato davanti a lei per la salute dell'anima sua: bada, tienlo bene a mente, per non avertelo a scordare: ed aggiungerai...

- Oe, o che vi pensate andare al corteo? È un'ora che aspettiamo... venitevene via come vi trovate.

Beatrice andò; nè Virginia le potè rispondere una parola, tra per la pressa degli sbirri che le ne tolse il campo, tra per la passione che le stringeva la gola: l'accompagnò piangendo fino alla porta, e quivi, dopo averla abbracciata e baciata, l'abbandonò. Beatrice volse il capo sul limitare, e vide come la pietosa fosse corsa ad inginocchiarsi davanti alla immagine della Madonna, appendendo sotto di quella la crocellina di diamanti, che fu della Virginia Cènci sua madre.

Il presidente Luciani, con ambe le braccia fino al gomito stese sopra la tavola in attitudine del cane mastino quando si posa, in questa maniera discorreva agli onorandi colleghi:

- Pare impossibile! S'io non l'avessi fatta ricercare sottilmente, si può dire sotto i miei occhi, avvegnachè honestatis causa io tenessi la faccia volta alla parete, non mi potrei persuadere che la non fosse ciurmata.

- Però, - notava gravemente Valentino Turchi con ostentata umiltà, che lasciava trapelare la sua prosunzione come da imposta mal chiusa sbuca fuori di scancio il raggio del sole, - però mi permetto avvertire, che non fu fatta tosare...

Il Luciani volgendo exabrupto la testa, qual mastino punto dal tafano, all'auditore Valentino Turchi, con voce acerba gli rispose:

- Io non la feci radere perchè Del Rio, Bodino, e gli altri più schiariti scrittori di materia infernale non indicano la parte pilosa, come quella sopra la quale il demonio eserciti per ordinario la sua potenza.

- Per ordinario; e sta bene, soggiunse il Turchi, arduo anch'egli a lasciare la presa; ma avendo meco considerato più volte, da una parte come Dio la gran forza di Sansone nei capelli di lui collocasse, e dall'altra come al diavolo piaccia sempre imitare, e volgere a male quello che il Signore opera a fine di bene; così dirimpetto all'autorità, d'altronde negativa unicamente, degli scrittori allegati io ho ritenuto sempre, che i capelli potessero bene e meglio essere scelti dal demonio come sede delle sue perfidissime incantagioni: per ultimo utile per inutile non vitiatur; ed in faccenda siffattamente grave il tuziorismo, voi siete per insegnarmi, non è mai troppo.

- Il vostro dubbio, riprese il Luciani piegando vinto la testa, e con tal suono, che mal celava lo interno dispetto, non è per certo privo di fondamento, e...

Ma qui il notaro Ribaldella, il quale era come un'eco dell'anima del suo patrono Luciani, sovvenendo prontissimo a lui pericolante, scrisse sopra un pezzetto di carta una parola, ed umile in atto glielo porse mentre stava per finire il discorso. Lo vide il Luciani, ed i suoi occhi balenarono di ferocia e di superbia: rilevò il capo, e prima lo volse al fido creato con tale un garbo, che pareva volesse dargli un morso, e gli volea sorridere; poi all'auditore Valentino Turchi, e continuò a dire:

- e meriterebbe plauso se non ci togliesse modo di sperimentare la tortura capillorum, che presagiva applicare in questa mattina; e voi siete troppo rotto nella pratica delle cose criminali per non sapermi istruire, come questa prova partorisca quasi sempre ottimi effetti.

Il notaro Ribaldella sopra il frammento di carta aveva segnato:

- E la tortura capillorum?

L'auditore Valentino Turchi declinò a posta sua il capo confuso; il Luciani insistendo favellò:

- Anzi per me sono di avviso, che si abbia stamani a incominciare dalla tortura capillorum; secondo poi quello che butta, noi ci regoleremo. - Oh! sì, come dice il proverbio: come il padron ci tratta, e noi lo serviremo.

- Allo apparire di Beatrice pallida, in aria soffrente, con gli occhi smorti dentro un cerchio azzurro, il Luciani, sempre in atto di mastino quando si posa, s'ingegnò, per quanto gli era dato, comporre a mitezza il sembiante sinistro e la voce arrotata:

- Gentil donzella! quanto il mio cuore abbia patito nel dovervi porre ai tormenti, Dio ve lo dica per me; chè con parole convenevoli non potrei dimostrarvelo io. Anch'io sono padre di fanciulle per età, se non per bellezza, uguali a voi; e nel vedervi straziare, non senza sgomento ho interrogato me stesso: Luciani, qual mente, quale animo sarebbero i tuoi, se tale aspro governo facessero del sangue tuo? Dovere di magistrato, senso di uomo, pietà di cristiano mi persuadono raccomandare voi stessa a voi. Deh! vi calga della vostra giovanezza. A che monta la pervicace caparbietà vostra? Io ve l'ho detto, e vel ripeto adesso; abbondano in processo le prove per convincervi rea: la confessione dei vostri medesimi complici vi condanna. Meritatevi con ingenua confessione la grazia del beatissimo Padre. Delle somme chiavi, di cui egli ha l'augusto ministero, troppo più gli piacque adoperare quella che apre, dell'altra che serra. Soprattutto a lui talenta la fama di benigno; e davvero, qual è nel nome, così nei fatti vuol dimostrarsi Clemente. Non mi sforzate, via, signora Beatrice, ad usare rigore; considerate che i tormenti da voi, mio malgrado, patiti sono quasi piaceri in paragone delle atroci torture (e qui lasciò libero il corso alla voce arrotata) che la giustizia riserva contro i contumaci ostinati.

- Perchè mi tentate? - rispose Beatrice pacatamente. Come se non vi paresse abbastanza la facoltà di straziarmi il corpo, perchè v'industriate ad avvilirmi l'anima? Queste sono le parti del demonio, non quelle del giudice, o almeno una volta non lo erano. Il mio corpo è vostro... la forza feroce lo pone in balìa di voi... a posta vostra straziatelo; - l'anima il mio Creatore mi diede ben mia, e questa, anzichè lasciarsi sbigottire dalle vostre minacce, o prendere dai vostri blandimenti, mi conforta a sostenere più di quello che voi non possiate tormentare.

Le sopracciglia del Luciani si strinsero come tanaglia; e percuotendo con ambo le mani aperte sopra la tavola, urlò furiosamente:

- Ad torturam... ad torturam capillorum... Dov'è mastro Alessandro? Egli dovrebbe trovarsi sempre presente al tribunale quando presiedo io158.

- Egli ha dato un salto fino a Baccano per faccende di mestiere, con ordine superiore; ed ha lasciato detto che tornerebbe in giornata.

- Al maggior uopo tutti mi lasciano solo. A voi dunque, Carlino, che so che siete un giovanotto per bene; fatevi onore adesso.

Queste parole volgeva il Luciani allo aiutante del boia, il quale replicava ingenuo, stropicciandosi le mani:

- Eh! c'ingegneremo...

La verità era che mastro Alessandro, colto il destro che il caso gli aveva posto davanti, si era allontanato da Roma. Due sgherri ora si avventano sopra la Beatrice, le disfanno le bellissime chiome bionde, le scarmigliano, le ravviluppano, e legano, e stringono intorno ad un mazzo di corde così prestamente, come fuori di ogni immaginazione orribilmente; - poi la sollevano da terra...

La beltà sformata stringe, a vedersi, più angosciosa il cuore che la bruttezza medesima. Se mai tua ventura ti condusse per le contrade di Grecia, tu passasti, senza pure avvertirli, accanto ai ruderi di qualche fortilizio veneziano, o turco; ma il tuo spirito si contristò contemplando il Partenone mutilato dal tempo, dai Turchi, e da lord Elgin, lasciando il passeggiero incerto se al delubro di Minerva abbia più nociuto o la forza distruttiva del primo, o la barbarie dei secondi, o la dotta rapina del terzo.

I capelli più sottili della misera martoriata schiantansi, la pelle stirata distaccasi dalla fronte, ed anche sopra le guance, tratta violentemente verso le orecchie, minaccia crepare: le labbra semiaperte parevano ridere, gli occhi allungati a mandorla per le tempie davano alla donzella la sembianza di fauna. Doloroso a vedersi! troppo più a patirsi! Il Luciani, sempre le mani appoggiate come le zampe il mastino in riposo, andava di tratto in tratto abbaiando:

- Confessate la verità...

- Sono innocente.

- Datele uno squassetto... un altro... un altro ancora. - Confessate la verità.

- Sono innocente.

- Ah! voi non volete confessare? Ebbene, a testa di leccio capo di sorbo. - Aggiungete voi altri un po' di ligatura canubis.

Carlino, obbedendo in un batter d'occhio all'ordine ricevuto, aiutato dai valletti attortiglia dentro una matassa di canapa il pugno della mano destra di Beatrice, e torce forte come costuma la curandaia allorchè strizza il panno bagnato per ispremerne l'acqua. La mano e il braccio stridono slogandosi, i muscoli si strappano, la epiderme si lacera con istravaso di sangue e mostruosa tumefazione. Il presidente Luciani, senza batter palpebra, ad ogni scontorcimento abbaia:

- Confessate il delitto!

- Oh Dio! Oh Dio!

- Confessate il vostro delitto, vi dico!

- Oh Dio del cielo... soccorri la tua creatura innocente!

- Stringete più forte, e squassate con gagliardia; - così, risoluto... per bene; in un punto medesimo stretta, e squasso...

- Ahi madre mia! Un sorso di acqua... mi sento morire... per carità, una stilla di refrigerio...

- Che refrigerio, e non refrigerio? Confessate.

- Io...

- Giù, via... siete?...

- Sono innocente.

A questo punto il furore del Luciani non ebbe più modo: cieco di rabbia, tremante per ira, co' denti della mascella superiore si morse il labbro inferiore per guisa, che ci rimasero sopra le orme impresse, alcune pagonazze, altre stillanti sangue.

- Stringi... stritola le ossa, urlava insatanassato il presidente degli assassini, allora chiamati giudici, finchè non crepi fuori della strozza la confessione del suo delitto.

- Ahimè! che dolori... che martirii sono questi! Sono cristiana... sono battezzata. - O morte! morte!

- Confessate... con...

Un nodo spaventevole di tosse sorprese in questo punto il Luciani, e parve dovesse restarne soffocato: anelavano convulsi la gola e il petto; umore viscoso gli gocciava giù dalla bocca e dalle narici; gli occhi venati di sangue gli scoppiavano fuori dai cigli, e ciò nonostante singhiozza ringhioso:

- Con... confe... confessate... scellerata!

- Sono innocente.

- Qua... tosto le cordicelle... la tortura delle cordicelle...

Cotesta era una infame contesa: gli astanti erano sazii dello spettacolo; i carnefici stessi spossati dalla fatica; Beatrice non dava più segno di vita.

- Le cordicelle, vi dico... le cordicelle... - tra un nodo e l'altro di tosse singhiozzava il Luciani.

I valletti del boia sbigottiti stavano inerti, e l'ira strozzava il Luciani, che ormai balbutiva suoni indistinti. Costoro infatti non potevano immaginare che il presidente avesse il cervello a segno; imperciocchè il tormento delle cordicelle consistesse in infinite cordicelle sottili e taglienti, con le quali si avviluppava e stringeva il martoriato per modo, che recisi i nervi, le vene e le carni, il corpo di lui diventasse tutta una piaga; e compariva manifesto che non potesse applicarsi in cotesto stato alla paziente, senza volerla finire.

Sopra il limitare della porta, dirimpetto al banco dei giudici, ecco si presenta la faccia livida di mastro Alessandro; si soffermò alquanto, volse uno sguardo tenue sopra cotesta scena, e sembra, tuttochè boia, che qualche cosa sentisse, avvegnadio nel volersi abbottonare la sopravvesta vermiglia la mano gli saltasse da un occhiello all'altro senza poterne venire a capo: da cotesto indizio in fuori non si palesò altro in lui che desse ad argomentare commozione, e fu visto accostarsi impassibile alla paziente, guardarla fissa, e toccarle i polsi; ciò fatto, con quel suo cipiglio, che metteva il ribrezzo addosso agli stessi giudici, nonchè ai condannati, rivolto al Luciani favellò in questa sentenza:

- Illustrissimo, spieghiamoci chiaro; volete voi che la paziente confessi, o che muoia?

- Morire, adesso? - Dio ne liberi! Bisogna che confessi...

- E allora per oggi, non può sostenere altri tormenti.

Così a quei tempi il carnefice insegnava umanità, e convenienza ai giudici: ai tempi nostri non le insegna loro nessuno; - lo sanno da se.

- Mastro Alessandro, proruppe il Luciani indispettito, dell'arte vostra io credo intendermene quanto voi, e...

Il notaro Ribaldella, che si agguantava alla fortuna del Luciani come all'ancora della speranza, presagendo imminente qualche grave scandalo, con quella sua fisonomia da tantummergo, troncò le parole dicendo:

- Illustrissimo signor Presidente, voi che siete così solenne maestro di proverbii, rammentate avermi ammonito più volte, che chi troppo l'assottiglia la scavezza: se la bontà di vostra signoria illustrissima si degnasse concedermelo, direi, sempre però remissivamente ai lumi superiori di vossignoria illu...

- Orsù, parlate, con mal piglio gli rispose il Luciani.

Allora il Ribaldella si levò agile e presto dal suo scanno, e accostatosi all'orecchio del Luciani vi sussurrò sommesso un suo concetto. Egli aveva ad essere infernale davvero; conciosiachè il Luciani, che gli aveva porto ascolto con torbida faccia, la rasserenò ad un tratto, e quasi sorridendo gli disse:

- Jacomuzzo andate là, chè voi farete passata. - Indi rivolto al carnefice: - Sospendete pure i tormenti, mastro Alessandro, - proseguì a dire, - anzi confortate la paziente, e ingegnatevi a farla riavere. - Voi altri, prestantissimi signori colleghi, compiacetevi aspettarmi seduti nei vostri seggi per breve ora di tempo.

Ciò detto sparì.

Quinci a poco più di venti minuti, nel corridore dond'erasi allontanato il Luciani fu udito strepito di catene, e subito dopo dalle aperte imposte comparvero Giacomo, Bernardino Cènci e Lucrezia Petroni, attriti come gente che abbia fuori di misura sofferto, e non siasi per anco rimessa dalle angosce durate. Il Luciani li seguitava come il mandriano caccia dinanzi a se il bestiame, che spinge al macello.

Dopo la notte dello arresto Giacomo e Bernardino Cènci non si erano più veduti fra loro, e la Lucrezia Petroni nemmeno. All'improvviso sentirono aprire l'uscio del carcere, e si trovarono, senza sapere nè che nè come, l'uno frombolato nelle braccia dell'altro.

Ognuno pensi come per tutti cotesti malearrivati fosse pietosissima cosa, e piena a un punto di sollievo e di affanno, incontrarsi, e piangere, e baciarsi insieme, comecchè le braccia incatenate ogni altra dimostrazione di affetto non concedessero.

Posciachè la piena della passione si fu sfogata quattro volte e sei, al Luciani, il quale per contenere la inquieta impazienza si rodeva le ugna, parve bene richiamarli, ed ammonirli di quella, ch'ei chiamava invincibile caparbietà della Beatrice. Cotesta sua riprovevolissima pertinacia, egli aggiungeva, formare ostacolo alla chiusura del processo, e per conseguenza trattenere la grazia pontificia, pronta a sgorgare, dopo cotesto atto di umiltà, come le acque scaturirono sotto la verga del santo patriarca Moisè: in quanto a lui sentirsi profondamente travagliato per le torture alle quali, così imponendo i penosi uffici del suo ministero, aveva dovuto sottoporre la Beatrice; ormai non gli reggere più l'animo di proseguire; venissero eglino in suo aiuto per vincere cotesta mente ostinata; di ciò supplicarli da verace amico, e da cristiano; qui il giudice non entrare per nulla: di questo andassero persuasi, non poter eglino desiderare patrono od avvocato che più fervorosamente di lui zelasse la causa loro presso Sua Santità.

Egli è così lieve ingannare chi si assicura! Riesce tanto gradito prestar fede a quello che si desidera! Così hanno i miseri sete di conforto, che i fratelli Cènci e la Lucrezia Petroni si abbandonarono affatto in balìa del Luciani; il quale, diventato mansueto, promise loro di non farli separare più mai. Vinti e ingannati, adesso se li spingeva davanti a se; e gli si leggeva manifesta nel volto la superbia del trionfo.

Le vittorie della forza sono elleno forse più, o meno gloriose di quelle della frode? Lo ignoro: io so unicamente, che forza e frode nacquero gemelle nel ventre della ingiustizia.

Quando i due Cènci e la Petroni videro l'osceno strazio del corpo divino di Beatrice, e lei in sembianza di morta, proruppero in pianto irrefrenato, e le s'inginocchiarono dintorno baciandole i lembi delle vesti... non osavano toccarle le mani lacerate, per tema d'inasprirle i suoi dolori. In verità di Dio stringeva il cuore contemplare quei derelitti, con le mani legate di catene, starsene genuflessi intorno alla donzella svenuta tutti in se raccolti, come se l'adorassero. - Così per lunga ora rimasero: quando Beatrice rinvenne, e prima assai di riaprire gli occhi alla luce, la percosse un rammarichìo doloroso, onde tenne per certo di trovarsi colà dove si purga lo spirito umano, e diventa degno di salire al cielo; la quale opinione tanto più le venne confermata quando, riacquistato il senso della vista, si vide circondata dalle care sì, ma squallide sembianze dei suoi diletti. Del quale successo quasi contenta, esclamò:

- Finalmente, la Dio grazia, sono morta!

E richiuse gli occhi; ma gli spasimi, che cocentissimi la travagliavano, l'avvertirono pur troppo com'ella fosse sempre in vita. Riaperse pertanto le palpebre, e continuò:

- Ahi! diletti miei, come mai vi riveggo?...

- E noi come rivediamo te, Beatrice? Ahimè! ahimè!

Decorso alquanto tempo don Giacomo si levò in piedi, e lo strepito delle catene intorno al suo corpo servì di esordio lugubre al seguente discorso, ch'egli indirizzò alla sorella:

- Sorella io ti scongiuro, per la croce di nostro Signore Gesù Cristo, a non lasciarti fare così acerbo governo del corpo tuo. Confessa quello che pretendono sia confessato da noi, come noi abbiamo fatto. Che vuoi tu? Per uscirne men peggio io non ci vedo altra strada; e, dove non conducesse ad altro, questa pretesa confessione ci salverà da martirii che non hanno fine, e con un colpo solo ci troncherà i tormenti e la vita. La ira di Dio passeggia sopra le nostre teste: ora, pretenderemo noi contrastare a quella forza terribile che svelle le montagne dai loro fondamenti di granito, e le travolge come fa il turbine i granelli di arena? Io mi piego alla sferza con la quale Dio mi flagella, dinanzi a cui io mi atterro; e poichè contendere non giova, io m'ingegno mitigare la rigidezza del destino con le supplicazioni, la umiltà, e le lacrime.

Bernardino, fra i singhiozzi levando supplici le fanciullesche mani, anch'ei raccomandava:

- Confessa per amor mio, Beatrice; di quello che questi signori vogliono, chè poi il signor Presidente mi ha promesso farmi sciogliere, e mandarci tutti per le vendemmie a casa.

Donna Lucrezia rassegnata, a sua posta:

- Confidate, figliuola mia, le diceva, nella Madonna santissima dei dolori: ella sola è la consolatrice degli afflitti: e, a fin di conto, chi di noi può vantarsi incolpevole? Tutti siamo peccatori...

Beatrice a mano a mano che la supplicavano volgeva intorno gli sguardi minacciosi. Per sorte i suoi occhi vennero ad incontrarsi con quelli del Luciani, i quali divampavano maligna esultanza: ormai sicuro dell'esito del suo nuovo trovato, egli covava la nidiata dei traditi. Ira, ribrezzo, e soprattutto senso di schifo infinito agitarono l'anima di Beatrice, che per poco non proruppe: pur si contenne; non tanto però, che queste diverse passioni non le si vedessero passare per la fronte, a modo di nuvole traverso il disco della luna. Rimessasi alquanto, con voce fioca, che poi a mano a mano le crebbe, risoluta e gagliarda prese ad ammonire i suoi congiunti in questa sentenza:

- Che voi non abbiate potuto resistere alla prova dei tormenti, e piegato ai primi assalti del dolore, e fatto gettito della vostra bella fama, come il soldato che abbandona l'arme nel giorno della battaglia, io intesi con infinita amarezza dell'anima mia, ma mi astengo di rimproverarvelo: solo mi sia concesso di volgermi severamente a voi, e domandarvi perchè mi vogliate a parte della vostra ignominia? Due avevano ad essere le Regine dei dolori; una in cielo, l'altra in terra; ed io sono la terrena. Non m'invidiate, vi supplico, la mia corona di martirio, dacchè io la porti più gloriosamente che se fosse di gemme. Udite! Uomini santi ci hanno ammaestrato come noi non possiamo volgere le mani micidiali contro il nostro corpo, ch'è fattura di Dio, senza fare violenza alla volontà suprema: ora, quanto a noi ha da parere maggiore peccato distruggere con lingua dolosa la propria fama, ch'è la vita dell'anima? E notate, che la vita sembra più cosa nostra, e però maggiormente facultati a disfarcene, che non della fama; imperciocchè questa dobbiamo tramandare ai nostri posteri, e per noi hassi ad aborrire ch'eglino del proprio nome si vergognino, o vadano soggetti a sentirsi dire: «il vostro casato rammenta un parricidio». Dunque Roma pagana vide una femmina di partito durare costantissima inaudite torture, e tagliatasi co' denti la lingua gittarla in faccia ai carnefici suoi, piuttostochè scuoprire la congiura alla quale ella aveva partecipato pur troppo159; ed io, vergine ingenua e cristiana, non saprò sopportare i tormenti in testimonio della mia innocenza? Sciagurati! E che cosa pensate con la vostra viltà conseguire? Forse di conservare la vita? E non vi accorgete, che la si vuole spenta non già come fine, bensì come via che conduca a intento oggimai stabilito; nè a questo pare che basti la nostra morte, la quale oggimai ci avrebbero dato, ma si richieda eziandio la nostra infamia? Ora, avete voi pensato qual possa essere questo intento? Chi può lanciare lo sguardo nello abisso d'iniquità della Corte Romana, e distinguere tutti i disegni tenebrosi che si ravvolgono là dentro? Nella passata agonia una larva traversò la caligine della mia mente, e migliaia di voci le urlavano dietro: avarizia! avarizia! La lupa sacerdotale già assaggiava la sostanza dei Cènci; e trovatala buona, l'è cresciuta la fame, col pasto. Molti sono i lupi dal muso affilato venutici da Firenze, che mostrando le costole ignude, e battendo denti a denti, gridano preda. E il papa gliela darà... I vostri delitti sono i vostri averi. Voi perderete tutto; la buona rinomanza, che nessuno al mondo poteva torvi, avete da per voi stessi gittato via; la vita e la roba, cose caduche ed in potestà altrui, vi torranno quando loro torni in acconcio. Io, che tronchino i giorni miei, e con la vita mi rapiscano gli averi, non contrasto; e volendolo ancora, io non potrei; ma sta nel mio pugno la fama, e questa non perverranno a rapirmi. Mentre tutto ciò che è della terra mi abbandona, ecco che più mi si stringono allo spirito due angioli; quello che ha in custodia la innocenza, e l'altro che premia la costanza; e grande, miei diletti, sento il potere loro sopra di me, avvegnadio non solo mi sostengano in mezzo all'atrocità dei miei tormenti, ma mi promettano appena saranno compiti (il che avverrà presto) di levarmi genuflessa sopra le santissime loro ale verso il mio Creatore. Addio terra, limo stemperato di pianto e di sangue; addio turbine di atomi maligni, che vi dite uomini; addio tempo, sfregio brevissimo sopra la faccia della Eternità: un raggio delle gioie celesti mi piove sopra la persona, e toglie via ogni pena... come mi sento felice! come sono contenta! quanto è soave morire!...

E declinato il capo sopra la sinistra spalla, cadde di nuovo in deliquio.

Il sole, fino a quel momento coperto dalla nuvole, trasparì in cotesto luogo oscuro da una finestra alta, e recinse con un raggio languido di autunno il seno e la faccia di Beatrice. I capelli di oro sparsi per le spalle della vergine, e rimasti irti, ed attorti sopra la fronte di lei riflettendo quel raggio, la fasciarono intorno con la corona luminosa, colla quale, costumiamo effigiare la immagine della Madre di Cristo. Mirabile caso, che dimostrò come la Provvidenza incominciasse a ricovrare la travagliata sotto il manto della sua misericordia; imperciocchè nei capelli, adoperati in quel giorno per arnese dell'osceno martirio. incominciasse ad apparire un segno manifesto della prossima sua divinità.

Nessuno osava alitare. Il Luciani era sbigottito, avendo sorpreso l'anima sua in atto d'intenerirsi: l'abborrita pietà aveva per un momento cagionato in lui lo effetto, che i Gentili attribuivano al teschio di Medusa. Il Ribaldella, con la faccia appoggiata sul banco, osservava costretto una specie di tregua di Dio co' suoi perfidi pensieri; e il notaro Grifo, per non parere, temperava macchinalmente le penne, ma non vedeva lo spacco, però che una lacrima gli dondolasse in su e in giù per la curva del ciglio diritto: povera lacrima! stava in cotesto luogo come uno esiliato in Siberia.

Beatrice con un sospiro tornò agli uffici della vita, e i suoi congiunti genuflessi innanzi a lei, presi da ammirazione, da pietà | e da vergogna, esclamarono fra i singulti:

- Beatrice... angiolo santo... deh! tu ci addita il sentiero che noi dobbiamo tenere per imitarti.

Beatrice si sollevò alcun poco, e, raccogliendo quanto potè di spiriti vitali, con voce forte favellò:

- Sappiate morire!

- E noi morremo - gridò don Giacomo levandosi in piedi, e scuotendo su la faccia ai giudici le catene ond'era avvinto - noi siamo innocenti; noi nè uccidemmo, nè facemmo uccidere il padre nostro: noi confessammo per forza di tormenti, ed in virtù delle insidie tese alla nostra inesperienza.

E Giacomo Cènci poteva anch'egli chiamarsi immune della strage paterna, imperciocchè il padre non fosse rimasto ucciso nel ratto di Tagliacozzo: però la sua coscienza non era pura davanti agli uomini, molto meno davanti a Dio. Ed invero se il disegno, o, come dicono i curiali, il conato più o meno prossimo alla esecuzione meritamente presso i primi si distingue dal delitto consumato, appo Dio il pensiero criminoso scoccato appena torna indietro di ripicchio a uccidere l'anima, che non lo seppe trattenere.

Beatrice, quasi trasmutata in faccia per la interna compiacenza, con suono di voce dolce quanto la benedizione di una madre concluse:

- Il martirio sopra la terra si chiama gloria nei cieli: perseverate, e morite come i fedeli di Cristo morivano.

Il Luciani aveva agevolmente cacciato da se lo insolito solletico di umanità come una tentazione del demonio: anzi vedendo che nel nuovo esperimento, invece di aver fatto profitto, com'egli divisava, era venuto a scapitare non poco, riarse nella sua bile, che proruppe come acqua bollente fuori del vaso, fragorosa e spumante.

- Con voi rifaremo i conti fra breve, e staremo a vedere se, come a parole, vi manterrete prodi co' fatti. Intanto voi, mastro Alessandro, fate di applicare alla esaminata la tortura del taxillo.

- Ho io bene inteso, illustrissimo signor Presidente? Avete voi detto il taxillo?

- Il taxillo; per lo appunto il taxillo: ecci ella qualche nuovità in proposito?

- Nulla, rispose mastro Alessandro stringendosi nelle spalle: solo dubitava non avere bene inteso.

E andò pel taxillo.

Era il taxillo una specie di bietta di pino tagliata a modo di cuneo, larga su la base, acuta in cima, e intrisa di trementina e di pece. Il diavolo trasformato in frate domenicano inventò nella Spagna cosifatto tomento. Spagna! Infelice paese dove la superstizione arò così profondo, che, anche in questo moto maraviglioso dei popoli verso il meglio, gl'Iberi paiono condannati a rappresentare per lungo tempo nel mondo la parte di centauro, mezzo uomo e mezzo bestia. Dove sono i figli dei prodi cavalieri, sempre pronti a ferire torneamenti e a correre giostre in onore delle dame? Dove i discendenti degli avventurosi baroni, capaci di sostenere mirabili imprese per uno sguardo della bellezza? Dove i baccellieri di armi, che co' loro gesti famosi somministrarono gentile argomento ai versi di romanzo? Tacciono le armi e gli armori; gli Arabi scomparvero sotto le rovine dello Alambra; a questi splendidi cavalieri subentrarono gl'incappucciati fratelli del Santo Uffizio, nobil gente avvilita, la quale non trovò mezzo altro più acconcio per ripararsi dai tormenti, che farsi anch'ella tormentatrice. - Mirate, di grazia, dove l'hanno(160) condotta i frati: nuda fino alla cintura, coperta dello scapulare la faccia, con fruste armate di triboli, stupida e insana si flagella sotto le gelosie delle donne amate, nè si rimane finchè dalle aperte vene non le sia sgorgata larga pozza di sangue, e di sangue non abbia resa nera la sferza, che poi manderà loro in dono come pegno di costanza, che nè per tempo verrà mai meno, nè per morte. Così, mercè il governo fratesco, avvinsero insieme le Grazie e le Furie, nodo mostruoso da disgradarne quello dell'antico Mezenzio161. Lo stesso piacere cospersero di fiele, e, contrariando Dio e la natura, lo mutarono in tormento. Tanto possono i frati imbestiare gli uomini!

I fratelli Cènci e la Lucrezia Petroni come smemorati consideravano quanto sotto i loro occhi avveniva, (mastro Alessandro recatasi in mano la zeppa, scalzò il piede sinistro di Beatrice. Breve, asciutto e rotondo, egli pareva opera di greco scalpello condotta in alabastro rosato) e vedono... figgere la parte aguzza della bietta tra la carne e l'unghia del pollice: bene a quella vista sentivano raccapriccio, ma qual nuovo modo di tormentare fosse cotesto non bene comprendevano. In breve saranno chiariti. Mastro Alessandro trasse fuori una candeletta, e andò ad accenderla alla lampada, che ardeva davanti la immagine santa del Redentore; poi l'accostò alla scheggia, che subito crepitando prese fuoco. La fiamma si accosta rapidissima alle dita, e qualche lingua si avventa precorrendo come famelica di carne e di sangue.

Atrocissimi dolori erano quelli, che da cotesto tormento derivavano; la natura umana non li poteva sopportare, molto più se consideriamo lo strazio fatto della misera fanciulla: e nondimeno Beatrice, temendo da un lato sconfortare i suoi, e dall'altro desiderando porgere loro lo esempio del come si abbia a soffrire, domava lo spasimo, e taceva. Taceva, sì; e insinuata la carne delle guance fra i denti stringeva forte fino ad empirsi la bocca di sangue, per divertire un'ambascia con l'altra; ma non era potestà in lei d'impedire il brivido intenso che le increspava la pelle di tutto il corpo, nè lo stralunamento delle pupille smarrite, nè il mugolìo convulso, che travaglia la creatura nella suprema ora del transito: - nè fu in lei, misera! trattenere uno strido disperatamente acuto, nel quale parve le si troncasse la vita, e declinare la testa giù come morta.

Anche il coniglio, ridotto alla disperazione, dimentica la naturale timidità, e morde. Don Giacomo non dubita accostarsi con la faccia al tassillo imfiammato, ed azzannatolo tenta staccarlo; ma da una scottatura in fuori non ne trasse altro vantaggio. Allora tutti, non esclusa la mansuetissima donna Lucrezia, spinti da moto spontaneo si avventarono contro il Luciani, mostrando volerlo stracciare co' denti: ululavano come bestie feroci, nè il sembiante loro pareva più umano. Quantunque cotesta fosse ira impotente, però che tenessero le mani incatenate, e per accostarsi ai giudici gl'impedisse il cancello, pure il Luciani n'ebbe spavento, e, balzato in piedi, si fece schermo con la spalliera della seggiola; dietro la quale, come da un baluardo, latrava:

- Badate ch'ei non si sciolgano! Teneteli! Sono dei Cènci, e sbranano.

Mastro Alessandro, giovandosi della confusione, aveva fatto cadere il tassillo dal piede della Beatrice.

I Cènci furono di leggieri trattenuti. Il Luciani sentendosi agitato, e considerando i colleghi suoi e gli altri assistenti, comecchè per causa diversa, più atterriti di lui, riputò conveniente sospendere per allora cotesti strazii, che in quei tempi avevano nome di esami.

- Riportateli, ritto sopra il limitare della porta abbaiava il Luciani, riportateli in carcere uno diviso dall'altro. Ministrate loro il vitto di penitenza... bevano il supplizio... mangino la disperazione.

Beatrice priva di sentimento fu riportata sopra una sedia in prigione, e quivi affidata alle cure del medico; il quale fra un sospiro e l'altro osservava, come la detenuta non potesse essere esposta con efficacia al tormento se non prima decorsa una settimana intera; ed avrebbe, egli aggiungeva, in caso di bisogno avuto anche il coraggio di sostenerlo a voce, e in iscritto, perchè innanzi tutto doveva aversi riguardo alla umanità!...

Non vi par egli, che fosse caritatevole davvero questo dabbene dottore fisico?


 

 

 




154 Papa Clemente VIII quando mosse da Roma per prendere possesso del ducato di Ferrara rapito a don Cesare, che n'era stato istituito erede da Alfonso d'Este II, nel visitare la chiesa di Loreto vi lasciò in voto due gambe di argento massiccio, forse per grazia non ricevuta della guarigione della podagra; e dico per grazia non ricevuta, dacchè alla podagra gli si aggiunse anche la chiragra, la quale nel giubbileo bandito nel 1600 non gli permetteva di lavare i piedi ai poveri pellegrini che con una mano sola, e questo non sempre, contentandosi allora di asciugargli soltanto; mentre cotesta opera santa era esercitata da quei fiori di virtù dei cardinali Aldobrandino, a Passero. Giovanni Stringa, Vita di Clemente VIII. - Cav. Artaud de Moutor, Vita del medesimo pontefice.



155 «Quidnam vulto hoc esse? Alii autem irridentes dicebant: quia pleni sunt musto». Acta Apost. c. II. nn. 12-13.



156 Quando prima arrise al prete la speranza di tenere suggetti popoli, e re, sostenne la volontà regia nulla se non era santificata da lui. Scaduto dalla superba pretensione si adattò alla parte di vassallo, vestì livrea; e, contentandosi di tosare di seconda mano, bestemmiò voler sovrano formare legge pel suddito anche quando contraffacesse al precetto di Dio. Antonio Perez, consultato il reverendo padre Diego de Chaves se potesse, senza peccato, obbedire all'ordine di Filippo II, che gli comandava assassinare d'Escovedo segretario di don Giovanni di Austria, ne riceve la seguente risposta: «El principe seglar, che tiene poder sobra la vita de sus subditos, y vasallos como se la puede quitar por justa causa, y por juyzio formado, la puede hazer sui el..... tela de los juyzios es nada por sus leyes, en las quales el mismo puede dispensar. No tiene culpa el vasallo que por su mandado matasse a otro, que tambien fuere vasallo suyo, por que se ha da pensar que lo manda con justa causa, como el derecho presume que la ay en todas les acciones del principe supremo». Relaciones di Antonio Perez, cit. dal Mignet, Antoine Perez et Philippe II, p. 66.



157 Intorno ai fatti del conte Peppoli e del duca Farnese, vedi Gregorio Leti, Vita di Sisto V, lib. III. p. 2.



158 Nei governi dispotici, il duca di Wintoun diceva che lo ufficio del giudice, come presso i barbari, si confonde con quello di carnefice. Veruno animale è più schifo del giudice amovibile allo stipendio del tiranno. Ricorda la storia che nei tempi antichi, durante il processo di Giovanna di Arco, al cimiterio di Santo Ovanio il carnefice assisteva al giudizio per esser pronto a giustiziarla appena condannata! Michelet, Storia di Francia, t. V. p. 163 - Ai tempi nostri un re mandava ai suoi giudici sentenziassero presto, perchè prima di sera voleva fucilare i prevenuti.



159 Nerone si ricordò di Epirari ritenuta per indizio di Procolo; e non credendo che una donna reggesse al dolore, ne comandò ogni strazio. Nè verga, nè fuoco, nè ira di martorianti del non sapere sgarare una femmina, la fecero confessare, e vinse il primo dì. Portata il seguente ai tormenti medesimi in seggiola, non potendosi reggere sopra le membra lacerate, si trasse di seno una fascia, l'annodò alla seggiola, incalappiò la gola stringendola col peso del proprio corpo, e trassene quel poco fiato che vi era. Esempio memorevole, che una femmina libertina volesse salvare gli strani, e quasi non conosciuti, quando gl'ingenui uomini senatori, e cavalieri scuoprivano i più cari senza tormenti. Tacito, Annali, t. XV. volgarizzamento del Davanzati.

(



160) Nel testo originale: Mirate, di grazia, dove l'anno. [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



161 Il supplizio di Mezenzio era legare un vivo con un morto, e così

lasciarlo finchè ancora egli si morisse.

«Quid memorem infanda caedes; quid facta tyranni

Effera? Di capiti ipsius, generique reservent.

Mortua quin etiam jungebat corpora vivis

Componens manibus manus, atque oribus ora

(Tormenti genus) et sanie, taboque fluentis

Complexu in misera longa sic morte necabat».

Virgilius, Aeneid. t. VIII, v. 482.






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