Madre ladre benigna,
misericordiosa
natura
Dàcci
la rigogliosa uva che nella tua vigna
matura
Largìscici
con l’eterno tuo amore
i doni del tuo materno
cuore.
Dà, dà al mendíco
le raffiche dei tuoi venti
per riscaldarlo
Dà al fanciullo le zanne dei tuoi
lupi
per trastullarlo
Màcera
il corpo e spegni
Gli occhi al vegliardo ma avvíncilo, coi tortigli
della speranza al suo buio, che bràncoli
in esso, cercandovi i figli.
Strazia ai vivi la carne, che ùrlino, e l’urlo suoni alto,
Strappa il figlio alla madre,
l’amante all’amante, le fronde
al ramo, le radici profonde
al ceppo; fa strame
dei fiori: buon concio per la tua
terra fa, dolce
natura, del sangue e dell’ossa
delle tue creature, chè possa
rinnovellarsi il messaggio
tuo d’amore, ogni maggio.
E sèmina, sèmina, natura
per la mietitura futura.
Pianta i tuoi tralci per la
vendemmia
chè la
tua ancella, la sorte,
possa offrirti bei grappoli
di morte.
Ma falcia dunque, spàzzala, cancèllala
dalla faccia del mondo
questa gregge; ma stèrminala
tutta,
Madre, ch’io non oda più oltre
questo belare! Non vedi
che più la schiacci, e più ai
piedi
ti striscia? Tu che sola
una cosa ci hai dato
di grande, augusto, l’ansia di
combatterti
e superarti, e, superata, imprimere
sopra ogni cosa il segno, il
marchio, l’orma
nostri! Tu che ci hai detto: Va!
che hai l’arma
per la tua guerra! Distruggi
chè
puoi creare! Sfa, lacera
la mia tela, e ritèssila
con le tue mani! Ma i trepidi
pigmei tremano e orrore hanno, se
un lembo
si strappa; e brulicando come nere
formìcole
s’affannano, e dai glomi
viscidi del pensiero il filo tràggono
che la rammendi, e chiuda, e
chiuda, e màscheri
lo squarcio, anche se marcio
sia l’ordito, e la trama a falda
a falda
se ne cada, purchè
dallo spiraglio
non entri il cielo, un cielo
troppo azzurro
e luminoso, e un sole che li abbàcini
troppo, che troppo fólgori i lor occhi
miopi... Rammendate, rammendate,
fratelli del bruco laborioso,
Fatevi anzi un bòzzolo, e state
ben dentro, che nulla turbi il
riposo.
Anch’io, anch’io vedo i prati
fiorire, e il grano maturare
anch’io tra lo stormire delle
fronde qualche volta ascolto
il vento sibilare, e vedo a onde
a onde susseguirsi lungo i secoli
le stirpi.
Ma penso — Povera natura
quanta terra, ed acqua, e sole,
per un pane!
Quanto inane
impeto di vento per il volo
breve di un tuo solo
seme! quante vane
prove, per far nascere dal grembo
di una stirpe un uomo!
Basta, basta, natura.
Troppo il tuo gioco è durato.
Basta con questa immensa paura
di leggi e di fato.
Vili ignudi feroci
ci hai fatti; l’orto e la vigna
del mondo infestati hai di
gramigna.
Strappammo, arammo, bagnammo
le zolle di sangue e di sudore.
Piantammo nell’arido cuore
il seme di un a te ignoto
amore.
Vinceremo. Sorgerà, sui calvi
graniti, la città futura.
Leverà dalle sue dure fondamenta al
cielo gli alti
pinnàcoli
sicura.
Ruoterà, spazzato dalle arboree
muffe e dalle gromme
delle viti inutili il pianeta.
Brillerà negli occhi
all’irrequieta
specie una più pura
luce.
Guarderanno i figli dei remoti
figli al luminoso
segno.
Stringeranno in pugno il più
glorioso
scettro d’un più vasto
regno.
Con gli aratri e il ferro delle
spade
tra le cose morte
senza ormai più sorte
dormiranno il loro sonno,
finalmente
muti
ultimi nostalgici esegéti di
perduti
secoli, i poeti.
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