Giunto in vetta all’umana orbita, il
Savio
guardava il mondo. Vedea lento il fiume
scorrer del mondo, e si chiedeva:
Quale
prora più fende? da qual seme nasce
più vasta fronda? che dono
è più grande, nella mano dell’uomo?
Ed ecco, nell’acceso pensiero,
balenare un lampo; e una spada
nuda, lucida e viva
come le cose che
hanno anima, sorgergli
dinanzi agli
occhi. «Brandiscimi
Uomo! Traccia il
tuo solco nel mondo
col sangue! Pàvido
è il gregge; di vili
e schiavi; di rosso
riga le schiene agli ignavi.
No, no, l’uomo
è ribelle,
spada; non si
doma col ferro.
Prono sotto il
giogo si scrolla
e morde; lógora le mascelle
e schiuma; ma
il freno consuma.
No, no, spada;
altro aratro
cerco, bifolco
d’anime, per
il mio solco.
E apparve allora, tutta scintillante
d’ori e di gemme, una virginea
forma
di schiette membra. Tìnnule ai bei polsi
splendéan
le armille: le ondeggiavan rose
nei bei capelli. Mai più soave
voce
giunse a cuor d’uomo: «Sono colei
che giunge
più profondo; la sola che sa il
fondo
delle anime. Punge
s’io voglio, la mia voce come
l’aspide;
s’io voglio è dolce più
dell’odoroso
miele. Altre volte ho l’urlo
fragoroso
più del rombo del tuono; altre il
sussurro
lieve come lo scorrere tra l’erbe
del rigagnolo; il canto
altre ancora, più limpido e
armonioso
che l’usignuolo.
No, no, va,
Parola.
Taci. Non
basti tu sola.
Stolto è
l’uomo. T’accoglie
e plaude; poi
ad altro si volge.
Va, Parola,
altro vento
cerco,
nocchiero
d’anime, per
il mio veliero.
Ed allora una terza cosa, un’altra
cosa, un’umile cosa che non
s’orna
d’alcun nome di mito e non ha
scanno
in Elicona;
quella ch’è vergogna
chiamare a nome, e ognuno adora,
prono
nel fango; la vendemmia d’ogni
vigna
umana, la più ricca tra le messi
d’ogni semina; il frutto
d’ogni fiore, che chiude il seme,
il sacro
seme d’ogni indomani, disse:
«Guardami
Son io
che cerchi.»
Ed egli volse
gli occhi
al suono; e
gli battè forte nel petto
il cuore; chè quella era la più grande
fra tutte
l’armi; il vomere dal taglio
più acuto, il
più puntuto èrpice, l’arco
più teso...
Era la voce
della moneta piccola, che rotola
fra crepa e crepa, e lorda anche
di polvere
si raccoglie, e si terge, e la
soppesano
nel cavo della mano fatta adunca
gli umili e i grandi, chè vi ha il suo premio ognuno
di pane o d’onta; la rotonda
briciola
del convito dei popoli, la goccia
piccola del gran fiume che dà
vita
alla ruota del mondo; era la voce
della potenza fatta cosa, chiusa
nella forma immutabile dell’oro
o nella levità d’una volubile
ala di foglio, effusa
per infiniti rivoli, o raccolta
negli alti nembi; come l’acqua, a
volta
a volta, tenue vapore, nuvola,
pioggia, onda, lago, fiume,
torrente, oceano,
rugiada; era la voce
del denaro! del denaro! ditela forte
la parola! Non è vergogna! chè, se la mola
del mulino non dà farina, ma trita
ghiaia
e sassi, o, ignara, nel suo rotare
stritola e frantuma ossa e carne e
dal vaglio
escono lacrime e sangue,
non sopra la crosciante acqua, che
splende
d’iridi, l’onta, ma su voi, mugnaia
gregge, discende!
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