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Giorgio Cicogna
Canti per i nostri giorni

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  • INNO AL DENARO
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INNO AL DENARO

 

 

Giunto in vetta all’umana orbita, il Savio

guardava il mondo. Vedea lento il fiume

scorrer del mondo, e si chiedeva: Quale

prora più fende? da qual seme nasce

più vasta fronda? che dono

è più grande, nella mano dell’uomo?

 

 

Ed ecco, nell’acceso pensiero,

balenare un lampo; e una spada

nuda, lucida e viva

come le cose che hanno anima, sorgergli

dinanzi agli occhi. «Brandiscimi

Uomo! Traccia il tuo solco nel mondo

col sangue! Pàvido è il gregge; di vili

e schiavi; di rosso

riga le schiene agli ignavi.

 

 

No, no, l’uomo è ribelle,

spada; non si doma col ferro.

Prono sotto il giogo si scrolla

e morde; lógora le mascelle

e schiuma; ma il freno consuma.

No, no, spada; altro aratro

cerco, bifolco

d’anime, per il mio solco.

 

 

E apparve allora, tutta scintillante

d’ori e di gemme, una virginea forma

di schiette membra. Tìnnule ai bei polsi

splendéan le armille: le ondeggiavan rose

nei bei capelli. Mai più soave voce

giunse a cuor d’uomo: «Sono colei che giunge

più profondo; la sola che sa il fondo

delle anime. Punge

s’io voglio, la mia voce come l’aspide;

s’io voglio è dolce più dell’odoroso

miele. Altre volte ho l’urlo fragoroso

più del rombo del tuono; altre il sussurro

lieve come lo scorrere tra l’erbe

del rigagnolo; il canto

altre ancora, più limpido e armonioso

che l’usignuolo.

 

 

No, no, va, Parola.

Taci. Non basti tu sola.

Stolto è l’uomo. T’accoglie

e plaude; poi ad altro si volge.

Va, Parola, altro vento

cerco, nocchiero

d’anime, per il mio veliero.

 

 

Ed allora una terza cosa, un’altra

cosa, un’umile cosa che non s’orna

d’alcun nome di mito e non ha scanno

in Elicona; quella ch’è vergogna

chiamare a nome, e ognuno adora, prono

nel fango; la vendemmia d’ogni vigna

umana, la più ricca tra le messi

d’ogni semina; il frutto

d’ogni fiore, che chiude il seme, il sacro

seme d’ogni indomani, disse: «Guardami

Son io che cerchi

 

 

Ed egli volse gli occhi

al suono; e gli battè forte nel petto

il cuore; chè quella era la più grande

fra tutte l’armi; il vomere dal taglio

più acuto, il più puntuto èrpice, l’arco

più teso...

 

 

Era la voce

della moneta piccola, che rotola

fra crepa e crepa, e lorda anche di polvere

si raccoglie, e si terge, e la soppesano

nel cavo della mano fatta adunca

gli umili e i grandi, chè vi ha il suo premio ognuno

di pane o d’onta; la rotonda briciola

del convito dei popoli, la goccia

piccola del gran fiume che vita

alla ruota del mondo; era la voce

della potenza fatta cosa, chiusa

nella forma immutabile dell’oro

o nella levità d’una volubile

ala di foglio, effusa

per infiniti rivoli, o raccolta

negli alti nembi; come l’acqua, a volta

a volta, tenue vapore, nuvola,

pioggia, onda, lago, fiume, torrente, oceano,

rugiada; era la voce

del denaro! del denaro! ditela forte

la parola! Non è vergogna! chè, se la mola

del mulino non farina, ma trita ghiaia

e sassi, o, ignara, nel suo rotare

stritola e frantuma ossa e carne e dal vaglio

escono lacrime e sangue,

non sopra la crosciante acqua, che splende

d’iridi, l’onta, ma su voi, mugnaia

gregge, discende!




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