Il muro alto e nudo è senza orli
nè
sporti; scheletrico e schietto
nel cielo. Fa aggetto
in alto, solo fastigio, una
gronda. Volano rondini
saettando. Le
cicale cantano. Un rombo
oscuro, di là dal
muro, confuso
e ottuso, pieno
di fremiti, riempie
lo spazio. Sono
giunto al tempio. La porta
è questa: nudo
segmento
di ferro
che cigola, mentr’io lo disserro.
Alto strepito, ritmico battere,
chiaro frangersi di voci metalliche
m’urta e assorda; tremano al coro
sonoro l’aria e la vitrea
volta; le macchine grandinano
suono; stridono, clangono
ronzano. Teorie di ruote
galoppano
frusciando; ai giunti s’intoppano
delle aeree striscie
che scendono
e salgono; scendono
e salgono, come cose vive,
allacciandosi
di ruota in ruota. (Là in alto
d’uno in altro, d’uno in altro
si rinvíano
gli assi cèleri
cinghie e cinghie, cinghie e cinghie;
pigri anelli scorrono
obliqui, recando messaggi
d’olio da mensola a mensola). Ma che
vertigine
sui trasti innumeri
che si sussèguono, tra gli astri
lucidi
dei raggi! Brulicano gli sporti
in tralice
di guizzi labili di luci, e
turbinano
sotto le aeree campate vortici
di suoni. È l’ora
piena. L’officina lavora.
Girano schidionate di contorti
bronzi sui lenti spiedi
dei torni. Ad ogni giro
stride il metallo; o latra alto;
e la punta
d’acciaio, che lo sbrana
ad oncia ad oncia, fuma sotto il flusso
dell’olio. Frullan
rapidi
i tornietti
leggeri, e hanno gran chiacchiere
con gli uténsili. Lùccicano snelli
gli steli, alla carezza
degli arnesi sottili, e quasi sìbilano
nei mandrini veloci. Aeree liane
d’oro e d’argento sembrano
fiorire
sotto i ferri, e in volute agili
attorcersi
come viticci, sotto la profluvie
lene, tra fulva e bionda
che scendendo le inonda.
Silenziosa sorella
del gàrrulo
tornio, la lenta
fresa ricama e consuma.
L’acme dei duri spigoli senza impeto
rode nel vivo; e fa splendente il
concavo
scavo, d’intersecate orme. Ma il
trapano
che ne ha uguale il costume, ha
più fiera indole.
Frugano le nervose
eliche di sue punte
quasi rabbiose, i visceri
dei masselli compatti; e l’olio incotto
vaporando ribolle.
Dal profondo
del foro, vien
su lenta
e s’accumula all’orlo, un’impalpabile
velma;
quasi terriccio umido; e il colmo
tratto tratto
si spiana. In ritmo alterno
passa e ripassa, sonnolento
il rabotto.
Va lento
e torna lesto; e pare ari,
impassibile
nel fragore. Ma come acute
stridono
le gaie mole! Sprizzano ventagli
di fuoco; e se la mano preme, e
il cerchio
d’oro si chiude e come una
raggiante
orbita splende, ogni altro
strido, il più aspro
e ingrato è vinto. E muta appena
tacciono
par l’officina. Ora da una
lontana
sala giunge il percuotere
sordo, e l’ansito cupo
dei magli, sordi nel tonfo.
Trema il suolo a ogni colpo.
Pregna è l’aria del rombo.
Battono anche cesoie
ritmiche le ferree mascelle.
Paiono zanne che scattino.
Netto mordono e staccano.
Odo il tintinno dei pezzi
che cadono. E varco
un’ultima piccola porta
di ferro. Ecco il sancta
sanctorum.
Non sillabe o brevi
parole; qui han
frasi ampie e larghe
le macchine. Scattano rabide
le molle, e conflagrano
tra secchi urti e schianti
metallici, denti assi bracci
di leve. Sapienti
presiedono al gioco i profili
gibbuti di
camme pazienti.
Questo è pane per la mia fame. Nulla
qui è vano o troppo; e nulla
poco. Il gioco
dei moti ha un suo palese ritmo;
e il ritmo
leggi; e ogni legge scivola pel
clivo
più breve. E più che l’una
o l’altra delle macchine, amo
questo
che le governa, umano ordine;
anch’esso
lucido e schietto come uno
splendente
ordegno.
Un infinito
regno attende, al
di là dei chiusi diedri
di queste mura,
questo ordine; terre
acque, cielo;
oltre le inanimate
cose, ogni essere
vivo.
Anche un’anima
sola
è un impero; un
immenso impero senza
Cesare; e più che
ogni arco
mitico è duro
l’arco del pensiero
nostro, al
saettar lungo. Ov’è il polso
per esso? Io
penso al giorno
che sarà in ogni umano braccio; e
il fuoco
dei falàrici
incendierà le torri
di quest’arce
di enigmi. E nella vena
del mio, dove più affiora,
guardo l’impeto che la fa piena;
ancora
gagliardo. È l’ora?
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