Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Giorgio Cicogna
Canti per i nostri giorni

IntraText CT - Lettura del testo

  • INNO ALL’OFFICINA
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

INNO ALL’OFFICINA

 

 

Il muro alto e nudo è senza orli

sporti; scheletrico e schietto

nel cielo. Fa aggetto

in alto, solo fastigio, una gronda. Volano rondini

saettando. Le cicale cantano. Un rombo

oscuro, di dal muro, confuso

e ottuso, pieno di fremiti, riempie

lo spazio. Sono giunto al tempio. La porta

è questa: nudo segmento

di ferro

che cigola, mentr’io lo disserro.

Alto strepito, ritmico battere, chiaro frangersi di voci metalliche

m’urta e assorda; tremano al coro

sonoro l’aria e la vitrea

volta; le macchine grandinano

suono; stridono, clangono

ronzano. Teorie di ruote galoppano

frusciando; ai giunti s’intoppano

delle aeree striscie che scendono

e salgono; scendono

e salgono, come cose vive, allacciandosi

di ruota in ruota. ( in alto

d’uno in altro, d’uno in altro

si rinvíano gli assi cèleri

cinghie e cinghie, cinghie e cinghie; pigri anelli scorrono

obliqui, recando messaggi

d’olio da mensola a mensola). Ma che vertigine

sui trasti innumeri

che si sussèguono, tra gli astri lucidi

dei raggi! Brulicano gli sporti in tralice

di guizzi labili di luci, e turbinano

sotto le aeree campate vortici

di suoni. È l’ora

piena. L’officina lavora.

Girano schidionate di contorti

bronzi sui lenti spiedi

dei torni. Ad ogni giro

stride il metallo; o latra alto; e la punta

d’acciaio, che lo sbrana

ad oncia ad oncia, fuma sotto il flusso

dell’olio. Frullan rapidi

i tornietti leggeri, e hanno gran chiacchiere

con gli uténsili. Lùccicano snelli

gli steli, alla carezza

degli arnesi sottili, e quasi sìbilano

nei mandrini veloci. Aeree liane

d’oro e d’argento sembrano fiorire

sotto i ferri, e in volute agili attorcersi

come viticci, sotto la profluvie

lene, tra fulva e bionda

che scendendo le inonda.

Silenziosa sorella

del gàrrulo tornio, la lenta

fresa ricama e consuma.

L’acme dei duri spigoli senza impeto

rode nel vivo; e fa splendente il concavo

scavo, d’intersecate orme. Ma il trapano

che ne ha uguale il costume, ha più fiera indole.

Frugano le nervose

eliche di sue punte

quasi rabbiose, i visceri

dei masselli compatti; e l’olio incotto

vaporando ribolle. Dal profondo

del foro, vien su lenta

e s’accumula all’orlo, un’impalpabile

velma; quasi terriccio umido; e il colmo

tratto tratto si spiana. In ritmo alterno

passa e ripassa, sonnolento

il rabotto. Va lento

e torna lesto; e pare ari, impassibile

nel fragore. Ma come acute stridono

le gaie mole! Sprizzano ventagli

di fuoco; e se la mano preme, e il cerchio

d’oro si chiude e come una raggiante

orbita splende, ogni altro strido, il più aspro

e ingrato è vinto. E muta appena tacciono

par l’officina. Ora da una lontana

sala giunge il percuotere

sordo, e l’ansito cupo

dei magli, sordi nel tonfo.

Trema il suolo a ogni colpo.

Pregna è l’aria del rombo.

Battono anche cesoie

ritmiche le ferree mascelle.

Paiono zanne che scattino.

Netto mordono e staccano.

Odo il tintinno dei pezzi

che cadono. E varco

un’ultima piccola porta

di ferro. Ecco il sancta

sanctorum. Non sillabe o brevi

parole; qui han frasi ampie e larghe

le macchine. Scattano rabide

le molle, e conflagrano

tra secchi urti e schianti

metallici, denti assi bracci

di leve. Sapienti

presiedono al gioco i profili

gibbuti di camme pazienti.

 

 

Questo è pane per la mia fame. Nulla

qui è vano o troppo; e nulla poco. Il gioco

dei moti ha un suo palese ritmo; e il ritmo

leggi; e ogni legge scivola pel clivo

più breve. E più che l’una

o l’altra delle macchine, amo questo

che le governa, umano ordine; anch’esso

lucido e schietto come uno splendente

ordegno. Un infinito

regno attende, al di dei chiusi diedri

di queste mura, questo ordine; terre

acque, cielo; oltre le inanimate

cose, ogni essere vivo.

Anche un’anima sola

è un impero; un immenso impero senza

Cesare; e più che ogni arco

mitico è duro l’arco del pensiero

nostro, al saettar lungo. Ov’è il polso

per esso? Io penso al giorno

che sarà in ogni umano braccio; e il fuoco

dei falàrici incendierà le torri

di quest’arce di enigmi. E nella vena

del mio, dove più affiora,

guardo l’impeto che la fa piena; ancora

gagliardo. È l’ora?




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License