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Giorgio Cicogna Canti per i nostri giorni IntraText CT - Lettura del testo |
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PAURA
Ascendono. Un soffio che sfaldi la neve, là in alto, una zolla che frani, la ruga d’un esile appiglio che ceda, una fuga di sassi, un crepaccio che s’apra, e giù tra le rupi, nel rombo d’una valanga, tra il croscio della petraia, di tonfo in tonfo, giù piomberanno. Ma sàlgono su, ancora. Ecco un orlo di crepa; àrcuan gli òmeri, puntano i ginocchi... Su! in alto! ove al sole scintillano i ghiacci! Su, al vertice! Pura là è l’aria; e là è l’anima. Il cuore ti ignora, o paura.
Questi anche, un cuore, e sangue hanno, questi esuli dal cielo ampio, l’aperto cielo che si respira, e beve, libero, pieno, con avidità più grande quanto più si arde; il cielo che si spande su tutti, e accoglie l’ultimo fiato, e l’ultimo sguardo. Per sè un’umile bolla, greve di miasmi, hanno, nel concavo d’una cella d’acciaio. Pesa, immensa, sopra e intorno la fredda acqua; e nell’acqua la morte; e nel silenzio, lenti, quasi a tentoni, essi la cercano e la stringon da presso, cauti; e sanno che il frullare di un’elica, lo sciacquo d’un rigúrgito, il fremito leggero d’una pinna, il fruscìo lieve d’un brivido d’aria potrà destarla, e farle stendere le adunche dita; e il cuore non trema. Anche la loro anima è pura di te, paura.
Non hanno, non hanno paura no, gli uomini. Saldi stanno su rocce e su tolde. Affrontano il gelo e l’arsura gli abissi e le folgori; domani, su, agli astri, più in alto del cielo, saetteranno all’assalto. Titani, titani son gli uomini e arcangeli. Monte su monte accatasteranno. Le porte del cielo scardineranno. Fuoco arde nel loro sangue. Un furore d’incendio hanno, in cuore.
Ma quando la prova chieda altro che stringer mascella a mascella e al muro d’ire, armi, avverso impeto di sorte, cozzando abbattersi; quando non la Morte minacci, con la sua gran falce, ma il buio d’un’ombra, anche se non oro nè alloro sia del gioco il premio, ma il dono più grande di levarsi a volo con ali della propria carne (e pur breve sia il frullo), di guardare intorno con occhi della propria fronte (e pur chiuso volga l’orizzonte), e nel rombo confuso — che vien su dal gorgo — la vena scoprire, di un sottile ritmo, o la piena d’un’onda d’armonia suprema, allora, ecco, fiamme si spengono incendi si smorzano orgogli si frangono baldanze s’atterrano agnelli e leoni in un unico branco l’un l’altro si serrano a fianco galoppano ansando s’incalzano sperduti, smarriti, spauriti atterriti...
Paura, paura, paura, di uscire dal solco tracciato, Paura di spingere il vòmere ove altri non ha ancora arato, Paura, nel fiume del mondo, di aggiungere, goccia o torrente, la propria sorgente, Paura di dirlo, pensarlo: Son io, son io solo che giudica! Qua il mondo, ch’io l’oda; qua gli uomini, qua le opere; queste le leggi; qui il termine fra il noto e l’ignoto; qui il vertice attinto; mondo, opere, leggi, ora parlate; il silenzio si popoli di voci; io, nel vortice sonoro, io, nel coro del Tutto, io, lo colga, se il senso mi basti a tanto, l’immenso messaggio del canto. |
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