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Giorgio Cicogna
Canti per i nostri giorni

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  • L’ASCETA
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L’ASCETA

 

 

Solo, nella notte, l’eremita

pregava.

Fioca, nella cella, una lucerna

tremava.

Le stelle, su in alto, roteando

passavano; preci, uomini,

terra, assorte nel loro giro ampio, ignoravano.

 

 

Vecchio era l’eremita, il più vecchio

d’anni degli eremiti.

Sofferto aveva affanni

infiniti; e si batteva col pugno.

 

Chiedeva misericordia, egli, immune

da colpa, per il male del mondo.

Pregava, nel silenzio profondo,

per i peccatori, egli, fuori

del gorgo. Non domandava al destino

che riposo, per sè, del lungo

cammino.

 

 

All’alba, consunta, la lampada

guizzava morente.

Già all’ultime stille, guizzava, finita, la vita

del vecchio eremita.

Accolta era stata la preghiera,

chiusa la lunghissima sera.

Passava. Cercò con lo sguardo

già greve, di là dal muro, un raggio ultimo

di luce da portar seco nell’ombra

eterna. Gli si spense in sussurro

l’ultima prece. Poi tacque

per sempre e steso al suolo pesantemente giacque.

 

 

Sùbito intorno al morto si levò e corse un fremito. Di tomba in tomba

rapido si rifrangeva l’eco del nuovo annunzio, e accorrevano

l’ombre. Fu gran concilio d’anime nella romita

cella. Sordo al pispiglio dell’irrequieta

folla, l’anacoreta

dormiva. E un gran silenzio

si fece intorno, e una voce

diede al nuovo venuto

nel paese dei morti il suo saluto.

 

 

— Benvenuto, uomo! Che porti

teco, giungendo al nostro regno?

Fama hai di savio. Sei degno

di vivere fra noi morti? —

 

 

Chi parlava dell’al di là? Divelta

dal nodo della carne, balzò l’anima

intenta; e i folti spiriti

guardò sorpresa. Fatue luci, tremule

fiamme, vampe azzurrine... I morti! I morti!

Ella era giunta! Era nel regno, il vero,

l’eterno, il tanto atteso,

l’unico! Il corpo

era lì, steso, enorme e vuoto; immoto

come la pietra; ed ella, senza peso,

lieve come aria, libera,

sciolta per sempre, fluttuava, aliava,

ebbra, immemore alfine, alfine assunta

alla pace infinita, alla serena

pace, di là dal cieco

carcere, oltre la pena

lunga di quella lunga aspra sua vita...

 

 

— Provvida è la sorte, che arresta

la spola quando il filo è finito.

Come, uomo, nell’ordito

del tempo la tua trama fu intesta?

Certo hai lasciato un tuo dono

o savio! Quale solco hai tracciato?

Vedi i nascituri? Hanno piene

le mani di sementi. Hai tu arato? —

 

 

— O anime, vissuto ho nel silenzio,

nella preghiera,

oltre le procellose

nubi, fiso alla sfera

del bene... Anime anime, ove andate?

Ove fuggite? Chi m’ascolta? Chi ode

solo un momento...? Chi m’aiuta? Ombre! Anime!... —

 

 

Solo rimase l’eremita

solo, morto anche alla morte.

Greve di un’inutile vita

percosse avea le funebri porte.

Vedeva, alla gran soglia, atterrito,

giungere a una ad una

dalla terra, altre anime

di morti; e a ognuna

l’opera fornita risplendeva come aureola

intorno; e, fioco

albore o rutilare di splendore,

tutte n’eran cinte; tutti, un giorno

solo, un’ora, anche i più umili, i negletti

dal destino, gli ultimi, avean dato

vivi, un segno

di lor vita: arato

un campo o alzato un tempio; intriso

un pane o vinto un popolo; sorriso

a un figlio, o sciolto il volo

a un canto. Ei solo avea fallito il viaggio.

Ei solo era ombra, intera, buia, senza raggio.

Fosco in cielo tra nuvole bigie baluginava il mattino,

l’anima sola e triste riprese il suo corpo e il cammino.




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