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Giorgio Cicogna Canti per i nostri giorni IntraText CT - Lettura del testo |
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ALLA NATURA
Madre ladre benigna, misericordiosa natura Dàcci la rigogliosa uva che nella tua vigna matura Largìscici con l’eterno tuo amore i doni del tuo materno cuore.
Dà, dà al mendíco le raffiche dei tuoi venti per riscaldarlo Dà al fanciullo le zanne dei tuoi lupi per trastullarlo Màcera il corpo e spegni Gli occhi al vegliardo ma avvíncilo, coi tortigli della speranza al suo buio, che bràncoli in esso, cercandovi i figli. Strazia ai vivi la carne, che ùrlino, e l’urlo suoni alto, Strappa il figlio alla madre, l’amante all’amante, le fronde al ramo, le radici profonde al ceppo; fa strame dei fiori: buon concio per la tua terra fa, dolce natura, del sangue e dell’ossa delle tue creature, chè possa rinnovellarsi il messaggio tuo d’amore, ogni maggio. E sèmina, sèmina, natura per la mietitura futura. Pianta i tuoi tralci per la vendemmia chè la tua ancella, la sorte, possa offrirti bei grappoli di morte.
Ma falcia dunque, spàzzala, cancèllala dalla faccia del mondo questa gregge; ma stèrminala tutta, Madre, ch’io non oda più oltre questo belare! Non vedi che più la schiacci, e più ai piedi ti striscia? Tu che sola una cosa ci hai dato di grande, augusto, l’ansia di combatterti e superarti, e, superata, imprimere sopra ogni cosa il segno, il marchio, l’orma nostri! Tu che ci hai detto: Va! che hai l’arma per la tua guerra! Distruggi chè puoi creare! Sfa, lacera la mia tela, e ritèssila con le tue mani! Ma i trepidi pigmei tremano e orrore hanno, se un lembo si strappa; e brulicando come nere formìcole s’affannano, e dai glomi viscidi del pensiero il filo tràggono che la rammendi, e chiuda, e chiuda, e màscheri lo squarcio, anche se marcio sia l’ordito, e la trama a falda a falda se ne cada, purchè dallo spiraglio non entri il cielo, un cielo troppo azzurro e luminoso, e un sole che li abbàcini troppo, che troppo fólgori i lor occhi miopi... Rammendate, rammendate, fratelli del bruco laborioso, Fatevi anzi un bòzzolo, e state ben dentro, che nulla turbi il riposo. Anch’io, anch’io vedo i prati fiorire, e il grano maturare anch’io tra lo stormire delle fronde qualche volta ascolto il vento sibilare, e vedo a onde a onde susseguirsi lungo i secoli le stirpi. Ma penso — Povera natura quanta terra, ed acqua, e sole, per un pane! Quanto inane impeto di vento per il volo breve di un tuo solo seme! quante vane prove, per far nascere dal grembo di una stirpe un uomo!
Basta, basta, natura. Troppo il tuo gioco è durato. Basta con questa immensa paura di leggi e di fato. Vili ignudi feroci ci hai fatti; l’orto e la vigna del mondo infestati hai di gramigna. Strappammo, arammo, bagnammo le zolle di sangue e di sudore. Piantammo nell’arido cuore il seme di un a te ignoto amore.
Vinceremo. Sorgerà, sui calvi graniti, la città futura. Leverà dalle sue dure fondamenta al cielo gli alti pinnàcoli sicura. Ruoterà, spazzato dalle arboree muffe e dalle gromme delle viti inutili il pianeta. Brillerà negli occhi all’irrequieta specie una più pura luce. Guarderanno i figli dei remoti figli al luminoso segno. Stringeranno in pugno il più glorioso scettro d’un più vasto regno. Con gli aratri e il ferro delle spade tra le cose morte senza ormai più sorte dormiranno il loro sonno, finalmente muti ultimi nostalgici esegéti di perduti secoli, i poeti. |
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