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Giorgio Cicogna
Canti per i nostri giorni

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  • LO STELO D’ORO
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LO STELO D’ORO

 

 

«Piccolo! Tutto piccolo, angusto,

chiuso, senza respiro, ricinto

di mura, come una prigione od un chiostro!

Piccolo, tutto ciò che amiamo, che è nostro,

per cui ci affatichiamo, spargiamo

lagrime, sorrisi, sangue...» Sospira

l’Aedo che è meco, e mi guarda

ma non risponde. «Ecco l’ombra»

mi dice, «di un tetto

di pènduli tralci. Non giova

qui forse alcun bévere? Il Sole

tanto arde! Sui pioppi

friniscono in coro

le tèttici, amiche

d’Anacreonte. Tutte oro

son già le messi. Odi il murmure

della dolce aura? Un idilio

è questa pace. Qui colse

fior da fior Laura? O un suo canto

sciolse Virgilio?»

 

 

«Fermo è Virgilio nel sepolcro,

Poeta, e gli uomini in cammino.

Rotola la terra fra le stelle del suo destino; questa,

provvida o funesta, è la sua sorte; e carme

d’uomo non l’arresta.»

 

 

Rise l’aedo, e girò lento gli occhi

sulla campagna. Case, uomini, solchi,

mietitrici, bifolchi,

fervere di sonanti opere, il canto

delle cicale, e accanto

al suo cuore placato, la tempesta

del mio, giovane. Tale

fu sempre il mondo; e parve

sempre diverso; ed è divinamente

uguale.

Questo ei pensava, e a me

disse: «O chela, anima

generosa, che annuncio rechi? Illumina

questa tua face? Se si spegne, lascia

cenere? O hai teco

l’ellèboro che ridà pace? Guarda

che di troppo gran vampa un folle sogno

chela, non ti arda.»

 

 

Non posso, non voglio sognare

Maestro. Odio il sogno e ogni ebbrezza.

Inseguo una splendente certezza

— ascolta! — che non potrò mai toccare.

 

 

Lassù, lassù, disperatamente

lontano

dove Sole e Terra un dì saranno,

dove forse, aedo, se occhio umano

corse, altro non colse

che il tremar remoto

di qualche astro ignoto,

ai fratelli miei che nasceranno

là tra Vega e il Cigno,

quando il Sole non sarà più che una goccia di sanguigno

magma, sale dal mio cuore un inumano

amore.

Ai fratelli fra mille anni o mille

secoli, venturi,

cui le luci che oggi abbagliano i nostri occhi non saranno

più che tizzi oscuri,

che vivranno, aedo, di una vita

che è già mia, ch’io vedo,

la mia pace, e il fuoco per la face che oggi invano

accendo, chiedo.

Salirà, ascendendo su di cielo

in cielo, della gran fiorita

forse un tenue stelo;

Forse un raggio, fiévole, rigando

l’infinita

via di una scia d’oro,

porterà, su, un tremulo bagliore

del mio cuore al loro; forse

pèndulo a quel raggio, già nel vuoto

immenso, fluttuando, nuoto.




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