I.
Vulgo fu sempre vulgo -
era 'l capestro
E 'l pane e 'l boja, e
sono e saran sempre
Il suo trastullo. -
Foscolo. Sermone.
Un mattino del novembre
dell'anno 1374, la città di Milano erasi levata quasi a rumore, e gli abitanti
accorrevano a torme di tre, quattro, fuori delle case accalcandosi per le
contrade che mettono alla piazza della Vetra. Dappertutto era un correre, un affannarsi,
un domandare, un parlar sommesso che dava indizio di qualche grave avvenimento.
Chi avesse osservato da vicino siffatto trambusto non avrebbe detto certamente
esser quello un giorno di festa o di pubblica allegrezza; anzi avrebbe cavato
cattivo augurio dall'aspetto umile e rassegnato de' cittadini e meglio ancora
dai loro visi pallidi e sparuti. Lacere le vesti e sudicie, gli occhi infossati
nell'orbita e tristissimi, le guance informate dalla pelle livida e gialliccia,
il respiro affannoso additavano generale la miseria e la fame. Gli uomini
parlavan piano tra loro e sfogavansi in amare lamentazioni, le donne alzavano
gli occhi al cielo e piangevano: dei fanciulli, soliti sempre a far baldoria e
schiamazzare in tali occasioni, pochi o nessuno se ne vedeva. Tutti poi avevano
in fronte l'indignazione e più che l'indignazione il terrore, e guardavansi
sospettosi da certe facce sinistre, che aggirantisi qua e là per mezzo alla
moltitudine, scostavansi da loro come dalla peste.
E invero chi avesse
veduto in quel torno la città di Milano avrebbe chiesto dov'era la splendidezza
delle case, la chiassosa allegria dei cittadini, l'eccellenza delle arti, la
frequenza di una plebe numerosa e felice. Fin dal principiare di giugno erasi
appiccato di nuovo il contagio in Lombardia più fiero e più crudele che nel
passato; tanto che quasi due terzi degli abitanti n'erano periti. Al qual
numero se si aggiungano i morti nella peste dell'anno antecedente, di leggeri
si farà ragione dello squallore e della miseria di questa città. I
provvedimenti dati dal duca Bernabò Visconti, anzichè scemare, accrebbero di
gran lunga la desolazione di Milano, perocchè nell'anno avanti, appena si ebbe
indizio di contagio, fuggissi tostamente nelle sue castella presso Marignano, e
nella città comandò che fossero diroccate le case di tutti coloro che eran
morti di contagio, senza riguardo per gli ammalati o pei sani che vi potevano
essere. Poscia, quando la peste si riprodusse più forte, diè ordine che tutti
quelli i quali fossero tocchi dal male, dovessero portarsi fuori della città o
del paese ove abitavano, e andassero nei boschi, nelle campagne a morirvi; nè
alcuno, che avesse assistito un contagioso potesse ritornare a casa prima di
dieci dì dalla morte di esso. I preti e i parrochi di ciascun luogo erano
obbligati di visitare gl'infermi e di additare agl'Inquisitori, trascelti a tal
uopo, ogni ammalato sotto pena del fuoco: del pari i beni di ciascuno erano
dati al fisco fino a nuovo avviso. Le quali misure, giudichi ognuno quanto fossero
atte a riparare a cosiffatta disgrazia, e come non dovevano immiserire questo
bel paese, già gramo per una prepotente dominazione. Basti il dire che il
Petrarca, ospite caro a Milano, il quale aveva stabilito di terminarvi i suoi
dì tra le carezze della figlia e del genero, partissi al primo infierire del
morbo nel 1361, nè più vi fece ritorno.
E quasichè non bastasse
la morìa a spopolare e a far misera Milano, cominciò il cielo a imperversare in
sull'aprirsi della primavera, e a cader una pioggia non mai interrotta fin
presso al finire di luglio; talchè le biade ne rimasero al tutto guaste e
distrutte. Da ciò nacque un'orribile carestia che condusse una moltitudine di
persone a morir di stento, e attirò in Milano gran parte de' contadini e dei
montanari, i quali cacciati dalla fame versavansi a frotte nella città già
ridotta allo stremo. Nè le limosine di Galeazzo Visconte, che furono molte e
generose, nè quelle di Bernabò, valsero a trarre il paese da sì profondo
abbattimento; e nel mese di novembre, in cui ebbero luogo gli avvenimenti che
imprendiamo a narrare, quantunque il contagio fosse cessato d'un tratto, e la
carestia avesse dato luogo alquanto, profonde erano tuttavia le tracce della
desolazione e della morte.
Però, la curiosità, che
fu primo retaggio dell'umana schiatta, e poscia principale attributo della
plebe e delle femmine, aveva anche adesso fatto mostra del suo potere; ond'è
che in onta alla peste ed alla carestia, in onta al dolore che struggeva
l'animo de' cittadini superstiti, la maggior parte di essi traeva alla piazza
della Vetra per essere testimone di uno spettacolo miserando, d'una sventura
più grande dei due flagelli mandati dal Signore. Bernabò Visconti, non appena
tornato dal suo castello, ove passava il tempo cacciando, aveva pubblicato un
editto, col quale minacciava fierissime pene a chi avesse ucciso cinghiali od
altre salvaggine, ch'egli amava sopra modo. Nè pago di ciò, comprese nel
medesimo editto tutti coloro che fossero accusati di averne ucciso alcuno nel
periodo di quattro anni addietro; e si diè con ogni cura a cercare i rei. È
facile immaginarsi che non mancarono le accuse, in parte vere, in parte anche
false, perchè in ogni tempo e in quello specialmente, non mancarono tristi
personaggi ed odiosi, che stimarono innalzar sè sulla caduta degli altri. Il
perchè più di cento, tra plebei e cittadini, furono convinti, Dio sa come, di
codesto delitto di lesa salvaggina, e condannati alla perdita degli occhi,
poscia ad essere appiccati. La qual crudeltà, non nuova in quei tempi di
barbarie e di dispotismo, ma terribile in un'epoca di tanta pubblica calamità,
doveva certamente accrescere e l'abbattimento de' poveri milanesi e l'odio a
così strana oppressione. E tuttavia per quanto universale fosse lo squallore e
unanimi le maledizioni per sì feroce atto, la moltitudine, fedele al suo
istinto, non poteva privarsi di uno spettacolo favorito, e col fiele nell'animo
trascinavasi al luogo del supplizio. La prima condanna era già stata eseguita
il giorno innanzi nel palazzo dello stesso duca: ora rimaneva soltanto
l'appiccatura, per la quale erasi eretto un gran palco capace non che di cento,
ma di mille persone, se alcuno vi fosse stato, cui avesse fatto gola un ballo
all'aria.
Sull'angolo della
contrada degli Spadari, dove sbocca dritto negli Armorari, un uomo di forse
quarant'anni, robusto della persona e franco, sebbene macilento in viso,
preparavasi ad uscire della bottega in compagnia di un suo amico, e detto ai
giovani che badassero al di dentro e non si lasciassero vincere dalla curiosità,
cacciossi il berretto in capo, e in due passi fu in istrada. Quand'ecco al
disopra della bottega, proprio rasente l'insegna, che era un elmo irrugginito
posto a cavalcione d'un'alabarda, aprissi una finestra ed una voce malinconica
ma pur gentile esclamò:
- Perchè vuoi tu uscire,
Stefano? Ti pare una bella cosa l'andar a vedere quattro manigoldi metter il
capestro al collo a tante brave persone, che alla fine sono nostro prossimo?
Via, rimani in casa. E voi, signor Franciscolo, che avete più giudizio di lui,
persuadatelo a restare. -
- Eh, mia buona signora
Agnese, non sono già io che ha indotto questo capo sventato di Stefano ad
uscire: è lui che vuol andarvi a tutti i modi, ed io per non lasciarlo solo ho
dovuto acconciarmi ad andarne con lui. Ma state cheta che non ci accadranno
disgrazie. -
- Disgrazie, tu dici? -
rispose l'armajuolo. Che diamine ci può accadere di peggio? La scomunica del
papa, la peste, la carestia, la corda, l'impiccatura, e che so io. Sai tu,
Franciscolo, che vi sia qualche cosa d'altro da mettere appresso? -
- Sì; quattro carezze
dei cani del Duca - gli disse Franciscolo all'orecchio - e se non tieni la
lingua fra i denti.... -
- Maladetti i cani! -
mormorò Stefano, poi guardando all'insù - moglie mia - disse - bada che non accada
nulla a quella sguajata bestiaccia, se no mal per noi, mettile innanzi da far
colazione, e fa in guisa che non fugga di casa. -
- Vi ubbidirò - rispose
la moglie - siete proprio ostinato di voler andare a quella bella festa. In
nome del Signore, guardatevi almanco dal parlar troppo, abbiate l'occhio a
quelle facce sinistre di que' canattieri, di quegli sgherri, di quegli
stipendiati del duca, che mettono la terzana solamente a guardarli. Io non so
che pro' vogliate cavarne di questo vostro andare. -
- Che pro' ne caverò?
Dove non fosse altro, imparerò come impicchino i manigoldi del duca, e se il
caso volesse che un qualche dì...... Ma via, via, non i sgomentarti Agnese, io
porto il berretto fuori degli occhi. In ogni modo è bene l'andarvi, perchè la presenza
di facce da cristiani come noi, conforta alquanto negli estremi momenti.... Ah!
non mi ricordava che quei poveretti sono senz'occhi! Uf. Andiamo Franciscolo,
addio Agnese. -
Ciò detto, pigliò pel
braccio Franciscolo, che parve seguirlo a rilento, ed entrambi scantonarono per
avviarsi al luogo dell'esecuzione. Quantunque la morìa fosse di fresco cessata,
e non al tutto deposto lo spavento; quantunque un pò per la fame, un pò per la
peste la popolazione di Milano fosse ridotta a meno di un terzo, tuttavolta le
case non erano tanto deserte che non potessero uscirne un diecimila persone. E
tante, e forse più se ne trovavano sulla piazza della Vetra, allorchè vi
giunsero per la via del Carrobbio Stefano e Franciscolo. L'esecuzione era già
incominciata, alla spiccia e senza molti preliminari, talchè una dozzina di
quegl'infelici erano belli e spacciati. La moltitudine stava commossa e
timorosa, e in tanto subbuglio di gente era un silenzio tale che udivansi
chiaro le preghiere e le ultime parole dei condannati. Tra questi erano giovani
e vecchi e sacerdoti e cittadini d'ogni classe, alcuni venerandi per canizie,
altri stimati per probità e per valore; desiderio grandissimo della patria in
quell'epoca di desolazione. La maggior parte non reggevasi sulle gambe e
minacciava ad ogni istante di uscir di vita; e questi erano spacciati per i
primi. Gli altri più giovani, più baldi e pieni ancora di vigorìa, sebbene
doloranti per la perdita degli occhi, favellavano, volgevansi al popolo
gridando, invocavano il Signore, e morivano pregando tempi migliori allo
sfortunato loro paese. Invano gli sgherri or colla voce, or con punzoni o
minacce tentavano di contenerli, di farli tacere: le bravate non valevano a
nulla per essi, che avevano a due passi la morte, ond'è che stimarono più
acconcio lasciarli dire. Tra gli altri erano due giovani, belli della persona e
del volto, per quanto l'un e l'altro avessero sfigurato e malconcio: stavano
sul davanti del palco, e tenevansi abbracciati in un amplesso così tenace, che
pareva non se ne potessero più sciogliere. Dal muoversi convulso delle labbra e
dallo stringersi così da vicino scorgevasi un immenso struggimento di non
potersi mirare in viso, e un amore, una tenerezza, un abbandono non facile a
trovarsi tra uomo e uomo. Quei due giovani erano fratelli, pellicciai di
mestiere, tra i più facoltosi cittadini di Milano, citati siccome modello di
fraterna amicizia. Il più giovine, debole e malaticcio, fu tra i primi ad esser
colto dal contagio, e il maggiore portatolo fuor di città, com'era prescritto,
non scostossi un istante da lui finchè non l'ebbe veduto salvo. Allora, siccome
lo sfinimento prodotto dal morbo richiedeva cibi più succulenti e la carestia
aveva fatto ascendere i mangiari a un prezzo enorme, vendette, come meglio potè,
le sue pelliccie e perfino le masserizie per cavarne danaro; ma presto ridotto
al verde, usciva il mattino intanto che il fratello dormiva, e con certi
lacciuoli ingegnavasi di pigliar qualche lepre spinta dalla fame fin sotto le
mura della città. Così erano campati entrambi fino al finir dell'ottobre, nel
qual tempo pubblicatosi l'editto, vennero presi e condannati, l'uno per aver
cacciato, l'altro per aver mangiato quelle lepri. Ora il fratello maggiore, che
accusava sè della morte di entrambi, addoloravasi oltremodo e veniva sostenendo
e confortando quell'altro colle più soavi parole, e quando furono al punto di
dover essere divisi, pregò che gli concedessero di accompagnarlo fino a piè del
patibolo. Dove giunti, furono tanti e sì teneri gli abbracci, e le parole così
tristamente affettuose, che la moltitudine commossa non potè più contenersi e
si diè altamente a singhiozzare. Forse in altri tempi quello spettacolo avrebbe
destato una subita indignazione e levato il popolo a sommossa; ma allora gli animi
infiacchiti dalle calamità e dall'oppressione non potevano dare altro che
lagrime. Tanto più che gli alabardieri di Bernabò circondavano a doppie file la
piazza, e non sarebbero stati gran fatto malcontenti di picchiar coll'asta
nelle reni a quella sozza canaglia, com'essi chiamavano il popolo, e di
mandarne porzione a far compagnia ai ranocchi nella fossa che gira quasi tutto
all'intorno.
Stefano e Franciscolo
non poterono più oltre patire la vista di quello spettacolo, e si volsero per
uscire di là fieramente combattuti da mille diversi sentimenti. Quando furono
davanti alla porticina della chiesa di S. Lorenzo, dove la moltitudine
diradavasi e lasciava luogo a camminare alquanto più liberamente, Stefano,
tratto un grosso sospiro, disse piano al compagno:
- Poveretti, come fanno
compassione. E a vedere quei ribaldacci di stipendiati del duca come gavazzano
e si tengono a festa. Maladetti! S'io rimaneva più là, avrei commesso qualche
sproposito: mi pareva d'aver i piedi sulle brage, e qui nelle mani poi mi
sentiva certi pizzicori... Che la Madonna e san Lorenzo mi ajutino. -
- Amen, rispose
una voce grave a poca lontananza da lui.
Il povero Stefano, che
tenevasi solo, e credeva che nessuno l'avesse udito, si volse pieno di
sospetto, e vide due frati minori che si erano ritratti dalla folla e stavano
rincantucciati presso alla porta della chiesa col viso quasi interamente
coperto dalla cocolla. Sopra di costoro ei cacciò due occhi a guisa di due
punti d'interrogazione; ma poichè il frugare e l'osservarli minutamente non
servì a nulla, si trasse Franciscolo in disparte e accennò di andarsene. Allora
uno dei frati scopertosi il viso gli mosse un passo all'incontro, e lo chiamò
per nome.
- Che? Siete voi padre
Teodoro, e voi padre Andrea? - disse Stefano riconoscendoli entrambi - che il
cielo vi benedica, m'avete fatto una paura da non dirsi. E perchè appiattarvi
qui come lepri in un cespuglio... Ah! mio Dio, l'ho detta grossa. Basta, fu
così per un paragone, e spero non mi vorrete tradire; se no, povero il mio collo.
-
- Noi siamo venuti a
mirare l'opera della distruzione, a veder compiuto l'olocausto, a raccogliere i
gemiti di tutte queste vittime e offrirli al trono del Signore: chi sa che il
giorno dell'espiazione non sia presto maturo. -
- Oh: se tutti questi poltroni
che stan qui a piangere come donnicciuole avessero un cuore come il mio, que'
manigoldi non riderebbero lungo tempo alle nostre spalle; e lo stesso duca ci
farebbe di berretto se ci scontrasse per via, invece di farci inginocchiare
come i pagani davanti all'idolo di Belo. -
- Lo scampo sta nelle
mani del Signore - ripigliò il padre Teodoro - e non in quello degli uomini.
Che potreste fare voi altri, branco di pecore, deboli e sommesse, che la voce del
padrone manda quando vuole al macello? Al Signore tocca salvarvi, ed egli solo
lo può. Finora ci ha dato le prove dell'ira sua castigandoci con ogni sorta di
flagelli: ma egli è misericordioso e alla fine si placherà. Che, credete che
possa esser lieta una città ov'egli non abita? una città ricetto di
scomunicati, senza guida, senza pastore, nella quale lo stesso arcivescovo
rifiuta di porre il piede? -
- Sopra di ciò ha
ragione l'arcivescovo - entrò a dire Franciscolo - egli avrà davanti agli occhi
quel che fece il duca con Roberto Visconti suo antecessore, quando gli diè del
poltrone e del ribaldaccio, e se lo fe' inginochiare a' piedi. -
- Roberto Visconti fu
uomo e debole, rispose il padre Teodoro, ma il vero ministro di Dio non teme le
minacce dei superbi, anzi le sfida e le soggioga. Forse verrà tempo, nè è molto
lungi, in cui Bernabò udrà dirsi la verità in nome del Dio che castiga, e può
darsi ch'ei torni a miglior vita. Notte e dì noi preghiamo il Signore che ci
accordi questa grazia, e se l'otterremo sarà il più gran miracolo che possa
avvenire in questi tempi di depravazione. Però non disperiamo del cielo: tra
breve vedrete gli effetti della grazia divina.
Appena aveva terminato
di parlare, che le campane delle chiese circonvicine, che prima sonavano a
tocchi lenti e misurati, come suolsi per gli agonizzanti, rumoreggiarono alla
distesa e annunziarono compiuta la tremenda cerimonia. La moltitudine più
sparuta e più avvilita di prima si volse ed avviossi lentamente mormorando alla
volta delle case, con uno sgomento, una stretta al cuore, come se il dì
appresso dovesse toccare a ciascuno la medesima sorte. I due frati si tirarono
di nuovo la cocolla sul viso, e toccata la mano a Stefano e salutato il
compagno, s'internarono per una stradicciuola che metteva dritto al loro
convento che era degli Umiliati in Mirasole, posto non molto lungi di là. E i
due nostri conoscenti senza muover parola tornarono un passo dopo l'altro
sull'angolo degli Spadari, nella bottega d'ond'erano usciti.
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