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Carlo Tenca
La cà dei cani

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  • II
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II

 

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Ma per quanto a riamarlo la pregasse

Con lettere e con umili parole

Non si sa che la Dama gli badasse

Perchè rossi d'intorno non ne vuole.

In questo poi che ci volete fare?

Ha ognun la sua maniera di pensare.

Guadagnoli. Il color di moda.

 

Prima di tirar innanzi il nostro racconto è d'uopo che preghiamo i lettori, quando non si siano nojati coll'esordio, a intrattenersi alquanto per fare la conoscenza coi personaggi da noi posti in iscena, e specialmente coll'armajuolo che ne dev'essere l'eroe. Stefano Baggi era un uomo in sui trent'otto anni, più tarchiato che alto, al quale però il portamento robusto e sicuro dava un buon pollice di più: due occhi nerissimi di sotto a folte sopracciglia e una spessa barba accrescevano vigoria alla sua persona già maschia e bella. Fin da ragazzo egli era stato avvezzo a trattare spade e pugnali e manopole ed elmi; perchè i suoi da tempo immemorabile esercitavano il mestiero d'armajuolo allora uno dei più onorati e profittevoli. Valentissimo nell'arte sua, nella quale era salito in grido anche in lontani paesi, era del pari destro e forte in ogni esercizio della persona, e ne aveva date frequenti prove nelle giostre e ne' giuochi popolari che ebbero luogo in Milano fino dai tempi di Luchino e di Giovanni Visconti, quand'egli era ancor giovinetto. Nella sua officina vedevansi appese ad una parete i premii da lui riportati nelle diverse lotte, e soprattutto una corona che il buon armajuolo accennava con singolare compiacimento, siccome quella che gli aveva valsa per moglie la più bella fanciulla di Milano. La sua Cecilia, che ad onta de' suoi ventinove anni e di una cotal pienezza di forme quasi matronale era detta dal popolo la bella Cilia, era sette anni addietro il più fresco bottoncino di rosa che fosse sbucciato all'ombra della contrada dei Mercanti d'Oro. Quand'ella stavasi nella sua bottega da pellicciajo, e ciò accadeva sovente a cagione dei viaggi che il fratello era costretto fare, i garzoni dei dintorni vi si trattenevano dinanzi e gettavano occhiate malinconiche e sospiravano a guisa di mantici, e studiavano ogni modo di darle nell'occhio. Ma ella stava salda al suo banco e mostrava di non badare a quelle dimostrazioni, anzi in cuor suo le dispregiava, perchè aveva spesso udito dire dalla madre sua che la gioventù è fatta come le mosche, le quali accorrono dappertutto dove trovano il dolce, ma presto anche volano via. La qual morale della buona femmina, chi vuole, può trovar modo d'applicarla anche a questi , in cui tanto mutarono le cose, specialmente in fatto di amore. Tra gli altri amatori era pure il nostro armajuolo, il quale non passava mai davanti alla bottega di Cecilia senza trarre un sospiro ed esclamare - Per dio! darei la più bella manopola d'acciajo della mia fabbrica, e con essa la mia mano sinistra per ottenere un'occhiata benigna da questa furfantella di Cecilia. - Ma l'affare non eralieve. Non già che la fanciulla vedesse di mal occhio l'armajuolo, che anzi lo sceverava da tutta quella turba di vagheggini, essa era troppo austeramente educata, e, dobbiam dirlo, impeciata anche un pocolino di quel difettuzzo che tutte le donne ereditarono dall'antica loro genitrice, quel di orgoglio che in molte tien luogo di modestia; del resto però eccellente figliuola, buona, amorosa, e, quel che è più, ottima massaja. Stefano avrebbe voluto chiederla al padre, ma oltrecchè poca o nessuna relazione esisteva tra loro, trattenevalo il pensiero d'un rifiuto, perchè di solito accadeva che i matrimonj si facessero tra persone della stessa corporazione, e quanto a ciò, armajuolo e pellicciajo erano come diavolo e acqua benedetta. Tuttavia il caso volle che Stefano rendesse un piccolo servigio al padre della Cecilia; sicchè inanimito si coraggio a chiedergliela in isposa. Alla qual domanda il padre rispose più mansueto di quel che sarebbesi aspettato, ch'egli era vecchio e omai presso a morire, che i tempi erano grami e tristi e più favorevoli all'armi che al commercio, e la sua figliuola aveva bisogno di uomo che sapesse proteggerla contro le violenze dei signori; perciò l'avrebbe data a colui che nella vicina prova avesse guadagnato tutti i premii. Udito ciò, l'armajuolo partì giubilante e tutto pieno di speranza, e preparossi alla giostra. In que' appunto si facevano grandi feste in Milano pel matrimonio di Marco Visconti con Elisabetta di Baviera, e il popolo siccome era uso di quei tempi, oltre i soliti spassi, soleva darsi quello dei giuochi pubblici e delle giostre, spasso che costava molte volte a chi un occhio, a chi un braccio, a chi perfino la vita. L'armajuolo presentossi tra i primi nello steccato, leggero e brioso come un puledro, e memore delle tante prove da cui era già uscito vincitore. La fortuna gli arrise dal principio alla fine, talchè gridato vincitore di bel nuovo, potè ricevere dalla mano stessa della Cecilia la corona guadagnata, e stamparle un bacio in fronte, il qual bacio fece arrossire come bragia la fanciulla. La sera medesima la figlia interrogata dal genitore se acconsentiva ad aver per marito l'armajuolo, aveva abbassato gli occhi e mormorato un sì inintelligibile a tutti fuorchè al solo Stefano che, pigliatala per mano, giurò che avrebbe vegliato sopra di lei e l'avrebbe amata fino alla morte. In tal guisa essi furono marito e moglie.

Ormai erano scorsi sette anni da quel , e la domestica tranquillità dell'armajuolo non era mai stata turbata da verun tristo avvenimento: solo la morte del padre di Cecilia, avvenuta due anni dopo, aveva cagionate alcune lagrime, le quali furono facilmente asciugate dalle carezze di un fanciullino, cui l'armajuolo aveva posto nome Marco in onore del Visconti sotto i cui auspicii aveva inaugurato la sua felicità. E Stefano poteva dirsi compiutamente felice, se fosse stato men uomo di quello che era, e se avesse potuto chiuder sempre un occhio a tempo e luogo. Ma troppo spesso ricordavasi di essere il primo fra i campioni milanesi e di aver fatto mordere la polve a molti di quegli spavaldi che andavano ora con aspetto tronfio e superbo e guardavano in cagnesco i poveri cittadini. Oltrecchè era di cuor buono e generoso e le miserie della sua città gli mettevano una rabbia nello stomaco che prorompeva ad ogni istante e che la sola Cecilia valeva a frenare. Nel forte della pestilenza, egli aveva soccorso molti cittadini con ogni maniera d'ajuto, e vantavasi che il cielo l'avesse risparmiato, anzi che lo facesse sempre più prosperare in salute. E ciò, diceva egli, a dispetto di que' rozzi manigoldi del duca, che l'avrebbero voluto infilzato sulle coltella. Tuttavia siccome per lo imperversar della peste ogni industria era scemata e poco men che perduta, e nessuno poi pensava a provvedersi di arme quando mancavagli il pane da mangiare, così egli pure si vide ridotto a cattivo partito e, tanto per cavarsi il bisogno, fu costretto, a grande suo malincuore, di accogliere in casa sua uno dei cinquemila cani che Bernabò teneva distribuiti fra i cittadini, e il cui mantenimento largamente ricompensava. La qual industria, veramente barbara e crudele, porgeva però da campare a un gran numero di famiglie che forse sarebbero morte di fame. Così un po' bene, un po' male, il nostro Stefano era vissuto fino a quel , in cui erano stati appiccati i cento cittadini, avvenimento che gli aveva fatto ribollire il sangue nelle vene, e che nel tornarsene lo faceva uscire nelle più sanguinose imprecazioni, checchè gli andasse susurrando il compagno, al quale pareva d'avere le budella in un catino.

Giunti che furono davanti all'officina dell'armajuolo, Franciscolo, al quale era venuto crescendo per via una tenerezza straordinaria per casa sua, strinse la mano in fretta in fretta a Stefano, e partissi, non parendogli vero d'essersela cavata così a buon patto. E il tratto di strada che rimanevagli a fare divorò colla rapidità che permettevagli la convessità della pancia e due gambe degne del più ricco e pasciuto abate di Milano. Tanto più che prima di toccare al Malcantone, quando Stefano era nel forte delle sue invettive aveva veduto, o almeno eragli parso vedere lo Scannapecore, il canattiere favorito del Duca, che sogguardava dall'altro lato della strada con un viso arcigno da far paura ai morti; e ne aveva anche avvisato l'armajuolo, ma quegli dispettoso e testereccio come un ragazzo, aveva risposto - Buon prò, guardi pure, che fa a me? Ci vuol altro muso che il suo per farmi paura, e non sarei mica malcontento di accomodar oggi certe vecchie partite che so io. Ei crede di farmi l'amico, perchè mi ha condotto in casa quella carogna di cane, che se non fosse per mia moglie e pel povero Marco, avrei già scannato da un pezzo e mandato ad acconciare al fosso della Vetra. Oh! non mi cada tra i piedi quel brutto ceffo di canattiere. - E seguitava di questo pelo, parte gridando, parte borbottando fra i denti accompagnato dalle spinte che l'amico gli dava per farlo tacere. Se non che quando a Dio piacque, arrivarono a quella benedetta officina, e l'armaiuolo lasciato che l'altro se n'andasse, entrò sbuffante in bottega, e gettato il berretto in un canto abbandonossi sopra una panca dov'era solito lavorare. Ivi stette per alcun tempo immerso ne' suoi pensieri, avendo sempre davanti agli occhi l'immagine di quei meschini che davano calci al vento, e riandando tra le parole del padre Teodoro che racchiudevano certamente qualche strano mistero. Non già che Stefano avesse un briciolo di speranza nell'ajuto e nella protezione di due frati; egli era armajuolo e manesco troppo per istimare dappiù le parole di un frate di quel che una buona lama ben temperata. - E dove questa non vale che cosa varrà mai? - Con queste parole, che Stefano pronunciò ad alta voce, pose fine alla sua meditazione, e balzato in piedi guardò all'ingiro nella bottega, e appena allora fu maravigliato di non vedervi alcuno de' suoi garzoni.

- Ehi. Tonio, Martino, gaglioffi sfacciati, dove siete? Chi v'ha insegnato a disertare così la vostra bottega, cioè voglio dire la bottega del vostro padrone? Rispondete, o birbi di terzo pelo. Che il diavolo sia entrato qui dentro, e vi abbia portati via in anima e in corpo?

- Eh! il diavolo v'è entrato del sicuro, ma per ora se n'andato colle corna nel sacco, rispose una voce dalla scaletta che dalla bottega metteva alle camere superiori. In quel punto uno dei due garzoni saltò lesto dagli ultimi gradini, e avanzossi alla volta di Stefano. Ma questi non gli lasciò agio a innoltrarsi: afferratolo d'un tratto pel collo gli diè un tal rovescio alla persona che il povero Martino traballò sulle gambe, e fu per istramazzare. Se non che la stessa mano che l'aveva fatto cadere lo tenne saldo, in guisa che il garzone stette sospeso tra la terra e il braccio dell'armajuolo che stringevalo come tanaglia.

- Ah! cane traditore! gli gridò questi ficcandogli in faccia due occhi di bragia; bel modo da attendere alle cose mie. Non basta che il contagio e la carestia ci spazzino le case, bisogna lasciarle vote, perchè i ladri ajutino a fare del tutto il repulisti. Meriteresti un tal ricordo che non ti cadesse mai più dalla memoria.

- Ma, mio buon messer Stefano.... tentava di rispondere il garzone, quantunque per la stretta che aveva alla gola a stento gli uscissero le parole.

- Che? hai ragioni da addurre? Sta a vedere questo scimunito, che io tengo in bottega, perchè non muoja di fame su una strada, sta a vedere che vuol farla tenere a me!

- Ma, messer Stefano, se mi lascerete parlare, saprete....

- Che cosa ho da sapere, ? che cosa? Che tu sei il più sfrontato briccone che abbia percosso l'incudine in contrada degli Spadari? Questo vuoi dir tu?

- Eh! mio Dio! ciò può essere: ma intanto, s'io lasciai la bottega vota, fu per soccorrere....

- Soccorrer chi? sclamò Stefano.

- Cioè, soccorrere veramente no, ma così tener d'occhio, che so io? ajutare in caso di bisogno....

- Spicciati, tristaccio; ajutar chi?

- Vostra moglie?

- Cecilia! E che cosa ha Cecilia? le prese forse qualche male, non sarebbero ancora finiti i guai?

Ciò detto, lasciò andare Martino e corso alla scaletta salì i gradini a quattro a quattro coll'ansietà di chi teme un pericolo e non sa quale. La Cecilia era seduta presso al letto, colla testa appoggiata ai cuscini e con una mano asciugavasi gli occhi rossi dalle lagrime. Poco lungi da lei stava Tonio, l'altro garzone, cavando fuori tutti gli argomenti che suggerivagli la sua rettorica per consolarla, nel qual uffizio faceva così patetiche smorfie col viso che avrebbe mosso a ridere qualunque altri che Cecilia. L'armajuolo, che erasi trattenuto alquanto sull'ingresso per mirare la scena, ora avvicinossi alla sua Cecilia e accarezzandole dolcemente una guancia, le chiese del suo male.

- Oh! nulla, nulla, rispose essa sollevando il capo, e sforzandosi di sorridere per mezzo alle lagrime; fu un capogiro. Adesso però m'è passato, e sto meglio: sì, sì, sto meglio...

- E vero, messer Stefano, disse Tonio, fu un capogiro, proprio di quelli che prendono quando uno sale in alto a guardar giù: e sì che la padrona, poveretta non faceva altro che guardar in su, e rivolger gli occhi al cielo. Ma tant'è, il capogiro le è venuto, e se n'è anche andato, la Dio mercè.

- Ma, sai, mia buona Cecilia, che mi hai fatto una paura da non dirsi. Quel gocciolone di Martino, al quale stava per rivedere il pelo, mi parlò così ingarbugliato, che quasi temeva d'un malanno più serio. Ben è vero che il contagio è sparito, ma in fin dei conti, dove c'è stato una volta può tornarci la seconda e la terza, e... Ma via, adesso son tranquillo.

- Vedi, marito mio, prese a dire Cecilia, hai voluto andare a quel brutto spettacolo.

- Hai ragione, non doveva uscire: quei poveri appiccati mi stanno sempre davanti agli occhi, e mi fanno una pietà... Ah! se avesti veduto i due Borsano, quei che avevano bottega di pelliccie vicino alla tua, con che tenerezza si abbracciavano. Ah! se tenessi qui nelle mie unghie il Duca, o qualcheduno dei suoi, per Dio vorrei conciarlo a mio modo, e non andrebbe a Marignano a pentirsene.

In quel mentre il cane che aveva a custodia dal Duca, erasi levato dal suo giaciglio e cacciavasi tra le gambe dell'armajuolo. Ma per sua mala ventura, perchè Stefano in quell'impeto di rabbia gli diede un tal calcio a mezzo il corpo che lo portò all'altra estremità della camera, dove percosse nella parete e stramazzò.

- Sta , cane, gridò poscia, vera imagine di quel tristo che s'ingrassa a spese di noi poveri cittadini, e ci lascia morire del contagio e di miseria. Così potessi fare di lui quel che ora farò di te.

- Oimè, Stefano, sclamò la moglie impaurita, vuoi tu vederci morti? Non sai che la perdita di quel cane costerebbe la vita a tutti noi?

- Badate a quel che fate, messer Stefano, sclamò Tonio; l'ha detto anche lo Scannapecore, guai se quel cane morisse.

- Lo Scannapecore, hai detto? E quand'è che quel manigoldo ha parlato con te?

- Con me no veramente, egli ha parlato con.... con.... cioè vi dirò, sono stato io, che così per dire.... ma non crediate... non vi ponete in capo che....

L'armajuolo guardò un istante in viso a Tonio, il quale confondevasi e faceva le più strane smorfie del mondo: poi voltatosi d'un tratto, vide Cecilia in atto di supplicarlo cogli occhi e col gesto perchè tacesse.

- E che? sclamò, vi ha dunque segreti per me? Tonio, tu vuoi dunque ch'io ti mandi a tener compagnia al cane del Duca?

- Oh, state sicuro che non lo desidero.

- E tu Cecilia, disse poi guardandola in atto di affettuoso rimprovero, tu pure non hai più fiducia nel tuo marito?

- Ah no, mio buon Stefano, sclamò essa e balzata in piedi, gettò le braccia al collo di lui. La fiducia io l'ho sempre avuta, ed ora più che mai, perchè sento di averne maggior bisogno; ma l'ira ti piglia tanto facilmente e ti fa commettere cose che poi non vorresti aver fatto, che in vero pensava di non darti anche questo rammarico.

- Parla dunque, per s.Eustorgio, che cosa è avvenuto? Che c'entra in tutto ciò quello sciagurato di canattiere?

- Chiedine a Tonio, col quale lo Scannapecore ha parlato, prima di parlare con me?

- Che? dunque quel manigoldo è salito qui sopra? Non gli bastava d'aver posto l'assedio alla mia casa, di perseguitarti con ambasciate e con profferte; bisognava ch'ei mettesse piede anche nella stessa mia camera? Ah, la misura è colma; perchè io so tutto, vedi, Cecilia, io so tutto, quantunque tu mi abbia sempre fatto un segreto di ciò. ti biasimo per questo. Ma infine una buona giustizia la c'è per tutti, e quando uno non può averla, se la fa da per .

- Oimè, marito mio, lo sapeva io che avresti dato in minacce, invece di pregar Dio che ci porga ajuto.

- Tengasi chi può, quando sono lecite di tali ribalderie. Le preghiere sono certo un ottima cosa, ma io per me so che un buon braccio paga meglio le offese, e non ne tien debito con nessuno. Ma infine, che cosa t'ha detto, Tonio, parla una volta.

- Che so io? Egli è venuto in bottega con certi blandimenti di alabarde che voleva vedere, perchè al Duca ne facevano d'uopo, poi uscì a parlare del cane che avete in casa, e lo lodò assai, e disse che stava tanto a cuore a Bernabò, e che avrebbe voluto vederlo prima del della rassegna.

- E tu gliel'hai condotto abbasso?

- No, voleva ben farlo, ma egli mi trattenne, dicendo che non meritava la pena, e che sarebbe salito egli, anche per vedere in che modo era fatto giacere, e dare qualche consiglio su di ciò, perch'egli diceva, è molto amico vostro, e gli preme il vostro buon nome.

- Ah, il mio buon nome gli preme! borbottò fra i denti l'armajuolo.

- Certo, e con questi modi è salito.

- E poi?

- E poi, prese a dire Cecilia, mi venne innanzi con molta mia maraviglia, e mi chiese del cane, e dimostrò molto desiderio di vederlo, perchè guai, diceva, se egli dimagrasse o impinguasse, che non c'è pericolo, e peggio se venisse a morire. Infine cominciò un lungo discorso che andava a finire colle solite proteste, al che io risposi asciuttamente e con dignità; ma veduto che non ristava, chiamai Tonio e Martino, che accorsero entrambi, ed egli tenendosi per ischernito partì sdegnoso e borbottando.

- Ah! cane, te lo darò io lo sdegno.

- Deh! marito mio, non tiriamoci addosso peggiori malanni. Pensa al nostro Marco, a quell'angioletto, che sta dormendo nell'altra camera, e che non deve patire per nostra colpa. Quanto allo Scannapecore, lascialo in pace, chè questa volta si sarà levato il ruzzo del capo, e non ci darà più fastidio, già un o l'altro si sarebbe venuto a ciò, e in ogni caso meglio oggi che domani. Via, Stefano, sii buono, siedi qui, vicino a me, vicino alla tua Cecilia che ti vuol tanto bene.

E intanto che così parlava, la Cecilia gli veniva stringendosi alla persona, e lo guardava amorosamente e l'accarezzava e gli posava la testa sulle spalle con tutte quelle arti che le femmine possedono in sommo grado e che sono la delizia e la disperazione della più forte metà del genere umano. E l'armajuolo, il quale ad onta della sua grand'ira, era nel fondo una buona pasta d'uomo, tenero assai della moglie, non potè star saldo a quelle preghiere e a quelle carezze, e cacciato fuori un gran sospiro che pareva gli volesse scoppiare il petto, gettossi a sedere senza dire una parola.

- Marco, Marco, chiamò allora la moglie che lo vide alquanto commosso. Marco, vieni, che il papà ti vuole.

Allora un fanciullo di cinque anni, paffuto e ricciutello come un amorino entrò nella camera lento lento e cogli occhi semichiusi, e andò a posarsi vicino all'armajuolo.

- Che cosa vuoi, papà?

L'armajuolo guardò un istante il fanciullo, poi la madre, poi ancora il fanciullo, e fregando la fronte col rovescio della mano come per cacciarne un pensiero molesto, borbottò tra . - Che serve? non si può essere uomini a questo mondo. Che cosa vale avere un cuore che senta le ingiurie, e due buone braccia per vendicarle, se il primo è fatto tacere con quattro lagrimuccie, le altre vi sono legate da coloro stessi che le dovrebbero lasciar libere? Uf! povero Stefano.

- Che cosa ha il papà, chiese il fanciullino, è forse in collera con me, perchè ho dormito troppo?

- Eh: no, rispose la madre, è stato un po' di mal umore, ma adesso non ce n'è più l'ombra. Via, fagli un bacio, e poi va a giuocare.

E questo del bacio era l'ultimo tentativo per rabbonire l'armajuolo, perchè a quei tempi barbari e rozzi non conoscevansi certe raffinatezze di sentimento, che hanno gran voga oggidì, e andavasi molto più alla spiccia. Due carezze, un bacio, tutt'al più una lagrima, perchè le donne hanno sempre pianto dacchè uscirono dal fianco dell'uomo, facevano le spese di ogni tenerezza; i brividi, le convulsioni, i deliquii erano delicature ignote a quella buona gente che sopra ogni altra cosa faceva professione di sincerità. Allora era del cuore come della storia, la quale raccontavasi tutta d'un fiato; così alla carlona, senza sospensioni, senza episodii, senza capitoli, senza epigrafi, insomma senza tutte quelle inutili sdolcinature che crearono adesso il racconto storico. questo sia detto per lodare i tempi andati a fronte dei nostri, che Dio ce ne guardi; tanto più che noi pure ci siam fatti seguaci del moderno costume e abbiamo trasformato una eccellente cronaca in un magro e stiracchiato racconto.

Così tornata un po' di quiete nella casa dell'armajuolo, i pensieri presero naturalmente un'altra via, e il fanciullo fu il primo a darvi la spinta. Staccatosi dal collo dell'armajuolo dopo quell'ultimo bacio, egli era corso in traccia del cane, col quale soleva giuocare buona parte del giorno, e vedutolo steso per terra tutto sbalordito dalla percossa, cominciò ad alzare un lamento straordinario. Tonio erasi avvicinato esso pure, e sollevato il corpo del cane, e visitatolo in ogni parte, scuoteva il capo e stringeva le labbra in atto di chi sta per pronosticare un malanno. Persino la Cecilia erasi tolta al fianco del marito e innoltravasi tra paurosa e dolente per sapere del funesto caso. Il solo armajuolo pareva non badare a nulla e stava tutto assorto nelle sue meditazioni, tentando ogni mezzo di divorarsi la rabbia che gli fremeva nell'animo.

- Madonna Cecilia, disse Tonio sommessamente in guisa che l'armajuolo non udisse, ho paura che questo maledetto cane voglia darci più faccende che quel tristo di Scannapecore. Con colui non sono che parole; ma qui sì tratta della vita, e voi sapete che il Duca non ischerza. Vedete come ha gli occhi socchiusi, e come tira a stento il fiato! Non vorrei aver pigliato io quel calcio che toccò a quella brutta bestiaccia. Già il padrone non l'ha mai potuto vedere di buon occhio, e forse ha ragione; ma mio Dio! bisogna adattarsi ai tempi.

- Ed ora che si fa? chiese la Cecilia tremando.

- Che si fa? bisogna tosto dargli qualche rimedio per tornarlo in vigore, Se no, poveri noi.

- E che cosa dobbiamo dargli, se siamo allo stremo di tutto, se appena abbiamo di che sfamarci quest'oggi, finchè Dio provvede.

- Eh! per quest'oggi si pranzerà coll'aria. Per un giorno non si patisce, e alla fin dei conti mi preme più il collo che il ventre. Alla Vetra è tuttora in piedi quel tal ordigno, e giacchè non sono stato a vederlo, non vorrei per tutti i pranzi del mondo stringere conoscenza con esso. Intanto, Madonna Cecilia, date qui la boccetta dell'olio, che glielo verseremo per la gola a quel cane mal leccato.

- Oh! poveretta me, se ne ho appena tanto da accendere il lumiccino stassera davanti l'imagine di santa Radegonda.

- Or via, le faremo offerta de' nostri stomachi digiuni, e santa Radegonda non ci rifiuterà la sua protezione. Date qui l'olio intanto e guardate di raccogliere quel po' di farina e di grascia che avete, soprattutto cercate di ottenere una scodella di latte.

- Oh! poveretti noi! sclamò Cecilia, e avviavasi a capo chino. Se non che avvedutosi del suo andare l'armajuolo, sollevò il capo e le disse:

- Dove vai, Cecilia?

- Vado di a pigliare la boccetta dell'olio, e la farina e la grascia e il latte per ristorare un po' il cane, che non si rialzò più dopo quel calcio.

- Sta bene; così l'avessi acconciato del tutto.

- E il Duca? disse timorosamente la donna.

- Hai ragione, Cecilia, rispose l'armajuolo dopo d'aver meditato alquanto; i suoi cani ci mangiano il nostro pranzo, i suoi canattieri ci insidiano le nostre donne, e per soprammercato il Duca ci fa appiccare. Hai ragione, Cecilia: or va, e porta tutto quello che fa duopo per mantenere in vita questo sozzo animale; purchè egli rinvigorisca, crepi tutta una famiglia, che poco importa.

 

 

 




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