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Carlo Tenca
La cà dei cani

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  • III
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III.

 

L'eva la Lilla ona cagna maltesa

tutta pêl, tutta goss e tutta lard,

E in Travasa, dopo la Marchesa,

L'eva la bestia de magior riguard,

De mœud che guaja al ciel falla sguagnì,

Guaja sbeffalla, guai a dagh del ti.

Porta, La Nomina del Capellan.

 

Il mattino appresso le cose erano tuttavia nel medesimo stato, vale a dire il cane non istava punto meglio di prima, perchè degli altri non vale tener discorso per ora. Le cure usategli dalla famiglia dell'armajuolo, i beveroni cacciatigli giù per la gola, gli empiastri messi sulla percossa, i cibi postigli innanzi avevano solo per poco rianimati gli spiriti del cane, sicchè tutti stavano in grande timore. Lo stesso Stefano, che il prima lo voleva veder morto, ora che la notte l'aveva fatto tornare a più miti pensieri, avrebbe dato non so che per riparare al mal fatto, e si affannava e si dava una briga da non dire per quella bestiaccia. Passato l'impeto dell'ira, la paura naturale in quei tempi ad ogni animo più forte, eragli tornata in corpo più gagliarda di prima, e la sua fantasia non presentavagli che capestri, roghi, tanaglie, mastini e tutte le dolcezze della giustizia sbrigativa di quei tempi. La notte poco si aveva dormito, e la Cecilia era in piedi avanti l'alba, tormentata da un cruccioso desiderio che non le lasciava chiuder occhio. Nel fervore del suo affanno e della sua devozione, ella aveva staccato dalla parete del capezzale un cero benedetto, che contava non so quanti anni di polverosa memoria, e accesolo davanti la sua prediletta imagine, vi si era inginocchiata d'appresso e pregava sommessamente. Però non potè far in guisa che il suo brontolio, o meglio quella specie di sibilo solito a uscire dalla bocca delle pinzochere, non risvegliasse il marito, il quale balzò fuori del letto e sguardato attorno, chiese:

- Che c'è? Che vuol dire quel cero acceso, e quel volto contristato, o Cecilia? forsechè ti è apparsa in soguo la buon anima di tuo padre che ha bisogno di un po' di bene?

- Eh! no, caro Stefano, mio padre era troppo uomo dabbene, e Iddio l'avrà già ricevuto nella sua santa gloria.

- Perchè preghi adunque?

- Prego Dio, che voglia distornare da noi il pericolo che ci sta sopra; prego la mia protettrice che interceda la grazia di risanare quel cane che vuol essere la nostra rovina.

- Ah! disse l'armajuolo, non basta che questi cani ci tolgano di bocca il pane da mangiare, anche le intercessioni dei santi ci rubano. Oh! padre Teodoro, se vedessi quale strapazzo siamo costretti a fare della grazia divina, cercandola per un cane, che cosa diresti tu, vero frate del Signore? Ma, che serve? Poichè siam dentro nel pantano fino al collo, bisogna starci, e non dimenarci anche per non isprofondare. Come sta ora quel cane?

- Che so io? E ancora disteso che non si muove: per me tengo che si sia addormentalo.

- Così pur fosse, che il sonno è indizio di guarigione. Ma temo assai. Basta, vediamo.

Ciò detto, avvicinossi al giaciglio, sul quale era stato posto il cane, e la Cecilia, asciugatasi una lagrima col rovescio della mano, gli tenne dietro col cero, perchè l'alba non era ancor tanto sorta da poterci vedere senza il lume di Marfisa. Il cane giaceva disteso, quant'era lungo, su uno strato di paglia, coperto all'infretta da alcuni stracci di lino. Egli era volto colla pancia all'insù, a cagione della percossa che gli era toccata proprio nel basso del ventre, e gli aveva prodotto un'enfiagione, con un lividore intorno di sangue rappreso. Ma il male che vedevasi all'esterno era un nulla, perchè alla fin fine un'enfiagione, per quanto sia ostinata, dove non ceda sotto l'azione dell'aceto, deve ammollirsi e sparire cogli empiastri refrigeranti. Il maggior guaio stava nel di dentro, dove il gran colpo ricevuto e il rimbalzo nella parete doveva aver cagionato un guasto terribile, e ciò argomentavasi dal respirare affannoso del cane e da una specie di sommesso guaito che di tanto in tanto gli scappava dalla gola. Ben è vero che il latte versatogli per la bocca e meglio ancora l'olio trangugiato aveanlo ristorato alquanto, e aperto il cuore di tutti alla speranza; ma fu l'affare d'un istante, perchè il male ripigliò tosto la sua violenza e lo ridusse nello stato, in cui lo trovò adesso l'armajuolo. Egli giaceva supino, come abbiam detto, e colle gambe stirate e quasi stecchite, gli occhi aveva socchiusi e lagrimanti, il capo penzolone da un lato, il corpo sgocciolante un sudor freddo, come di chi è vicino a mandar l'ultimo fiato. A vederlo adesso non riconoscevasi più il bell'alano, alto, maestoso, snello, colla pelle lucidissima, sparso di alcune macchie che lo rendevano ancor più bello, cogli occhi animati, col portamento ardito, col muso regolare e pieno di nobiltà, se è lecito adoperare tale espressione per un cane. Ora egli era prostrato, avvilito, deforme quasi; e tutto ciò per la miseria d'un calcio, che alla fin fine era poi sempre un calcio. E il buon armajuolo la pensava anch'egli così, perocchè nel visitarlo, andava borbottando:

- Che tu sia maladetto: a vederli questi cani pajon forti come orsi, e alla prova son più deboli delle lepri che perseguitano. Ecco , appena sollevi un piede contro di loro, ti cadono sbalorditi per terra come ragni colti dalla scopa. Già, quando si tratta di far dispetto, son tutti così. Se li hai bisogno docili e mansueti, ti saltano agli occhi e ti succhiano la minestra fuori del cucchiajo; se li desideri forti ed arditi, almen tanto da resistere all'urto d'un piede, ecco che a tua marcia rabbia diventano peggio che di stracci. Ma, pazienza; or non è tempo di ciarle, bisogna ajutarsi in qualche modo. Ehi! Tonio, Martino, non siete ancora alzati? Aspettate forse che il sole vi dia sul ventre?

- Mio Dio, sì, rispose una voce dal pian terreno, se il sole potesse entrarvi dentro e tener luogo di pane e di minestra, farei patto di stare tre giorni e tre notti colla pancia all'aria. Cioè, le notti no, messer Stefano, perchè le notti....

- Son fatte per i pipistrelli tuoi pari. Su via, sali, gaglioffo, che ho bisogno di te.

- In due minuti son lesto, rispose la medesima voce. E da a poco udissi un rumor di passi sulla scaletta, e la faccia di Tonio non ancora del tutto svegliato presentossi all'uscio.

- Che cosa volete da me, messer Stefano? chiese egli trattenendosi sull'ingresso. È forse sbucato qualche topo dal pagliariccio, come avvenne alcune notti fa; davvero non sarei mica malcontento di fargli la festa. Non sarà già il primo che sia entrato nello stomaco d'un milanese.

- Taci, in tua malora. Or trattasi del cane, che mi pare allo stremo.

- Ah! mio Dio, or sì, che me ne sovviene. Guardate, quando si dice, ed io aveva creduto che tutto ciò mi fosse avvenuto in sogno. Ah! povero Tonio, la tua pelle sa già di cadavere.

- Vuoi finirla, scimunito. Vieni qui, dammi un po' un consiglio, chiama anche Martino, che voglio udire anche lui. Infine si tratta della vita di tutti. Maladetto cane!

- Martino è già presso a vestirsi. Ma siamo proprio a questo punto? Non c'è più rimedio?

- Guarda, come è senza moto, e come fiata a stento.

- Ah! Vergine santissima, ajutateci, sclamò Cecilia, alzando gli occhi al cielo e sospirando.

- Eccomi qui, disse Martino, entrando in quel punto.

- Ho piacere che siate qui entrambi, disse l'armajuolo; tutti siamo mossi dalla medesima paura, e la vita di questo cane è preziosa per tutti. I rimedii che gli abbiam dato jeri non valsero a nulla; anzi par che lo abbiano ridotto a peggior stato. Che dobbiam fare pertanto? Mettere la nostra sorte nelle mani del Signore, o confidarci nelle nostre gambe? Perchè la mostra è poco lontana, e se il cane non è vivo e sano, il Duca non ci userà cortesia al certo. Voi sapete quel che è toccato al povero Giorgio, l'orefice, non sono molti , e poi lo spettacolo d'jeri vi deve essere presente tuttora alla memoria.

Tonio e Martino si guardarono in viso istupiditi, e nel momento non trovarono fiato per pronunciare una parola. La Cecilia s'era ritratta in un canto e singhiozzava. Finalmente quando i due garzoni ebbero ripigliato alquanto animo, Martino cominciò a dire:

- Udite, messer Stefano: già a fuggire e ad essere impiccati siamo sempre in tempo, e la cosa non è poi tanto disperata che non possa aver rimedio. Da oggi al della mostra ci passano ancora tre giorni, e in tre giorni il cane può guarire. Le bestie non sono mica come noi cristiani, che quando le ci toccano le malattie, bisogna tenersele in corpo per dei mesi. Facciamo una prova. Io andrò al Carobbio a cercare della vecchia Marta, voi la conoscete, l'indovina che sa tutti i pianeti delle persone, e che sarebbe in grado di dire al Duca quanti peli ha sulla faccia, o quanti peccati ha sull'anima, che già son quanto al numero. Ella, che è anche medichessa, avrà qualche erba od empiastro da risanare il cane, o per lo meno ci potrà dare qualche buon suggerimento. Che vi pare, messer Stefano?

- Tu hai ragione, per Dio, guardate se non ci ha da cadere in mente prima d'ora? Se la vecchia Marta ha guarito tanti cristiani, come io ho capelli io capo, perchè non potrà essa guarire un cane? Va tosto, figliuol mio, e fa di indurla a venir qui,

- In due salti vado e torno. Tonio, non vuoi accompagnarmi?

- Io, neh? non mi ci prendi per questa volta. Tonio a casa d'una strega? Tra i due malanni preferisco di cadere nelle mani del Duca. In questo affare fa conto ch'io sia morto.

- Poverino! sei ben dolce di sale. Va a credere a tutte le fole che ti raccontano. Le streghe ci sono pur troppo, ma la vecchia Marta è tanto strega, come lo siamo io e tu. Il contagio che ha recato tanti guai, ha fatto almen questo di bene, che ci ha liberati quasi intieramente da quella razza d'inferno. Addio, addio.

- Ma, prese a dire Cecilia, la quale pareva inclinata a prestar fede ai sospetti di Tonio, questo ricorrere alla vecchia Marta non è quasi un offendere il Signore, il quale è il solo padrone della vita e della morte?

- Eh! rispose l'armajuolo, il Signore non vede mica malvolentieri che gli uomini si ajutino di per . Quand'essi non valgono a cavarsi d'impaccio, allora è tempo di rivolgersi a lui e di chiedergli un miracolo: se ciò non fosse, a che ci avrebbe dato due braccia due occhi e soprattutto due dita di cervello, chi n'ha? Però va, Martino, e spicciati.

Il garzone non se lo fece dire un'altra volta, ma pigliò l'uscio e giù per la contrada di s. Satiro fino al Carobbio. L'armajuolo intanto un po' per la speranza natagli addosso, un po' per quel coraggio naturale che possedeva in grado eminente, era tornato calmo e quasi allegro, e volgendosi a Tonio, diceva:

- Va giù in bottega, Tonio, ed apri le imposte, perchè il sole è già alto. Sebbene in questi tempi non ci sia nulla a fare, non bisogna lasciar credere ai maligni che siamo poltroni o caduti di tanto da non poter più aprir bottega. Va e da di mano a quel morione che l'anno passato ci diè a raccomodare quello scudiere che non tornò più indietro. L'hai già ribadito una dozzina di volte, ma non importa; picchiavi su, e che odano il suono del martello fino alla piazza di s. Giovanni alla Conca. Hai capito, Tonio?

- Ho capito; lasciate fare a me, che picchierò in modo da far miagolare tutti i gatti che la fame ha fatto entrare nel ventre dei milanesi.

- Bravo figliuolo, che s. Eustorgio ti faccia la grazia di mandarne alcuno davanti alla bottega.

- Oh, allora vedreste se so colpir netto sì o no; un gatto non è come il saracino, che se non lo cogli ti scarica addosso una tempesta di legnate.

- E tu lo sai per prova, gaglioffo.

Poscia, allorchè il garzone fu disceso, Stefano si volse alla moglie, la quale pareva non pigliasse parte alla comune speranza, e stavasene in un canto divorando i singhiozzi. L'armajuolo se le avvicinò affettuoso, e accarezzatole il mento le disse:

- Sta di buon animo, Cecilia, che le cose andranno alla meglio. La vecchia Marta ne sa più che il Medicina in persona, che pure è astrologo del Duca; e se vuole, in un pajo di giorni ce lo bell'e guarito questo cane. A noi che non c'intendiamo di cosiffatte miserie, pare ch'esso abbia un gran male, ma vedrete che colei lo troverà una cosa da niente, uno di quei mali che si cacciano col soffiarvi sopra.

- Lo voglia il cielo, disse Cecilia; ma se ho a dirti il vero io non ho una fiducia al mondo in codesta Marta. Fin da quando era fanciulla, correvano certe voci intorno a lei.... Parlavasi di bambini scomparsi, di donne ammaliate; e dicevasi la notte udirsi uno strano rumore nella sua casuccia, e vedersi da lungi assai uno splendore come di zolfo, che appestava tutto il Carobbio. Basta, non sarà vero, e neppure io proprio l'ho creduto; ma già se ne sono vedute tante.... Che il Signore ce la mandi buona!

- Amen. Ma i tuoi spaventi, Cecilia, non hanno fondamento. Io la conosco da un pezzo la vecchia Marta, e quando c'era la buon anima di mio padre, che Dio l'abbia nella sua santa gloria, è venuta più d'una volta in casa nostra, e so che teneva sempre qualche balocco per me, di che io faceva una festa grande. E allora non la credevano mica una strega, perchè era fresca e belloccia e inoltre soda come una corazza. Di più intendevasi di slogature, meglio che io di manopole, e le raccomodava con un'arte, con una precisione, che non s'andava più in . E fu bene per una sconciatura che ebbe quel brav'uomo di mio padre nei giuochi dati trentacinque anni fa, quando Azzone nella chiesa di s. Ambrogio cinse il cingolo militare a Francescolo della Pusterla ed a Pinella Aliprando; fu allora che quella donna ci bazzicò sull'uscio qualche volta. Che vuoi? Finchè fu giovine e bella, la dissero buona, pietosa, caritatevole, infine un mondo di bene. Dappoichè le grinze pigliarono a pigione la sua faccia, e la sua pelle prese il colore di quell'armadio, addio bontà, essa è divenuta una strega, ed è un gran che se non l'hanno già abbruciata?

- Eppure, soggiunse Cecilia dopo un istante di silenzio, io non mi sento tranquilla. Ho in animo che quella donna ci debba recar disgrazia.

- Eh! chetati un po', fanciulla. Sto mallevadore io per essa.

E infatti quanto alla faccia di strega ci poteva farlo a ragione, e i nostri lettori che vivono in un secolo di tanta luce, s'accorderanno volentieri coll'opinione dell'armajuolo. Quello però che l'armajuolo non sapeva e di cui nessuno aveva pur l'ombra del sospetto, era la segreta dimestichezza che esisteva tra la vecchia Marta e gli sgherri del Duca, e diciamo dimestichezza per non adoperare un'altra parola più vituperosa che vorrebbesi affatto sbandita da ogni linguaggio. Senza di questo celato patrocinio ella non avrebbe potuto ridere in barba a tutta quella turba di paurosi che le lasciavano il passo e si facevano il segno della croce quando l'incontravano per via. La vecchia Marta aveva dovuto acconciarsi colla necessità delle circostanze, come tanti altri fecero di poi e faranno per l'avvenire fino al del giudizio; salvo che essa il faceva per un fine non al tutto spregevole come quello di un sordido interesse. I tempi l'avevano trascinata a ciò, i tempi, i quali ebbero sempre la prima accusa nelle umane fragilità. Il volgo incolpandola di stregoneria l'aveva in certa guisa messa fuori del suo consorzio, e fatta nemica dell'uman genere: ora essa rendeva odio per odio, male per male, e se non aveva commercio coi diavoli, lo teneva coi manigoldi di Barnabò che non erano miglior pasta d'individui, e tutto ciò a danno di quel popolo balordo e maligno che a forza aveva voluto porsi in guerra con lei. E tuttavia questo popolo che quand'era sano, avrebbe creduto saper di bitume col solo passarle accanto, era poi sì gonzo da entrarle in casa e consultarla appena lo tormentasse un doloruccio, uno spasimo, una scottatura, e chiedeva consigli e medicamenti, e voleva saper l'avvenire, gl'innamorati specialmente, i quali anche nel secolo decimoquarto in mezzo alla peste ed alle oppressioni erano la più nojosa genìa che mai. Tanto in quell'età rozza e materiale i dolori del corpo prevalevano su quelli dello spirito. E la nostra vecchia ad accoglierli ciascuno, a dare consolazioni e rimedii, a dicifrare le linee della mano e col pretesto di predire il futuro a interrogare e venir in chiaro di tutti i fatti del vicinato. I quali fatti poi per quali orecchie entrassero e da che bocche fossero ripetuti, non è mestieri dirlo; e come se ne giovassero quei tristi, a cui importava conoscerli, lo sapevano i poveri cittadini, che cadevano loro nelle mani.

è maraviglia che in tempi così violenti e pieni di sospetto esistessero esploratori anche nelle più basse condizioni del volgo. Anzi appunto allora che i costumi non erano raggentiliti come adesso, e la politica era un'arte sconosciuta, l'aver posto gli occhi addosso a persona così popolare di nome e così addentro nei segreti d'ogni famiglia, era raffinatezza bell'e buona e al di sopra dei comuni artifizii. Come poi vi si fosse acconciata la Marta, la quale in altri tempi aveva dimostrato pensieri di natura affatto contraria, fu sempre un mistero per tutti, e la stessa nostra cronaca lo tace. Forse fu il dispetto di vedersimal corrisposta dei beneficii da lei fatti altrui, forse la tenerezza per la sua pelle, che poteva un o l'altro essere pascolo alle fiamme, forse, che so io? la rabbia di vedersi disegnar sul viso la prima ruga, senza aver mai trovato un po' di marito. Il fatto è ch'ella vi si era acconciata, e bisogna dire che non le sembrasse una vitagrama, perchè fin da quando era fanciulla la Cecilia, il che vuol dire una dozzina d'anni addietro, ella faceva baldoria la notte coi cagnotti della corte, e quel gran chiaro che vedevasi trapelar dalle imposte, e quegli strani rumori che la gente credeva opera di Balzebut, erano i segnali dello stravizzo che tenevasi in sua casa. Ma quel tempo passò in un istante, perchè la vita spensierata, specialmente quando uno vi si abbandona per soffocare qualche molesto pensiero, conduce presto alla vecchiaja; e la Marta dovette provarlo, perchè all'epoca del nostro racconto non aveva più di cinquantadue anni, ed erastecchita, sì rugosa, sì bruna del volto, che le si avrebbe dato agevolmente una settantina d'anni. Per lo che l'attributo di vecchia s'era naturalmeute e proprio per necessario impulso accompagnato col suo nome di Marta.

Ora, chiesto perdono ai lettori di tale digressione fatta a bella posta per lasciar tempo a Martino di andare dalla vecchia e rifar la via, facciam ritorno nella casa dell'armajuolo, dove abbiam lasciato tutti pieni di aspettazione e di speranza. E quando diciamo tutti, vogliamo che s'intenda anche il cane, il quale sebbene non sia stato dotato dalla natura di cuore e d'intelletto, tuttavia siam d'avviso che sperasse esso pure la guarigione, perchè teniam per fermo che la speranza debba porsi tra gl'istinti. Egli aveva ritirato un cotal po' le gambe, e, raccosciatosi meglio di prima, erasi abbandonato sul giaciglio con un fare più tranquillo e più rassegnato, il suo respiro non era più così affannato e rantoloso, più udivasi quel guaito o lamento che straziava le viscere dell'armajuolo e della moglie, non tanto per compassione di quella bestia, come per medesimi. Intanto Martino entrato a furia nella bottega, saliva a tre a tre i gradini della scaletta, e appena affacciato all'uscio gridava:

- Presto, messer Stefano, pigliamo su il cane tal quale è, e portiamolo alla casa della vecchia Marta. Ella non può venire, che ha una flussione, un reuma, che so io? un malanno al ginocchio sinistro. Però m'ha detto di portarglielo, che in meno di due ce lo bello e vispo, come se non fosse stato nulla. Già non è ancora mattino fatto, e nessuno va in volta a quest'ora: e poi lo copriremo in guisa che parrà un'intera armatura. Lasciate fare a me che accomoderò la faccenda.

- Tutto ciò va bene, ma ci vorrebbe una lettiga per mettervelo a giacere con comodità.

- A questo ho già pensato io. Prima di salire quassù ho detto una parola a Tonio, il quale sta già apprestando le tavole e vi adatterà i travicelli per sostenerle. Noi vi porremo il cane e lo copriremo con quel saccone che sta giù in bottega, di sotto lasceremo che esca un po' di manopola o di gambale, perchè nessuno faccia giudizii temerarii su quel che portiamo. Infine, vedrete che le faccende si volgeranno al meglio.

- Bravo Martino, disse l'armajuolo, aprendo le braccia quasi in atto di stringerlo al seno; l'ho sempre detto che in certe cose vali un tesoro. Ora sarai consolata, Cecilia, non è vero?

La Cecilia non rispose, ma innalzò gli occhi al cielo e sospirò.

- Che? che? sei ancora malinconica e ingrugnata! Non t'è uscito dal capo quel pensiero di stregoneria e di maleficio?

- Oh! non ci penso più, rispose con accento di rassegnazione la Cecilia.

- Così va bene, disse l'armajuolo; poi affacciatosi alla scaletta gridò; ehi, Tonio, sei a tiro con quell'ordigno?

- Vi metto ancora due chiodi, e poi ho finito.

Infatti udissi per breve il picchiare del martello, poi il rumore dei passi di Tonio che saliva la scala.

- A maraviglia, disse l'armajuolo, posala qui, per terra, e tu, Martino, dammi una mano a sollevare da terra questo malcreato. Così; piglialo per le gambe di dietro. Ehi, fa adagio, dico, non è mica un morione da potersi maneggiare a suo grado, fa adagio, per Dio, che lo tocchi nella parte, dov'ha il male.

- Via, state cheto, messer Stefano, rispondeva il garzone, che gli farò minor guasto io colla mano di quel che abbiate fatto voi col piede. A voi, badate al capo che non cada penzolone.

- Così, bravo. Eccolo accomodato. Ora a voi altri, Tonio ponti di dietro, e tu Martino piglia il davanti e mostra la via; io vi verrò dietro così alla lontana per tener d'occhio i passanti. Hai capito Tonio? Che cosa fai istupidito come l'uomo di pietra? Suvvia, spicciati?

- Lasciatelo stare, messer Stefano. Non l'avete udito poco fa, quando l'ho invitato a venir meco? egli ha paura, il poverino.

- Gaglioffo, te la farò passar io la paura...

- Non ti adeguare, Stefano, saltò a dire la moglie, e lascia ch'egli resti a casa. Già qualcheduno bisogna pure che rimanga. Vuoi tu ch'io stia qui sola ad aspettarti, dopo lo spavento che ho avuto jeri?

- No, per Dio, e poi pensava anch'io che in bottega ci deve stare qualcheduno. Basta. Partiremo noi, Martino ed io.

Ciò detto, alzarono dal suolo quella specie di lettiga, e scesi in bottega, e accomodatala in guisa che niuno potesse sospettare del caso, avviaronsi alla volta del Carobbio. E noi li lasceremo con buona pace di essi e dei lettori ai quali sarà già venuto a noia la compagnia di costoro. Chi poi arricciasse il muso perchè abbiamo speso tante pagine intorno ad un cane e l'abbiamo fatto l'eroe di questo capitolo e diremo quasi di tutto il racconto, la pigli col cronista, dal quale abbiamo cavato il fatto, la pigli coi tempi, colle consuetudini, col suo cattivo umore, se vuole, non già con noi. Se vi penserà a mente riposata, verrà anch'egli nella nostra opinione, che fra tanti personaggi scelti a protagonisti d'un racconto, quello dell'alano di Barnabò non è sarà la peggiore delle creazioni.

 

 

 




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