IV.
Era riuscito
poco dianzi Barnaba con inestinguibile odio del popolo, molto più acerbo e più
crudele di sè stesso, nè la vecchiezza mollificava punto il suo duro e crudele
ingegno; sì come quello che rapace per la povertà, aveva accompagnato il nome
della sua infame avarizia con una terribile crudeltà.
Giovio - Vita di Barnabò
Visconti.
Ora conviene che i
nostri lettori si mettano in sul grave e lascino da parte gli sbadigli,
perocchè la cronaca del canattiere diventa d'un tratto più austera, e per
conseguenza anche il nostro racconto elevasi oltre lo stile ordinario e assume
la dignità di storia. Trattasi nientemeno che di far conoscere ai lettori che
razza d'uomo fosse quel Barnabò, il quale sebbene non abbia propriamente parte
nella nostra istoria, tuttavia esercita sopra ogni più piccolo avvenimento
un'immensa preponderanza, appunto come il destino in una tragedia di Eschilo o
di Sofocle.
Al punto in cui lo
piglia il nostro racconto Barnabò Visconti governava da diecinove anni lo stato
di Milano, partito già in due eguali porzioni tra lui e il fratello Galeazzo.
Uscito per materna origine dalla famiglia dei Doria, donde gli venne il nome di
Barnabò, parve avere da essa ereditato anche l'animo indomito e l'ingegno
guerresco e feroce, imitando in ciò i suoi maggiori Branca, Pagano, Lamba e
Luciano dei Doria, i quali educati fra le battaglie, avevan nome di terribili e
fieri molto. Barnabò poi oltre ad un invitto vigor d'animo, possedeva certa
naturale severità, quasi selvaggia, per lo che ardentemente bramava la guerra,
e in essa tutto si compiaceva. Nè in quei tempi di prepotenza e di barbarie
mancavano le occasioni per esercitarvisi, perchè nè pace ferma nè tregua durava
a lungo tra gente sospettosa e sempre intenta a nuocersi. Fin dal suo primo
salire al governo, egli erasi tirati contro i maneggi degli Estensi, dei
Gonzaghi e del Marchese di Monferrato, i quali avevano indotto Marquardo
Vescovo d'Ausburg, vicario imperiale in Pisa, a citare i due fratelli Visconti
al suo tribunale perchè si discolpassero di molti reati specialmente in fatto
di lesa religione. Ma nè l'uno nè l'altro, come è da credersi, pensarono ad
andarvi, ond'è che il Vicario radunate le forze dei collegati era piombato sul
Milanese, e aveva tolte molte città ai Visconti, e forse insignorivasi di
Milano se non era Lodrisio Visconti che lo mise in rotta a Casorate. Non perciò
gli animi dei principi erano sedati, ma ribollivano più fieri che prima a danno
dei Visconti, e tanto operarono che nei primi quattro anni del loro dominio
perdettero Bologna, Genova, Asti e Pavia, il che non era piccolo detrimento al
Milanese. Se non che Pavia fu presto ricuperata da Galeazzo, il quale
seminatovi il malcontento tra la plebe e i signori col mandarvi certo frate a
predicare la rivolta, ne cacciò il Marchese di Monferrato e se ne rese padrone.
Ma non così facile fu il riavere Bologna, intorno alla quale Barnabò consumò
invano tutte le sue forze e i suoi maneggi. Fu questa in lui non solo malvagia
ambizione, ma odiosissima ostinazione, giacchè per essa ebbe a sostenere in
pochi anni nove guerre sempre rinascenti, a sprecare più che tre milioni d'oro,
e più d'una volta ridursi a un pelo di perdere lo stato. Imperocchè e il papa e
i Fiorentini e tutte le città vicine che non tenevansi sicure dal Visconte
quand'egli fosse stato padrone di Bologna, fecero lega d'interessi e di forze,
e chiamarono in Italia Bretoni ed Inglesi, e gli Spagnuoli capitanati da
Albornocio, e gli Ungheri con Simone, e finalmente l'imperatore Carlo IV. Le
quali lunghissime vicende di guerra non riuscirono nè a danno di Barnabò, nè a
vantaggio dei Collegati, perchè il Duca di Milano rotto non lungi da Bologna a
s. Rafaello, poi di nuovo a Guastalla, non rimise punto della sua ostinazione e
rinfrancossi sempre con nuove genti e con nuovi danari. Anzi uscito vincitore
in una battaglia navale sul Po di sotto a Viadana e difesosi accanitamente a
Borgoforte contro le armi dell'imperatore, tanto operò, che, rotti gli argini
del Po, la corrente traboccò tutta quanta sul territorio Mantovano e vi recò
guasti e danni immensi. Ond'è che stanchi dall'una parte e dall'altra e voti di
danaro, si venne a una pace generale tra il Visconte e i confederati, della
quale fu mediatore Arionisto duca di Baviera, pace piuttosto apparente che
vera, e di brevissima durata. Imperocchè la scomunica lanciata contro Barnabò
da Innocenzo VI, e rinnovata con tanto fervore da Urbano V, memore della bolla
ingojata sul ponte del Lambro, non fu solo cagione di quella specie di
crociata, che abbiam detto, ma ancora di maggiori e più gravi mali a lui e allo
stato. Nè la rinuncia fatta da Barnabò al Papa delle sue pretensioni in Bologna
e sul Modenese, per la quale però ebbe cinquecentomila fiorini d'oro, valse a
chetare neppure per poco lo sdegno della Chiesa, nè la morte istessa di Urbano
V, procurò larghezza e pace al Milanese. Gregorio XI, che salì allora alla sede
pontificale, parve ereditasse da suoi antecessori l'odio profondo contro di
Barnabò, talchè uno de' suoi primi atti fu quello di combinare una lega novella
fra i principi italiani. Se non che veggendo che le armi temporali andavano
troppo a rilento, ebbe ricorso alle armi ecclesiastiche, e scomunicò un'altra
volta Barnabò, e dichiarò i sudditi di lui liberi dal giuramento di fedeltà. Nè
pago di ciò gli mosse contro l'imperatore, il quale con suo diploma dato in
Praga il 3 agosto dell'anno 1372 privò entrambi i fratelli Visconti del
Vicariato imperiale, e Barnabò perfino dell'ordine equestre. L'esercito alleato
piombò anche questa volta sul milanese, e sebbene non giungesse a far presa di
alcuna terra, bastò nullameno a devastare e mettere in rovina gran parte dello
stato.
Ciò quanto agli
avvenimenti politici di quel tempo. Rispetto all'indole del governo ed alla
natura di Barnabò, il cronista ce lo descrive severo nelle cose dello stato,
largo nel soccorrere i cittadini bisognosi e più nel dotare monasteri e
nell'erigerne di nuovi, generoso, ma a tratti e per bizzarria più che per
impulso dell'animo, stranissimo di modi e di appetiti, ostinato e vendicativo
in grado estremo, e spensieratamente crudele. Qual fosse la condizione di
Milano sotto il suo reggimento, è facile ravvisare e dalle vicende guerresche,
e dalle desolazioni della peste, e dalle continue estorsioni, e dalle leggi
nuove per inaudita barbarie. E tuttavia in mezzo alle tribolazioni che
travagliarono il suo dominio, maritò nove figliuole legittime coi più illustri
principi dell'Europa, e due naturali con insigni capitani, spendendo per esse
in doti e corredo più che due milioni di fiorini d'oro. Tutte queste larghezze
e munificenze cadevano sempre a danno de' poveri cittadini, i quali smunti,
taglieggiati, oppressi, avevano di grazia a campar la vita e uscire colle
membra intatte dalle mani del Duca. Imperocchè oltre a quella crudelissima
legge già accennata nel primo capitolo, per la quale si condannavano alle
forche ed avevano i beni confiscati coloro che avevano ucciso o solo mangiato
del cinghiale nel periodo di cinque anni anteriori alla legge stessa, infiniti
altri editti non meno feroci angariavano lo stato. Uno di questi proibiva che
nessun cittadino potesse correre le strade di notte sotto pena del taglio di un
piede; un altro comandava agli ecclesiastici che dovessero inginocchiarsi per
le vie quando avveniva loro d'incontrarlo; un terzo ordinava che nessun prete
potesse allontanarsi dal luogo della sua dimora sotto pena d'essere abbruciato
vivo; un altro proibiva a tutti i cittadini di chiamarsi Guelfi o Ghibellini,
pena il taglio della lingua; un altro ancora stabiliva che nessun giudice
toccasse un quattrino di stipendio, finchè non avesse condannato nel capo un
uccisor di pernici; e così via via. Nè sui soli cittadini sfogavasi la sua
capricciosa ferocia, ma sugli stranieri ben anco e sopra uomini distinti per
autorità e per natali. L'incontro di Barnabò coi legati del Pontefice sul ponte
del Lambro, l'appiccamento di Francesco Fogliano, e il cattivo procedere contro
i ministri dei principi collegati, sono prova di ciò. Questi ultimi essendo
venuti in Milano trattare dell'accordo con Barnabò, non poterono parlargli, ma
dovettero esporre la loro ambasciata davanti un notaio; poi cinti da una
schiera d'armati, e costretti ad indossare una veste bianca in segno
d'ignominia, stettero così per più di due ore davanti al suo palazzo,
abbandonati allo scherno della plebe. Finalmente uscito Barnabò, egli medesimo
si pose a capo della schiera, e, percorse tutte le vie della città in mezzo
agl'insulti della ribaldaglia scortò i due messi fino al confine.
La maggiore e la più
strana delle crudeltà toccò ai cittadini a cagione della straordinaria
tenerezza ch'ei nutriva pei cani. Siccome egli amava singolarmente la caccia,
così teneva gran numero di quegli animali, e parte dava in custodia a'
cittadini facoltosi, parte a' contadini, che ne traevano un giornaliero
stipendio: il restante raccoglievasi in un lato del suo palazzo di s. Giovanni
alla Conca, detto anche oggidì la Casa dei Cani. Fra questi e quelli sommavano
a più di cinquemila. Due volte al mese i canattieri facevano nel palazzo stesso
una rassegna dei cani commessi ai cittadini, alla qual rassegna assisteva
spesso il Duca. Se il cane era dimagrato o ingrassato, colui che lo teneva in
custodia, era multato nelle sostanze: guai chi l'avesse reso inetto alla
caccia, o l'avesse lasciato morire! Donde il terrore grande che aveva
ciascheduno e la soverchia potenza dei canattieri, i quali erano rispettati e
riveriti meglio che giudici o governatori. E n'avevano diritto, perocchè nelle
loro mani stavano le sostanze e le vite di gran numero di persone, e dal loro
giudizio, inappellabile sempre, dipendevano le sorti di quei meschini, cui il
sopruso o la necessità aveva imposto così fatta gravezza. Abbiam detto
necessità, perchè in questa stessa crudeltà era alcun lato buono, siccome
sempre avviene delle cose di questo mondo; e frequente era il caso che un
poveretto ridotto al verde, come già il nostro armajuoio, traesse sussistenza
da questa strana industria. Tant'e tanto l'assegnamento che facevasi a
ciaschedun cane valeva a sfamare qualche galantuomo; e sebbene fosse un
camminare sull'orlo del precipizio, e cacciare, come si dice, da per sè il
collo nel capestro, tuttavia uno poteva anche con siffatta paura campar la
vita. Infine meglio il pericolo del male che il male stesso. Oltredichè il mantenimento
di tutti questi cani, che stavano rinchiusi nel palazzo, parte liberi, parte
assicurati, richiedeva gran consumo di cibo d'ogni fatta, e Dio sa, se per essi
si misurava il mangiare. La città poteva ben ispopolarsi di gente e sfinire per
la peste e per la carestia: nella Casa dei Cani si sbavazzava sempre ed era
abbondanza di tutto. E questo consumo, che in origine era a danno de' cittadini
facoltosi, a cui Barnabò, or con un vezzo or coll'altro, non ristava dallo
smungere danaro, tornava poi a beneficio dei bottegaj e dei rivenduglioli
d'ogni specie, i quali erano fatti sicuri di vendere la roba loro a discreto
patto ed anche con una tal quale larghezza. Dal che venne quel proverbio,
ancora adoperato a' dì nostri dai mercajuoli, i quali ad un'offerta poco
convenevole rispondono: alla ca di can, so dove e da chi pigliar tanto. E ciò
appunto avranno detto i venditori di quei tempi a quelli che invilivano la roba
loro, perocchè eran certi di avere il tal prezzo alla Casa dei Cani.
Nè soltanto in Milano
mantenevasi cotanta turba di cani, ma eziandio nelle altre città che stavano
sotto il dominio di Barnabò. In Parma specialmente ei fece pubblicare un editto
da certo frate Giovanni dell'ordine de' Gaudenti, il quale era officiale de'
suoi cani, e con esso ordinò che tutti i cittadini, i quali avevano l'estimo di
cinquecento lire dovessero ricevere uno de' suoi cani in custodia sotto pena di
dieci fiorini d'oro e di un fiorino d'oro al mese. E quelli che vi si
rifiutarono furono condannati chi nei beni e chi nel capo. Neppure gli
ecclesiastici andarono esenti da queste avanie; anzi sembra da quel che narra
il nostro cronista e da quello che si raccoglie da tutti gli storici, che sopra
di essi accumulasse tutte le oppressioni. Oltre alla taglia di soldi trenta per
ogni lira d'estimo che dovevano sborsare, mercè la quale, non trovando modo a
pagare, moltissimi erano posti in carcere, essi erano più di ogni altro esposti
ai crudeli capricci del Duca che toglieva loro le prebende, li dimetteva dal
loro ministerio, li torturava, li cacciava in bando, e li metteva spesso a
morte. Tra i capi d'accusa accennati nella bolla pontificia del gennajo del
1373 contavansi anche questi, ch'egli avesse invaso gran parte de' beni della
Chiesa, che a suo grado disponesse delle dignità ecclesiastiche, che imponesse
ai preti gravissime taglie, e che gli obbligasse a custodire i suoi cani con
fierissime pene ai contravventori. Più particolarmente poi quella bolla parlava
e dell'abate di s. Barnaba, fatto morire sull'eculeo; e del Primicerio della
Metropolitana Simone da Castiglione, torturato con altri ecclesiastici e
trascinato a coda di cavallo con una mitra di carta sul capo, indi abbruciato a
fuoco lento; e di un frate degli Umiliati di Brera, impiccato cogli abili
monacali; e dell'abate di s. Benedetto, Giovanni Visconti, tagliato a pezzi
insieme a un altro monaco davanti la porta del convento; e di infinite altre
dolcezze di tal fatta.
Quello che rendeva
strano il suo procedere verso i poveri ecclesiastici, erano i benefizii di cui
era largo colle chiese e coi monasteri; ond'è, che da una parte toglieva quello
che voleva donare all'altra. Le sue liberalità verso gli spedali, l'erezione di
nuovi conventi, le donazioni di moltissime terre a favore dei poveri, ai quali
in epoche stabilite faceva distribuire vesti e cibo, le elargizioni alle
chiese, erano una prova del suo carattere naturalmente dispotico e capriccioso.
E veramente ei si dimostrò sempre tale in tutte le circostanze della sua vita
non solo pubblica ma anche familiare. Gli aneddoti narrati nella cronaca
dell'Azario e nella novella del Sacchetti, che riguardano due avventure
toccategli or con uno spaccalegna, or con un mugnajo bastano a farlo chiaro.
Quanto poi alle consuetudini della corte, ei non menava splendida vita,
degenerando in ciò da tutti i suoi antecessori, spezialmente dagli zii Luchino
e Giovanni i quali tenevano corte oltremodo magnifica. Il nostro cronista dice
che Barnabò era economo come una massaja e non dava da mangiare ad alcuno; il
maggior numero de' convitati era di cinque persone, vale a dire, due vicarii e
tre consiglieri, e anche con questi si faceva tavola molto meschina. Per
contrapposto egli era pazzamente largo nell'edificare, perchè oltre all'aver
ampliato e ridotto a guisa di fortezza il suo palazzo di s. Giovanni alla
Conca, aveva edificato due altri castelli, uno a Porta Nuova, del quale si
perdette ogni vestigio, e un altro a Porta Romana che stendevasi dalla basilica
di s. Nazaro fino a quella di s. Stefano, precisamente nel luogo ov'è adesso lo
Spedale Maggiore. Pei quali castelli e per gli altri eretti a Marignano, a
Trezzo, a Brescia e altrove, ei non ispese meno di quattro milioni di fiorini
d'oro. Somma ingentissima a' quei tempi, se si consideri il valor dell'oro che
doveva essere di gran lunga maggiore di quel che sia adesso, e più se si ponga
mente all'entrate annue di Barnabò, le quali tra comuni e straordinarie,
toccavano appena centosessantamila fiorini d'oro. Il qual reddito non che
principesco, ma poco più che da signore privato, fa parere ancora più
straordinaria la ricchezza trovata nei palazzi del Duca quando vennero
saccheggiati dal popolo; perocchè raccontano gli storici che nella sola
fortezza di Porta Romana trovaronsi settecentomila fiorini d'oro, e tanto
argento da caricarne sei carri. Or vedasi donde e da chi potesse egli cavare
tanto tesoro, e come dovessero stare i poveri sudditi a fronte di sì smisurata
ingordigia.
E tuttavia il nostro
cronista afferma, e con lui molti fra i più riputati storici, che Barnabò non
gettava il danaro capricciosamente; che non vendeva i posti, ma davali
gratuitamente a uomini meritevoli, nè quando li trovasse atti, li rimoveva più,
che pagava esattamente e attendeva sempre più delle promesse: che non mancava
di coraggio nè di militare perizia; che era liberale coi poveri, veridico,
amante della giustizia e costante. Soprattuto ch'ei sapeva farsi servire a
puntino; di che saranno persuasi i lettori, i quali hanno già scorto di che
pelo fosse quel principe. Se non che, soggiungono poscia gli storici più
coscienziosi, esso era temerario e tenace della propria opinione, impaziente,
collerico al massimo grado. Negli impeti che spesso lo pigliavano e lo facevano
uscire in ismanie terribili, diveniva crudele a guisa di fiera, e non aveva
rispetto nè ad uomini, nè a Dio, e neppure a sè stesso. In quegli accessi
nessuno osava accostarsi a lui, eccetto la moglie, Regina della Scala, la
quale, tutta dolcezza e soavità di maniere, riusciva quasi sempre a temperare
quella soverchia ira. Un'altra donna, colla quale aveva molta dimestichezza, e
che egli amò assai, valeva pure a infondergli più miti pensieri, e costei fu
Donnina dei Porri, che taluni vollero perfino sua moglie, la sola che abbia
confortato la prigionia e gli ultimi momenti di quell'uomo singolare. A
coronare poi tutta questa litania di vizii aggiungasi la dissolutezza dei
costumi, per la quale la sua casa pareva piuttosto il serraglio d'un sultano
che l'abitazione d'un principe cattolico. Il qual vizio, che è attaccaticcio
più della pece, figuratevi se non doveva pigliar piede nella corte, e far
proseliti tra i cagnotti del Duca. Anzi, come avviene sempre in tali occasioni,
i servi erano più ghiotti e più prepotenti del padrone stesso, il quale, al
dire del nostro cronista, non mai o solo in certi casi adoperava la
violenza. Quali poi fossero questi casi, in cui riputasse lecito il sopruso e
la forza, il cronista non dice, e noi lasciamo indovinare ai lettori.
All'epoca del nostro
racconto, Barnabò aveva di fresco lasciato il suo castello di Marignano, ov'era
stato rintanato tutto il tempo della peste, e da pochi dì trovavasi a Milano,
bramoso di star presente alla mostra che doveva cadere imminente. Erano già dei
mesi assai che egli non vedeva il suo palazzo e perciò era fatto privo dello
spettacolo de' suoi cani; ond'è che gli era nata in corpo una tenerezza, una
smania non mai provata per lo addietro. Perchè, quantunque nel suo ritiro fosse
uscito qualche volta a battere il bosco, non troppo lontano però dal castello,
tuttavia non aveva potuto mai dare sfogo a quella sua immensa passione, e gli
era toccato contentarsi di quelle scorrerie da nulla e della compagnia di pochi
alani che teneva sempre seco. Egli era nel caso di un convalescente, il quale
divorato dalla fame, è costretto per un pajo di mesi a trangugiare brodi e
zuppe, se mai giunge a disfarsi del medico e a sentirsi padrone di sè,
abbandonasi ad una tal corpacciata da saziare un uomo per una settimana. Il
Duca pertanto era capitato in Milano una notte, quatto quatto, che nessuno quasi
se ne accorse, tranne quelli che vegliavano ancora: i quali vedendo un insolito
chiarore e udendo un calpestìo misurato ma silenzioso, che non era nè d'uomini
nè di cavalli, s'addiedero della cosa. Il calpestio veniva infatti dalle zampe
dei cani, i quali addestrati com'erano, seguivano il Duca nelle sue gite, e
procedevano ordinati a due a due senza bisogno di guinzaglio e neppur quasi di
voce per tenerli a dovere; il chiarore poi era quello delle faci portate dai
servi e dai canattieri, dei quali trovavasi uno ogni trenta cani. La mattina
appresso erasi tosto sparsa la nuova della sua venuta, e i cittadini anzichè
rallegrarsi, ne rimasero profondamente addolorati. Tanto più che facevansi già
le inquisizioni di coloro che avevano ucciso o mangiato selvaggina, giusta la
legge del Duca; e la presenza di lui non poteva che accelerare il fatto, e
togliere anche l'ultimo filo di speranza. Quella legge poi, dice il nostro
canattiere, si tiene che fosse stata dettata dal Duca in un momento di
dispetto, allorchè rinchiuso nel suo forte di Marignano, e fallitogli da più
giorni il diletto della caccia, n'ebbe tanto dispiacere, che volle in certa
guisa rovesciarlo sul capo di quelli ch'egli stimava più fortunati di lui,
avendo ucciso lepri o cinghiali. Checchè ne sia, i cittadini viveano in grande
spavento, ed ora che avvicinavasi il dì fissato per la mostra dei cani,
raccomandavansi caldamente al Signore, perchè la mandasse buona a tutti.
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