V.
La
sventura s'avvia
Per le
città frequenti
E di querele
un seguito la scorta,
Tarda
ella muove, e spia
Le case
dei viventi.
Oggi
batte improvvisa a questa porta,
Domani a
quella: nè mortal perdona.
Assidua,
inesorata
Ai
vestiboli appon d'ogni persona
La
funesta chiamata.
Schiller, La sposa di
Messina.
A questo punto il
manoscritto del canattiere manca di due fogli, e salta d'un tratto quello
spazio di tempo che correva tra l'avventura in casa dell'armajuolo e il dì
fissato per la mostra dei cani. Noi preghiamo i lettori a portarsi in pace
questa mancanza e a non volere nessun male ai topi che per avventura avessero
rosicchiato quelle carte. Alla fine la lacuna non è che di due giorni, e non è
d'uopo fantasticare gran fallo per indovinare che cosa sarà accaduto durante
quel tempo. Basti il sapere, e questo la cronaca lo dice, che al finire del
secondo giorno, vale a dire alla vigilia della rassegna, il cane trovavasi in
ottima condizione, e non aveva un pelo sconciato; sicchè erasi convenuto che il
mattino appresso l'armaiuolo sarebbe andato a levarlo per condurlo poscia al
palazzo di Barnabò.
L'alba dei tafàni non istava molto a spuntare,
allorchè in un salotto terreno del palazzo di s. Giovanni alla Conca, che
metteva nel cortile destinato ai cani, sedevano intorno a un gran tavolone di
quercia otto o nove canattieri in atto di veder il fondo a una gran pentola di Pestivino,
camangiare grossolano ma ghiottissimo a que' tempi, composto di castagne peste
cotte nel vino. Il loro vestire più accurato del costume, il berretto piumato, il
coltello a lato, come fossero per uscire a caccia, e soprattutto l'aria più
trista, più burbanzosa dinotavano sentirsi coloro in quel dì alcun che di più
che negli altri; e gli atti energici o trascurati manifestavano chiaramente
l'interno sentimento. I loro visi poi non erano tali da inspirare miglior
confidenza, perocchè oltre la pelle incallita e bruna, e la fronte rugosa o
aggrottata, la lunga barba che ingombrava loro metà della faccia, e a taluni
scendeva fino sul petto, accresceva terrore a quelle fisonomie naturalmente
sinistre. Questo della barba era un costume universale in quel tempo, e tutti
la lasciavano crescere, i soldati specialmente, nel cui numero potevano essere
compresi i canattieri. Essi adunque stavano quale seduto sopra le panche, quale
sdrajato sulla tavola medesima, e di tanto in tanto cacciavano le dita dentro
alla pentola e cavavano una manata di quel bollito, che sgocciolava poi sulle
barbe e sui berretti. Già allora non badavasi tanto per sottile al modo di star
a tavola, e quei birbi poi pensavano, non senza qualche ragione, che se la
natura gli aveva forniti di due buone mani, ciò era per qualche cosa; e in
quella guisa che servivano a sgozzare un cinghiale, ad abbracciare una bella
femmina, a vuotare le case altrui, potevano benissimo tener luogo di cucchiajo
e di forchetta,
- Ohe! sclamò uno di
costoro, dopo aver rimestato buona pezza nella pentola, compari mici, siamo già
al fondo. E a dire che non sono due minuti che vi stiamo intorno. Che santa
Lucia conservi la vista a ciascuno di noi; che quanto all'appetito non c'è
bisogno di ajuto divino.
- Bel modo invero di
saziar questo appetito, soggiunse un altro. Quattro castagne non più grandi di
un pisello, cotte in un vino che, se fosse benedetto, farebbe fuggire il
diavolo.
- Vuoi dire che potrebbe
tener luogo di acqua, neh? ripigliò il primo. Eppure è di quello della cantina
dell'Abate di s. Barnaba, e credo che non lo adoperasse per lavarsi i piedi.
- Che il diavolo se lo
porti, saltò a dire un terzo. S'ei beveva di questo vino, ha meritato di andare
all'inferno. Per me tengo migliore d'assai il pestivino che si fa
dall'Ambrosiolo presso la chiesa di s. Maria Maddalena. Quello sì che è bollito
da leccarsene le dita.
- Via, via, bel garzone,
lo sappiamo che hai una tenerezza particolare per quella bottega e per tutto
quello che c'è dentro. Ma bada a' fatti tuoi, che gli occhi della Gilda ne han
fatto cadere dei più furbi di te.
- Bada tu piuttosto a
districarti dai lacci di quella tua fornaja; bel mobile per mia fè da farle
addietro lo spasimato.
- Da un canto gli
scherzi, amico; tu sai ch'io sono un po' permaloso, sicchè non toccarmi su
questo punto.
- Ih, ih, vedi come
s'infiamma subito, e gli salta la mosca al naso. Ho proprio colto nel segno
adunque? Povero Scortica, sei cotto davvero?
Lo Scortica si fece
rosso in viso e stava per rispondere malamente a quello scherzo, quando uno dei
compagni che non aveva mai aperto bocca, allungò le mani dal posto ove era, e
tolta la pentola davanti ai due che parlavano, se la tirò bravamente sotto il
mento, dicendo:
- Intanto che voi state
a piatire, io vedrò di pescare le ultime castagne qui dentro. E tu, Randellajo,
grida pure la croce addosso alle fornaje, già tu fosti sempre più amico del
vino che della pagnotta; nè ti biasimo per ciò. Ma in fin dei conti il pane è
pane, e il vino è vino, e coll'uno e coll'altro noi ce la sbavazziamo in barba
della peste e della carestia.
Col favor
di san Giovanni,
La
mattana non ci punge,
Ogni
sorta di malanni
Ci
salutano da lunge,
Sempre brilli,
sempre in festa
La malìa
non ci molesta.
- Bravo Graffiapelle,
bravo, la canzone! la canzone! gridarono tutti in coro.
- Sapete voi, disse
questi, che il Medicina vi ha aggiunti due o tre rispetti circa la faccenda
dell'altro dì? Già m'ha sempre avuto ciera di capo strambo, ma da far canzoni
poi... Bisogna dire che quegli occhi cavati, e quei cento capestri l'abbiano
fatto andare in visibilio. Basta; udrete.
- Suvvia, a te, intuona,
che ti verremo appresso.
- Ancora due bocconi, e
mi sbrigo. Maladetti quei cani, questa mattina, fanno un guaire, uno strepitare
che par che voglia subissare il palazzo. Basta, farem conto che sia
l'accompagnamento del mandolino.
Ciò detto, spinse
lontano la pentola, si asciugò la bocca col rovescio della mano, e alzatosi in
piedi colmò prima il bicchiere, il qual atto fu imitato da tutti i compagni;
poi alzatolo fino al livello degli occhi, lo guardò alquanto con un sorriso suo
particolare, e disse;
- Proprio di quel che
brilla, e che si cambia in sangue. Benedetta la cantina del Duca.
E trangugiatolo d'un
fiato, depose lentamente il bicchiere sulla tavola, poi strette le labbra, le
fè scoppiettare come si farebbe per un bacio, ma con un suono più risoluto e
più tenace, con quel suono che esce proprio dallo stomaco soddisfatto. Dopo il
qual atto intuonò la prima strofa, la quale doveva essere ripetuta in coro da
tutti.
Ringhia,
latra, fa baccano,
Nobil
razza di mastino,
Ogni muso
di cristiano
Tiri
dritto il suo cammino,
E in udir
la nostra voce
Faccia il
segno della croce.
- Bravo, Graffiapelle,
gridò lo Scortica; m'hai preso certo tuono di voce, che mi sembri un canonico.
Presto ti porremo indosso il piviale. A noi, ragazzi.
E tutti insieme
ripeterono la cadenza compresa negli ultimi due versi.
- Tocca a te,
Randellajo, disse allora il primo che aveva intuonato.
- Eccomi, eccomi.
Mercè i
cani e la moria
Noi
vaghiamo a nostro grado
Solitarj
per la via,
Sempre
pronti a trarre il dato,
E ci
guatan con rispetto
Il
cappuccio e il corsaletto.
E tutti in coro
E ci guatan
con rispetto
Il
cappuccio e il corsaletto.
Ora a me, disse lo
Scortica, e colmatosi lestamente un bicchiere infino all'orlo, lo votò d'un
fiato, e gridò con voce stentorea:
Col favor
di san Giovanni
La
mattana non ci punge,
Ogni
sorta di malanni
Ci
salutano da lunge,
Sempre
brilli, sempre in festa
La malìa
non ci molesta.
Questa volta il coro non
si tenne pago della cadenza, ma volle ripetere l'intera strofa, con un baccano
che ne tremarono le vôlte della camera. Intanto un altro era sorto e incominciava:
Se
vegliam spesso le notti.
Ma Graffiapelle gli
troncò la canzone in gola, e accennò colla mano che voleva parlare.
- Un momento, bel
garzone, i nostri palati sono già arsi come bragie, si sospenda per un istante
la canzone e si faccia un brindisi in onore di s. Giovanni.
- Viva s. Giovanni, viva
il nostro protettore, gridarono tutti, empiendo i bicchieri e tracannandoli.
- Ora, Sciancato, puoi
tirare innanzi.
Lo Sciancato non se lo
fece dire due volte, e ripigliò:
Se
vegliam spesso le notti
Invocando
san Nicola,
Se un
visin, ma di quei ghiotti,
Ci fa
scorrer l'acqua in gola,
Il
vegliare almen ci frutta,
Nè
restiamo a bocca asciutta.
E il coro
Il
vegliare almen ci frutta,
Nè
restiamo a bocca asciutta.
In quel
punto una voce sconosciuta che partiva dal cortile e s'avanzava alla volta del
salotto, udissi cantare:
Se alle
nostre oneste voglie
È
d'ostacolo un marito,
O il
pudor di sciocca moglie,
Cui non
piace un muso ardito,
Colla
corda e col danaro
Li
facciam tacer del paro.
E intanto che gli altri
ripetevano:
Colla
corda e col danaro
Li
facciam tacer del paro,
un uomo vestito nella
stessa guisa che i canattieri, grosso e tarchiato della persona, e con un viso
ricagnato da far paura, entrò nel salotto e prese posto nel crocchio.
- Sei giunto in tempo,
Scannapecore, disse Graffiapelle, colmati una mezzina chè l'hai meritata.
Quella canzone udita da lontano ha prodotto un effetto straordinario. E poi
l'hai cantata con un gusto, con un fare così saporito, che valeva un tesoro.
Di' un po', sarebbe forse vero che quelle parole quadrassero a' casi tuoi?
- Eh, baje, rispose lo
Scannapecore, sedendo con quell'aria soddisfatta di chi si è assicurato il
giuoco.
- Eppure, ripigliò
l'altro, ho udito certe voci intorno alla Cilia. Basta, hai un osso duro a
rosicchiare, perchè Stefano l'armajuolo non è un baggeo da pigliarsi a scherzo,
come tanti altri, ed anche la Cilia è una testolina. Ma di' un po', è dessa
ancora quella bella creatura di sette anni fa?
- Capperi, non iscatta
un pelo, rispose lo Scortica. L'ho veduta due settimane fa, ch'ell'era scesa in
bottega per non so che, e vi so dire che è un boccone da principe. Non ha mica
cattivo occhio qui il nostro Scannapecore.
- Orsù, pigliò a dire
costui, tiriamo innanzi la canzone, e lasciamo stare le femmine nella loro
malora.
- Ohe, disse il
Graffiapelle, a udirti te, non mi sembri molto innanzi nelle buone grazie di
quella ritrosetta. Ho paura che tu debba fare un buco nell'acqua. La sarebbe
pur bella! Lo Scannapecore imbietolito e scornato per soprappiù.
- Adagio, carino,
adagio, rispose lo Scannapecore un po' imbronciato. Io sono innanzi e non sono:
infine, che cosa ti fa a te? In ogni caso non sarà mai detto che uno, o maschio
o femmina, abbia scornato lo Scannapecore. Quanto alla moglie dell'armajuolo,
la è un'altra cosa, e non passeranno due dì che vedrete come si vincono le
femmine.
- Che sì, che ti
cascherà in braccio, neh? disse lo Scortica, oppure, piglierà a pigione il
palazzo del Duca per venire ad abitare con te?
- Chi sa che non accada
anche questo, disse lo Scannapecore con un sogghigno che nulla aveva di buono.
Se ne son vedute tante! Ma infine questa non è cosa vostra, e a cui tocca, la
sbrighi. Ora beviamo, innanzi che arrivi il Duca, e teniamci pronti alla
mostra. Quest'oggi ne vogliamo veder di nuove.
- Alla sua salute, gridò
lo Sciancato colmando la mezzina:, ora udiamo i nuovi rispetti del Medicina. A
te Graffiapelle; ohe, a che stai guardando nel fondo della mezzina? sei forse
divenuto astrologo, tu? la sarebbe bella, davvero.
- Eh, chi sa! La mia
stella, come dice il Medicina, non è lassù nel firmamento, ma sta in fondo agli
orciuoli. Qualche dì col gran votarne verrò a capo di scoprirla; e allora,
allora vedrete chi è Graffiapelle.
- Bada piuttosto, saltò
a dire lo Scortica, che questa tua stella non abbia a entrarti nel ventre,
senza che tu te ne accorga.
- In tal caso, rispose
Graffiapelle, potete star certi ch'essa tramonterà con me.
- Orsù, la canzone,
gridò Scannapecore.
- Eccola, eccola.
Chi del
pan non si tien pago,
Ma tirato
per la gola
O coi
cani o collo spago
Tende
insidie a una bestiola,
Badi ben,
chè un certo laccio
Lo torrà
d'ogni altro impaccio.
- Bravo Giaffiapelle,
gridarono tutti quand'ebbe finito, evviva il Medicina, ei scrive rispetti,
meglio che il Bescapè.
- Cheti, figliuoli,
disse lo Scannapecore, odo rumore sotto l'androne, che sia già venuto il Duca?
- Sì per Dio, sclamò lo
Sciancato, ho sentito il picchio delle alabarde che posavano a terra. Suvvia, presto,
nascondiamo le mezzine e la pentola, e poniamci al nostro posto. Di ragione
qualcuno l'avrà veduto entrare, e sebbene non sia l'ora assegnata, poco
staranno a capitare i cittadini.
Ciò detto alzaronsi
tutti, e sbarazzata la tavola, quatti quatti, chi da una parte chi dall'altra
se la svignarono nel cortile. Il Duca intanto aveva oltrepassato l'androne, ed
era giunto proprio nel mezzo del primo cortile: con lui erano i due figliuoli
Rodolfo e Lodovico, e dietro una scorta non troppo numerosa di alabardieri.
Barnabò Visconti era alto della persona e vigoroso d'aspetto, quantunque avesse
già oltrepassato i confini della virilità, contando a quell'epoca 55 anni. Il
suo portamento era grave e risoluto, rozzi e duri i lineamenti, ma la fisonomia
presentava una mistura di ferocia e di bonomia, che facilmente traeva in
inganno. L'occhio però fisso e quasi impietrito nell'orbita manifestava il
carattere strano e caparbio, di cui diè sì aperte prove. Indossava un robone di
velluto violaceo foderato di ermellino e sormontato da un cappuccio che
coprivagli quasi sempre il capo: disotto aveva il giaco di ferro, precauzione
necessaria anche a un principe così temuto. Sulla fronte calva e rugosa
vedevasi una ciocca di capelli grigi che sfuggiva di sotto al cappuccio, solo
ornamento del capo, se ne eccettui una barba lunghissima e bipartita sul mento,
siccome voleva il costume di que' tempi. Il qual costume venne poco dopo
distrutto dai francesi che diffusero in Italia il gusto dei visi pelati, come
vediamo dipinti i successori di Barnabò. Il che prova che la superiorità della
Francia in fatto di mode non è cosa moderna, ma data da tempi antichissimi.
Ora, poichè Barnabò fu
giunto nel mezzo del cortile, si trattenne alquanto, e guardossi attorno in
atto d'uomo che vuol riconoscere il luogo ove si trova; appunto come un
ammalato che esce per la prima volta all'aperto e guarda le vie già da lui
battute quasi fossero una cosa nuova. Poscia rivoltosi a Rodolfo che gli stava
alla destra, gli disse:
- Per s. Ambrogio, non
mi par vero di trovarmi qui a quest'ora nel mio palazzo di s. Giovanni alla
Conca. In verità io teneva per fermo di non uscire dal mio forte di Marignano
che al dì del giudizio, quando il diavolo avrebbe fatto risuonare a' miei
orecchi la sua tromba infuocata. Maladetta questa peste! Pareva che non la
ristasse più. Sai tu, Rodolfo, ch'ella ha spazzato Milano, come una campagna
dopo la messe? È questa la prima volta ch'io percorro le vie, dachè sono qui, e
non volli neppur passare per la loggia, a bella posta per vedere in viso questa
moltitudine che mi corre dietro ogni volta che esco all'aperto. Ma altro che
moltitudine! Quattro gatti scorticati, mogi mogi, e con un viso da castagna
cotta che mettono paura. Povero il mio paese!
- E per soprappiù,
rispose Rodolfo, la carestia vi passeggia a tutto agio, e finisce di guastare
ogni cosa.
- Quanto ai poveri,
soggiunse Barnabò avviandosi alla volta del salotto, ci ho già pensato, ed ho
ordinato che si distribuissero frumento e vino in buona copia, oltre le solite
limosine che si fanno nello spedale di s. Lazaro dell'arco Romano, in quello di
s. Giacomo, e in quello di s. Pietro e Paolo de' Pellegrini. Quello che mi sta
a cuore è la mancanza di braccia in questo momento che tanto mi gioverebbero.
Basta: i beni confiscati a quei ribaldi che osarono cacciare sul mio, mi
daranno ajuto a chiamare qualche banda forestiera. Per ora già non c'è speranza
di rappacificarsi con Gregorio XI. Potessi almeno indurlo ad accettare una
tregua!
Così favellando il Duca
aveva oltrepassato il salotto, ed aveva posto piede nel secondo cortile,
destinato ai cani. Gli alabardieri sfilarono all'ingiro lungo le pareti, e
intorno al Duca non rimasero che i due figliuoli con sei lancie e pochi
famigliari. Quel cortile era bello e spazioso e pareva fatto a bella posta per
una rassegna: esso era stato fabbricato nei primi tempi del governo di Barnabò,
allorchè entratagli in corpo quella matta smania di fabbricare, ampliò e
costrusse con ingente spesa il palazzo. Il qual palazzo era stato in origine eretto
da Luchino Visconti, ed era situato allo sbocco della contrada, detta anche
oggidì di s. Giovanni alla Conca, là dove all'aprirsi del Corso di P. Romana
incrociansi la via dei Moroni col vicolo della Maddalena. Esso abbracciava
tutto quel tratto di case che dall'angolo dei Moroni corre fino alla piazza
della chiesa, ora soppressa, e la cui facciata, comechè meschina, presenta il
più bel tipo che abbia Milano della gotica architettura. Barnabò inoltre aveva
aggiunto a quel palazzo alcuni muri forti, guerniti di merli, alti venticinque
braccia, talchè aveva piuttosto l'aspetto di castello che di abitazione
principesca. Da questo palazzo, fino dai tempi di Luciano, correva una loggia
chiusa, che soprastava alle case e metteva dritto nella sua corte posta vicino
al Duomo, dov'è adesso la residenza vicereale: e Barnabò, che non aveva più che
Luchino tenerezza di comparire in pubblico, ne aveva fatto costruire un'altra
del pari coperta, che a guisa di ponte tragittava di là alla sua fortezza di P.
Romana. Il nome di Casa dei Cani, attribuito allora a quel luogo, durò fino a
nostri dì nella bocca del popolo, ed anche adesso avviene di udirlo qualche
volta così denominato. Che poi questo titolo fosse tutt'altro che grato alle
orecchie dei milanesi, non è d'uopo che lo diciamo. Chi dei nostri lettori l'ha
udito pronunciare da qualche vecchio con quel tuono misterioso e con quelle
scrollatine di capo così significanti, potrà far ragione del brivido che avrà
messo ai nostri progenitori di buona memoria.
All'intorno del cortile
si aprivano i casotti e gli steccati, dentro i quali chiudevansi i cani, ed
eranvi assicurati o co' guinzagli o colle musoliere: più addentro erano le
stanze destinate alle razze, ed agli alani più pregiati. Gli altri vagavano
liberamente pel cortile, e addestrati, com'erano, bastava un cenno, un'occhiata
dei canattieri per tenerli in freno. Tutti insieme poi, specialmente nell'ora
del cibo, facevano una maladetta armonia di guaiti, di latrati, di abbaiamenti,
che era una dolcezza ad udirli. E questa era musica ineffabile per le orecchie
del Duca.
I canattieri al primo
apparire di Barnabò eransi tirati in disparte, e col berretto in mano parevano
attendere rispettosamente i suoi cenni. A vederli adesso umili e inchinati
dinanzi a un'autorità maggiore della loro, un filosofo, se a' que' tempi ne
fossero esistiti, avrebbe avuto campo di sciorinare un bel sermone sul nulla
delle umane presunzioni. Ma il nostro cronista, che era canattiere pur esso,
sebbene men ribaldo degli altri, era tanto valente in filosofia come lo
speziale nel far tegole, sicchè si tenne pago al semplice mestiere di
narratore, e ce li descrisse in questo atto e nulla più. Il Duca avanzossi
lentamente alla volta di essi, e si diè a sguardare all'ingiro, a carezzare
qualche cane di quei che vagavano nel cortile, a volgere domande sopra domande
ai canattieri, intanto che costoro aprivano i cancelli, gli usci, e traevano
pel guinzaglio o l'uno o l'altro dei cani favoriti.
- Veda la signoria
vostra, diceva lo Scannapecore, il quale siccome il più innanzi nella grazia
del principe, pigliava sempre la parola per tutti, veda come sono nutriti e
addestrati questi cani; è proprio una consolazione il vederli. Osservi questi
due alani, che la signoria vostra mi diè in particolare custodia; come son
lucidi e snelli, che rubano gli occhi.
- È vero: due goccie
d'acqua che valgono un tesoro. E quello sciocco di abate quasi me li aveva
fatti stizzire. Buon per lui che il suo mugnajo lo fe' salvo dei quattro
fiorini e della pelle per giunta, se no voleva alloggiarlo per un dì con un
pajo di mastini perchè imparasse di che guisa van trattati i cani.
- Sarebbe pur stato un
bello spettacolo. Un abate colla musoliera e col guinzaglio, disse lo
Scannapecore.
- L'han provato Giovanni
Sordo e Antoniolo da Terzago, e ti so dire che hanno avuto agio a pentirsene.
Ma in fine l'ora della mostra parmi arrivata. Perchè non son qui quei gaglioffi
coi loro cani? Suvvia, fatte che entrino, e vediamo se avvi qualcheduno, cui
faccia gola una gabbia di ferro e la compagnia d'un cinghiale affamato.
- In quel punto, dato il
segnale, una turba di persone d'ogni età e d'ogni professione entrò
tumultuosamente nel cortile, guidando i cani raccomandati a cordicelle di filo,
e non si contenne che quando fu alla presenza del Duca. I canattieri senza
attendere alcun cenno si gettarono sopra i cani, e dopo averli minutamente
esaminati, se erano giudicati in istatu quo, li lasciavano andare
insieme con chi li custodiva; quando avevano qualche appiglio, segnavano il
nome di chi l'aveva condotto, e quegli era costretto a pagare la multa
stabilita. Quando poi, il che avveniva più delle volte, il povero multato non
aveva nè danari nè roba da soddisfare l'imposta, allora il Duca lo faceva
metter prigione, lo torturava in cento guise, e spesso lo faceva o appiccare o
gettare al fuoco.
- Questo cane, gridò lo
Scannapecore volgendosi al Duca, ha gli occhi rossi e cisposi ed è dimagrato di
un buon terzo.
- A chi fu dato in
custodia?
- A Bernardino Brivio,
lanajuolo.
- Ebbene, ei pagherà due
fiorini d'oro.
- Oimè, prese a dire
singhiozzando il povero lanajuolo, per pagare i due fiorini dovrò chiuder
bottega e andare mendicando per le strade.
- Taci là, balordo,
impara ad avere miglior cura dei cani; soprattutto bada a non lasciarti
cogliere un'altra volta, perchè non te la caveresti così a buon patto.
Ringrazia la bontà del Duca e vatti con Dio.
- Ehi, ehi, un momento,
sclamava lo Sciancato ad un ecclesiastico che era sulle mosse, a vederlo andare
in volta quel cane mi ha una cera da poltrone che consola. Già voi altri preti
nuotate sempre nel ben di Dio, e questo cane fu pasciuto con tutta la lautezza
d'un abate. Che il diavolo mi porti se questo è atto a dare una scrollatina ad
una lepre.
- Che? saltò a dire il
Duca, un cane ingrassato in tempo di carestia? Ma quest'è un miracolo: bisogna
dire che il corvo del profeta Elia ti porti il cibo ogni giorno. In tal caso tu
puoi pagare, senza sconciarti, quattro fiorini d'oro.
- Messer Duca,
supplicava l'ecclesiastico.
Ma il Duca erasi volto
da un altro lato e non badava alle parole di lui: sicchè gli fu forza pigliarsi
il suo cane con sè e tra il dolente e lo sdegnoso tornarsene a casa.
- Deh! messer principe,
sclamava un fanciullo di forse tredici anni inginocchiandosi davanti a Barnabò,
abbiate compassione di me e della mia povera mamma. Son due giorni che non
mangiamo, e a casa ho quattro altri fratellini che piangono. Al prestino dei
Rosti ci han dato una volta un po' di pane a credenza: e ora non ce ne vogliono
dar più. Che colpa abbiamo noi se non c'è da mangiare? E sì che il primo
boccone era sempre per il cane. Anche jeri c'era un po' di crosta avanzata da
tre dì, e il piccino la voleva per lui e singhiozzava; ma la mamma la fece
ammollire nell'acqua e la porse al cane. Oh! messer Duca, abbiate pietà di noi.
- Finiscila,
storditello; a udir voi con que' vostri eterni lamenti, sembra che ogni dì
siate lì per tirar le cuoja. So ben io di che piede zoppicano i miei cittadini,
e so dar la giusta misura alle loro parole. Diavolo! forsecchè non avete all'epoca
fissata le vostre buone lire imperiali in mercede del cane mantenuto? E queste
non bastano a dar cibo ad un cane e a dieci furfantelli tuoi pari?
- Ah, mio buon signore!
seguitava a dire il fanciullo sempre lagrimando, in altri tempi sì, c'era, non
da sbavazzarla, ma stando a pane ed aglio, da camparla mediocremente. Ma ora
che i forni sono quasi tutti chiusi, che la roba costa dieci volte tanto, e
fortuna a trovarne, bisogna proprio cucirsi la bocca, e anche questo non basta.
- Via, via, per questa volta
non pagherai che un fiorino d'oro, ma bada di non cadervi più.
- Oimè, gridava più
forte il fanciullo, se non abbiamo un quattrino a cavarci la pelle di dosso!
- Allora avrai un
pezzetto di lingua tagliata, disse il Duca, e non ti starà male perchè adesso è
lunga oltre il dovere.
- Oimè, tapino, e la mia
povera mamma, e il mio Ambrosiolo, e la mia Agnesina, e...
Ma il pianto gli soffocò
le parole in gola, e lo fe' rimanere come stordito sul suolo: tanto che uno dei
canattieri che gli si trovava vicino, vedendo che non se n'andava, gli dette un
urto con un piede che lo fe' rotolare d'un tratto fino nel salotto. Ed ivi
rimase alcun tempo quasi fuor di sè, e forse rimaneva fino al finir della
mostra, se uno dei cittadini che se la svignava col suo cane, mosso a
compassione, non l'avesse sollevato da terra e trascinato fuori all'aperto con
lui. Da lì a poco rinvenuto, ricovrò forza bastante da ridursi a casa, dove
trovò la madre che lo aspettava inginocchiata davanti un'imagine della Madonna.
Lasciamo figurar al lettori lo spasima e l'agonia di quella meschina nell'udire
così triste novelle, e nel vedere il figliuol suo spaurito e malconcio in
quella guisa.
Intanto la rassegna era
pressochè terminata: poche persone rimanevano ancora nel cortile, e quelle poche
furono sbrigate nella stessa maniera degli altri. Ultimo affatto venne un
canonico di s. Stefano, grasso e rubicondo che pareva avesse a gabbo tutti i
contagi e tutte le carestie della terra. Egli sbuffava e dimenavasi irrequieto
perchè Graffiapelle, il quale aveva il suo cane tra le mani, non rifiniva di
visitarlo pelo per pelo, e scrollava il capo in aria di malcontento. Finalmente
non potendo più contenersi, si abbassò all'orecchio del canattiere, e con una
occhiata d'intelligenza, gli disse:
- Ehi! Graffiapelle, se
mi sbrigate alla buon'ora, c'è un tal pizzico di terzuoli che chiedono di
entrare nella vostra tasca.
Graffiapelle a quelle
parole alzò il capo con un certo sogghigno tra il beffardo e il soddisfatto: ma
si fe' tosto serio in viso e assunse il fare d'uomo oltraggiato nella sua
dignità, quando vide a canto al suo il viso del Duca, e l'udì esclamare:
- Vivaddio! tu semini
terzuoli come se fossero ceci. Ebbene, canonico mio, vedremo se saprai fare
altrettanto coi fiorini d'oro. Comincerai dal pagarne una dozzina.
Il canonico inchinossi
tutto mortificato e fe' l'atto d'andarsene. Ma il Duca non pareva soddisfatto,
e proseguiva:
- Eh! bisogna dire che
la tua prebenda sia molto lauta, perchè ti fa diventar grasso anche quando gli
altri dimagrano. Tu sei di quelli di s. Stefano, non è vero?
- Sì, messer Duca,
rispose il canonico.
- Orsù, domani sloggerai
dal tuo posto, perchè ne ho d'uopo per alcun altro: mi hai inteso?
- Osservi, messer Duca,
che chi m'ha nominato a tal posto fu l'Arcivescovo, e da lui solo dipende....
- Sozzo cane! gridò
Barnabò andandogli contro, devo io imparare da te chi sono e che cosa posso
fare? Ti sei dimenticato dell'editto che risguardava voi altri ecclesiastici?
Orsù, inginocchiati ribaldo: perocchè qui son'io il solo Arcivescovo, il solo
Papa, il solo Signore.
Il povero canonico,
tutto spaurito, ebbe di grazia a inginocchiarsi finchè piacque al Duca di
rimanergli davanti: poi alzatosi, se n'andò piangendo in cuor suo la grassa
prebenda che gli sfuggiva di mano.
- Ora, la mostra sembra
finita, disse il Duca in atto di partire, non è mancato nessuno di quei che
dovevano condur cani?
I canattieri rimasero
zitti senza trar fiato: ma lo Scannapecore si fece innanzi, e disse:
- Messer Duca, n'è
mancato uno.
- E chi è costui? chiese
Barnabò,
- Stefano Baggis
armajuolo, il quale ha in custodia un alano dei più belli.
- Sai tu perchè non sia
venuto?
- Credo che sì. A quanto
ne udii dire, dev'essergli morto il cane.
- Maladetto! Non sanno
aver cura d'un animale, che alla fin dei conti torna a loro vantaggio.
- Con permissione
dell'eccellenza vostra, non fu già per difetto di cura che venne a morte quel
mastino. Dicesi che l'armajuolo l'abbia ucciso.
- Ucciso, hai detto? E
si ardisce qui, nella mia città, quando vi sono io, si ardisce di uccidere un
cane? Scannapecore, piglia tosto con te quattro alabardieri e fa che prima di
sera sia condotto qui quest'armajuolo con tutta la sua famiglia, se ne ha.
- Messer Duca, sarete
ubbidito, rispose lo Scannapecore inchinandosi.
Poi voltosi a' suoi
compagni, intanto che il Duca usciva:
- Avete udito? disse con
aria di trionfo, e tu, Scortica, che dicevi celiando che la sarebbe venuta a
star qui: ti pare ch'io sappia fare i fatti miei?
- Ma che? ma come? - Se il
cane c'era? In che modo è avvenuto? - Di' sù, compare, gridavano tutti. Ma lo
Scannapecore, fatto cenno agli alabardieri, e pigliato seco Graffiapelle, uscì
in fretta, lasciando gli altri a fantasticare sull'avvenuto.
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