Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Carlo Tenca
La cà dei cani

IntraText CT - Lettura del testo

  • VII
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

VII.

 

Per entro al bosco un monistero è sito

A cui sorge nel mezzo una chiesuola;

Quivi l'uom si raccoglie e sbaldanzito

Chiede il conforto di una pia parola,

E spera, e prega, e compie il santo rito,

E nell'alta quiete si consola;

Qui piange assorto nelle idee più meste

Ma d'un pianto dolcissimo, celeste.

Poema inedito.

 

In sulla sera dello stesso giorno l'armaiuolo era seduto in casa di Franciscolo coi gomiti appoggiati ad una tavola di quercia e col capo tra le mani. Egli era pallido, abbattuto, ma sul suo viso leggevasi ancora più l'ira e il dispetto che non il dolore. Il povero uomo non sapea darsi pace della scomparsa del cane, e andava fantasticando tra e fabbricando castelli all'aria, tanto più che le parole di Martino e l'aver veduto lo stesso Scannapecore far da sgherro alla sua Cecilia, gli avevano messi certi sospetti per la mente a tutt'altro atti che ad acchetarlo. Franciscolo lo andava guardando con aspetto di amorosa compassione, e taceva purchè quando il dolore è sì forte ed intenso le parole irritano anzichè consolare. Sulle prime s'era provato a fargli entrare un po' di speranza nell'animo; ma siccome neppur egli ne aveva, così i suoi tentativi riuscirono vani, ed egli dovette accontentarsi a pigliar parte all'angoscia di Stefano e piangere con lui. Il che aveva contribuito meglio che ogni altra cosa a sollevare il cuore di quell'afflitto, e a toglierlo alquanto dai funesti pensieri che l'agitavano. Ora Franciscolo gli si era avvicinato, e vedutolo immobile e quasi istupidito, gli faceva dolce violenza e prendevagli una mano tra le sue stringendola con affettuosa commozione. Stefano vinto da quell'atto, alzò un istante gli occhi sull'amico, poi preso da un'insolita tenerezza, gli si abbandonò tutto fra le braccia, e si diè a singhiozzare come un fanciullo. Non mai come allora gli era parsadolce l'amicizia di Franciscolo; lo stesso Franciscolo aveva mai sognato di volere un sì gran bene a Stefano; tant'è vero che anche cinque secoli addietro senza tante sdolcinature filosofiche sapevasi per pratica che il dolore santifica l'affetto. La qual massima antica come il mondo, si volle vender per nuova a' nostri tempi, e fu presa a pigione dai moderni novellieri che ne fecero un immenso sciupio.

In quel mentre udissi un rumor di passi frettolosi, poi un bussar sommesso all'uscio. Franciscolo corse ad aprire, ma prima di alzare il saliscendi spiò dal buco della chiave chi stava di fuori, e non contento ancora domandò con voce trattenuta.

- Sei tu, Martino?

- Sì, son io, messer Franciscolo, aprite tosto.

Infatti appena l'uscio fu aperto, Martino entrò tutto trafelante nella stanza e gettandosi sopra una scrana, disse:

- Messer Stefano, il tiro è fatto, cioè non manca che il coraggio. Quel balordo di Graffiapelle, che stava in bottega a guardia delle armature, m'ha impedito di entrare a visitar la casa, e forse avrei dovuto tornarne senza un costrutto, se quel ghiottone, preso forse dal vino o dalla noja, non si fosse addormentato sopra una panca. Però non mi arrischiai ad entrare in bottega, perchè se per caso si fosse svegliato e m'avesse trovato , Dio sa che rumore faceva. Forse sarei stato costretto per farlo tacere a ricorrergli un poco il groppone, e a dirvi il vero, non ho troppa voglia di tirarmi addosso qualche malanno. Son già entrato in un brutto affare, mi piacerebbe cadere in un peggiore.

- Orsù, che hai fatto adunque? chiese l'armajuolo ansiosamente.

- Che ho fatto? Il muro della casa non è tanto liscio che non vi si possa appoggiare un piede, e poi la finestra è così bassa, che l'entrarvi è una faccenda da nulla. Perchè quanto all'arrampicarmi, sarei capace di dare la scalata alla torre di s. Goliardo. Adunque saltai la finestra, che era aperta, e cheto cheto sulla punta dei piedi frugai così all'oscuro ogni angolo della casa, e chiamai più volte sommessamente: Marco, Marco. Ma oibò, nessuno rispondeva. Solo quando fui nella seconda camera, quella che guarda nel cortiletto, parvermi d'udire un gemito, ma debole e lontano, quasi partisse da luogo chiuso. Allora pensai che il fanciullo doveva essere nascosto in quell'andito del cortiletto, ove siete solito chiudere le ciarpe da gettarsi ai ferravecchi; ma poichè per toccare quel luogo, bisogna passar dalla bottega, così me ne tornai quatto quatto come prima, mi lasciai sdrucciolare dallo sporto senza che ombra d'uomo mi scorgesse, e corsi qui ad avvertirvi della cosa. Ora bisogna farsi cuore e tentare un colpo un po' ardito, ma che, spero in Dio, riuscirà a buon fine. Però spicciatevi, messer Stefano, prima che il vino abbia terminato di fare il suo uffizio in quello stordito. Per via vi dirò che cosa dobbiamo fare.

L'armajuolo si alzò da sedere, si pose il berretto sul capo, e con una mano frugò nel seno di sotto l'abito per cercarvi uno stiletto che da tre giorni in poi portava sempre con . Rassicuratosi, fe' l'atto di andarsene, ma prima voltosi a Franciscolo gli strinse la mano, dicendo:

- Iddio ti compensi del bene che m'hai fatto quest'oggi, e ad entrambi faccia la grazia di trovarci in condizioni migliori. Se mai ricupererò il fanciullo, come spero, stassera andrò a rifuggirmi nel convento degli Umiliati presso il padre Teodoro, e poi chi sa... forse dovrò uscire di questo paese. Che se mai cadessi nelle unghie del Duca, o dovessi lasciar la pelle con que' birbi che vorrei spacciare tutti da questo mondo; allora, ricordati di me, e di' un po' di bene per l'anima mia.

Franciscolo non potè rispondere, tanto aveva il cuor gonfio, ma gli strinse la mano fortemente e sentì inumidirsi gli occhi. Anche Stefano ripassò col rovescio della mano sopra la guancia per asciugare una lagrima che gli sgocciolava sul mento. Finalmente staccatisi, Stefano uscì sulla via insieme con Martino, e stretti a colloquio, s'avviarono di conserva alla volta degli Spadari.

Quando furono arrivati sull'angolo a un passo dalla bottega, Martino trattenne Stefano e avanzossi solo, piano piano, che pareva camminasse sulle uova. tese l'orecchio, e udito che il canattiere russava tuttavia, pose in mano a Stefano un grosso ciottolo da lui raccolto per via, e in due salti, lesto lesto, fu sul davanzale della finestra. La notte era già alquanto innoltrata e per le contrade era un bujo, un silenzio da cimitero. L'armajuolo quando gli parve il tempo opportuno, si recò cautamente sul davanti della bottega, v'innoltrò il capo e tutto il braccio destro, e gettò in alto il ciottolo, il quale venne a cadere sopra un'intera armatura: e staccatala dalla parete la rovesciò sopra altre due con immenso fracasso.

Graffiapelle svegliossi di soprassalto a quel rumore, e credette sulle prime che gli rovinassero addosso le case. Spalancò gli occhi, e non ben sicuro del luogo ove trovavasi, si diè a gridare:

- Chi è ?

In quel punto un nuovo e più strano rumore come se rovinasse la soffitta si fece udire di sopra; talchè il canattiere, ripigliati un cotal po' i sensi, si diè brancolando a cercare le armi che gli erano cadute, e posta la mano sopra il suo coltello da caccia, lo brandì in atto formidabile, gridando più sicuro di prima.

- Chi è ?

Ma niuno gli rispose, e solo dopo un istante di silenzio udissi un urlo prolungato, poscia uno strepito come di gente che s'arrabattasse e s'avvoltolasse nelle stanze superiori. Giù in bottega poi un pianto, un lamento come di bambini che pareva uscisse di sotto la terra.

- Ohe! questa è nuova, disse tra Graffiapelle; che il diavolo fosse entrato qui dentro, e volesse risarcirsi su me delle tante volte che usurpai la sua parte. Venga pure: non sono Graffiapelle se non lo mando a piantar cavoli, e se non gli dico sul muso che valgo meglio di lui nello spaurire la gente.

Però queste parole le diceva colla bocca tanto per trovare un po' di coraggio; il cuore non c'entrava e battevagli anzi alquanto più del consueto. Avvinazzato com'era e mal sicuro di , un vago sentimento di pericolo lo teneva in forse; e quel trovarsi di notte in un luogo sconosciuto, allo scuro, non gli andava gran fatto a sangue. In quel punto ricordossi del perchè era stato posto , e delle parole dettegli dallo Scannapecore, ond'è che rassicurato, disse:

- Ah, ah, ho capito. Il merlotto è venuto a ficcarsi in gabbia da per . Ora andremo a snidarlo.

Ciò detto, cercò a tentone la scaletta, e trovatala, salì meglio che seppe, non senza inciampare due o tre volte nei gradini. Stefano appena udì ch'egli saliva, entrò difilato in bottega, e pratico, com'era, di casa sua, trovò tosto il luogo che cercava, penetrò nell'andito, e aperto l'uscio, ne trasse il fanciullo, mezzo morto dallo spavento. Poscia rassicuratolo ch'egli era il papà, perchè non gridasse; lo portò fuori colla stessa prestezza con cui era entrato, ed uscito in istrada battè due volte le mani per avvertire Martino. Tutto ciò era accaduto intanto che Graffiapelle trovata la camera, s'innoltrava alla cieca col suo coltellaccio sguainato, maledicendo l'oscurità che lo faceva inciampare ad ogni passo. Però, siccome un po' di barlume entrava dalla finestra, quantunque a notte fitta, potè vedere, o almeno gli parve, un'ombra muoversi dall'altro lato della stanza. Per lo che ei mosse a quella volta sempre tenendosi alla parete per non smarrirsi. Quand'ecco sente alcun che di pesante sdrucciolargli fra le gambe, poi una specie di tanaglia afferrargli un piede, infine una spinta di sotto la persona così violenta e impensata, che il canattiere non ebbe tempo di profferire una parola, ma stramazzò quant'era lungo sul pavimento. La sua mala ventura volle che il capo andasse a percuotere contro lo zoccolo d'un armadio e ne provasse tale intronatura da fargli andare la vista in visibilio. In quello stordimento gli parve anche di sentirsi stringere alla gola e di provare sulla pelle il freddo di una lama; ma fosse illusione o realtà egli non ebbe la più piccola scalfittura e tranne un po' di contusione alle costole, ne uscì senza un pelo torto. Il demonio, o folletto, o spettro che fosse, perchè il canattiere non volle persuadersi che un semplice uomo gli avesse fattomal giuoco, si era ritirato appena ei fu boccone, e lo stesso Graffiapelle diceva di averlo veduto scomparire dalla finestra e sfumare a guisa di ombra.

Intanto che il mal capitato canattiere ingegnavasi alla meglio di rimettersi sulle gambe, e si toccava la persona per assicurarsi d'aver tutti i membri al lor posto, Stefano e Martino avviavansi a tutta lena alla volta del convento nel quale avevano deliberato di passare la notte. Il fanciullo portato sulle braccia dell'armajuolo piangente e balordo per quella specie di prigionia sofferta, avvinghiavasi con tutta la forza delle sue mani al collo di Stefano, e ad ogni istante lo chiamava per nome quasi dubitasse di trovarsi così da vicino al padre suo. E raccontava come al primo svegliarsi in quel luogo chiuso ed oscuro avesse domandato la mamma, temendo d'essere stato posto colà per castigo; ma poichè non aveva udito alcuna risposta e invano aveva pianto e pregato, gli era venuto uno sgomento, una paura, come di qualche caso straordinario ch'egli non sapeva spiegare. Ora pensava che la casa fosse sprofondata e ch'egli avesse rovinato giù in qualche vota cisterna, ora parevagli d'esser morto e di trovarsi nel limbo, che sapeva esser un luogo oscuro, ove andavano i fanciullini dopo morte. I quali pensieri, fatti più terribili dal silenzio che regnava in quel luogo, avevano talmente oppresso la mente di Marco, che rifinito di forze erasi abbandonato a giacere e poscia erasi addormentato o meglio assopito. Ei non sapeva dire quanto tempo fosse rimasto in quello stato: solo ricordavasi d'aver udito dopo un gran pezzo un rumore lontano, poi alcune voci, per il che s'era posto a piangere e a chiamare di bel nuovo. Questa volta i suoi lamenti erano stati uditi, e apertosi l'uscio, un uomo era venuto a trarlo da quella buca, ed ora trovavasi all'aperto al collo del suo caro papà.

- Mio buon Martino, diceva per via l'armajuolo, stringendo la mano al garzone, se il cielo farà ch'io possa tornare in prosperità, sarai ricompensato del gran servigio che mi hai fatto.

- Oibò, messer Stefano, rispondeva l'altro, che parlate di ricompensa? Credete voi che un'opera come questa si possa ricompensare così facilmente?

- Lo so, Martino, lo so che ci vorrebbe assai più di quello ch'io potrò fare. Ma tu terrai conto della buona volontà, non è vero?

- Non è questo ch'io voleva dire, messer Stefano, forse mi sarò spiegato male, e vi prego di scusarmi. Io intendeva che le ricompense che me ne potessero venire non valgono un acca a fronte del gusto che provo nell'averla fatta tenere a quei birbi di canattieri. Oh! lo Scannapecore vuol rimanere con tanto di naso quando udrà narrarsi la cosa. E quello scimunito di Graffiapelle! ah! ah!

- Di' un po', Martino, non l'avresti mica?.... Hai capito, che cosa voglio dire.

- Oh! state pur tranquillo, che quel balordo se l'è cavata colla paura. M'era ben nato il grillo di dargli tal ricordo che gli togliesse per sempre la voglia di far male alla povera gente. Ma ho pensato che avrei guasta la nostra faccenda, e messa in pericolo, più di quel che si trova, madonna Cecilia: sicchè mi accontentai di fargli sentire sotto il mento il freddo dell'acciajo, e lo lasciai stare. E poi era tanto cotto che sarebbe stato come sforacchiare un sacco, ed io non voglio assassinare nessuno.

- Bravo il mio Martino, hai più giudizio di quel che credeva.

- Sì certo, e n'ebbi tanto da frugar nella casa così all'oscuro per portarne fuori quel poco ben di Dio che si poteva. Ma sì, quei birbi avevano già votato gli armadj, e non avevano lascialo che i cenci. Neppure le minuterie di madonna Cecilia dimenticarono, sebbene non fossefacile il trovarle, tanto che dovetti proprio tornarmene a mani vote, salvo la miseria di alcune lire imperiali uscite di tasca a Graffiapelle nello stramazzare e che io raggranellai alla meglio.

- Hai fatto male, Martino, dovevi lasciarvele per non aver taccia di ladro.

- Ladro io? Oibò, quanto a ciò ho la coscienza leggiera che è una maraviglia. Alla fine è roba nostra, che ho preso, ed è ora una volta che ritorni nelle nostre tasche tanto danaro che cola nelle mani di quei tristi. Alla peggio poi io le ho raccolte da terra nella vostra camera, e non devo sapere chi ve le abbia seminate.

Così favellando eransi internati nelle stradicciuole che attorniano la piazza della Vetra, in una delle quali era posto il convento degli Umiliati, detto in Mirasole dal nome del luogo ov'era stalo fabbricato. Potevano essere le sei ore all'incirca della sera, quando i nostri due conoscenti batterono alla porta del convento, rallegrandosi tra se di non essere stati scorti da nessuno. Al terzo picchio più forte e più solenne degli altri, s'udì un rumor di passi sotto l'andito ed una voce nasale esclamare borbottando:

- Venga la peste a costoro che disturbano i divoti nel loro santo uffizio. Chi è ?

- Deo gratias, rispose Martino con accento sommesso. Siamo due pecorelle smarrite che si raccolgono all'ovile.

- Ho capito: due vagabondi che la fame ha cacciato sin qui in cerca di cibo. Già adesso che la carestia vi batte nei garetti, siete tutti umili e timorati di Dio, che è una consolazione, e il santo ovile vi è tornato in grazia. Oh! andate nel nome di Dio; la carità è per quelli che se l'hanno guadagnata.

- Quanto a ciò, padre Andrea, spero di non esserne al tutto immeritevole, disse Stefano riconoscendo alla voce colui che gli parlava. Se non v'ho trattato lautamente le volte che v'accolsi in casa mia, non v'ho neppur messo alla porta; e voi ve ne dovete ricordare.

- Che? Stefano Baggi, qui a quest'ora? Che malanno vi è accaduto? Aspettate che apro subito.

Il frate, ciò detto, diè piglio all'informe mazzo di chiavi che pendevagli dalla cintura, e aprì la portatori tanta fretta quanto in sulle prime era andato a rilento. Poscia allorchè l'armajuolo e il garzone furono entrati, richiuse la porta, la sbarrò, e pigliato sotto il braccio Stefano in atto confidente gli chiese la cagione di quell'insolita venuta.

- Oh! la è una storia troppo lunga da raccontarvi, e qui non istiamo a nostro agio. Ma voi non ne avete udito nulla? proprio nulla? Non mi par quasi vero!

- Eppure la è così. Sapete il proverbio che dice: Par che tu stii in un convento. In questi giorni poi non usciamo senza un grave bisogno, sicchè le novelle ci rimangono sulla soglia.

- E a me sono entrate in casa, vedete, e in un modo, che.... basta, mi sono sforzato di rassegnarmi alla volontà del Signore, ma non ne sono ancora venuto a capo. Ho gran bisogno di parlare col padre Teodoro. Quel degno uomo mi darà un buon consiglio, e mi inspirerà un po' di coraggio colla sua fermezza e col suo senno.

- Il padre Teodoro adesso è in chiesa cogli altri frati a dir la compieta, soggiunse il padre Andrea. Presto però avrà finito.

Infatti nell'innoltrarsi che facevano sotto l'andito, le orecchie di Stefano e di Martino furono colpite da una lontana salmodìa, che a poco a poco andava facendosi più chiara e più distinta, finchè venuto affatto vicino quel canto grave e misurato udissi in tutta la sua pienezza. Frate Andrea non potè trattenersi dall'accompagnare, come per istinto, la cantilena intuonata nel coro, e ripetere i versetti di quel salmo sublime che incomincia: Magnificat, anima mea ecc. Quand'essi si trattennero ad ascoltare, il coro era giunto quasi alla metà del cantico, proprio a quelle parole - Et misericordia ejus a saeculo et in saeculum: super timentes eum. - Le quali parole contenenti un'ineffabile promessa, un conforto dolcissimo, accompagnate colla melodìa dell'organo e col fumo dell'incenso che diffondevasi per la corte, commossero fortemente il cuore dell'armajuolo, e gli smunsero una lagrima. Egli le ripetè col tuono di chi s'appiglia a una speranza tanto più cara quanto più debole e lontana: e nel pronunciarle la sua voce tremava, e il suo cuore facevasi gonfio come se volesse scoppiargli dal petto. Il qual atto non fu notato dal frate, cui la poesia di quel salmo non faceva sull'anima maggior sensazione, di quel che faccia all'occhio d'un carbonajo l'aspetto sublime dei monti. L'abitudine distrugge ogni sentimento di piacere. Quanto a Martino poi non poteva certo accorgersene, perchè fino dal primo por piede nel convento erasi staccato dal padrone, un po' per lasciargli libertà di favellare col frate, ma più di tutto per correr dietro a certo odore che toccavagli forte il naso, e che non era quel dell'incenso. Il qual odore partiva da un salotto terreno che serviva di refettorio, a lato a cui era la cucina, grande e sterminata come quelle di tutti i monisterj, e tutta in faccende pei preparativi della cena. Il povero Martino, che era di odorato finissimo, ora fatto più acuto pei lunghi digiuni, era stato attratto nel cerchio di quelle soavi esalazioni, e non udiva salmi, organi, altro, beato di respirare quell'aria pregna di sostanze grasse e odorose.

Intanto il coro dei frati proseguiva: - Fecit potentiam in brachio suo: dissipavit superbos mente cordis eorum. E dopo breve pausa ripigliava: - Deposuit potentes de sede: et exaltavit humiles. - Alle quali parole l'armajuolo fe' tener dietro un sospiro quasi dubitasse della verità di quella promessa, e paressegli che il Signore non si mostrasse allora quale erasi dichiarato ne' tempi antichi, Signore di misericordia e di giustizia. Anzi quando si venne all'altro versetto che dice: - Esurientes satiavit bonis: et divites dimisit inanes, - sembrogli che il senso di esso facesse troppo a pugni col caso suo, e non ci fu verso che quelle parole gli potessero uscire di bocca. E forse nell'impeto del dolore sarebbe uscito in qualche amara imprecazione, ma quel canto solenne che nel silenzio della sera era ripetuto soltanto dalle vôlte del convento, quella quiete soave e religiosa che diffondevasi da quelle oscure pareti, erano troppo fatte per inspirare mitezza e rassegnazione; talchè al finire del salmo non potè stare dall'unire la sua voce a quella degli altri che cantavano Gloria al Padre, al Figliuolo ed allo Spirito Santo.

- Sentite, mio caro Stefano, prese a dire padre Andrea, intantochè i canti avevano dato luogo, e il priore recitava l'antifona: sarà bene che noi ci ritiriamo di qui ed entriamo nella mia camera, ovvero in quella del padre Teodoro. Non voglio che gli altri abbiano a vedervi; chè quanto al priore penserò io a farlo avvertito. Orsù, dov'è quel vostro compagno? Se non m'inganno, alla cera ei mi sembra Martino. Ma dove mai si è ficcato?

- Sono qui, sono qui, padre Andrea, disse Martino facendosi innanzi sulla punta dei piedi. Ho voluto far conoscenza un po' col convento, perchè a dir il vero, ho sempre provato una tenerezza, uno struggimento straordinario per divenir frate. Adesso poi la vista del refettorio mi ha convertito affatto, sicchè mi metto nelle vostre mani, padre Andrea, disponete di me a vostro grado.

- Via, non dubitare figliuolo, rispose padre Andrea, quel po' di benedizione che il Signore manda a' suoi servi scenderà anche su di te.

- E voi ne avrete doppio guiderdone, soggiunse Martino, perchè non è soltanto un atto d'ospitalità che fate, ma è carità delle fiorite. Son dei giorni tanti che il nostro stomaco grida pane.

- Santo Iddio! E perchè non farcene motto mai? saltò a dire il frate. Noi non istiamo al largo, è vero, ma in qualche cosa avremmo pur potuto giovarvi. In questo avete avuto il torto, Stefano mio.

- Che volete? rispose l'armajuolo, furono tanti i guai che mi sbalordirono in questi , che è un miracolo se ho tenuto il capo a segno.

- Or bene, ritiriamoci, disse padre Andrea, ci racconterete poi tutto a miglior agio.

Ciò detto, il frate prese entrambi per mano e senza dire una parola li fe' attraversare un vasto cortile, poi condottili sotto un portico situato al lato opposto a quello ov'era la chiesa, aprì un uscio e fe' cenno ai due che entrassero.

- Questa è la cella del padre Teodoro, e qui potete star sicuri che nessuno baderà a voi. Ora vi lascio, perchè la compieta sarà quasi terminata, ed io devo trovarmi cogli altri per l'ora della cena. Finito che avremo di mangiare, verremo tosto a tenervi compagnia. Intanto addio, che il Signore sia con voi.

- Amen, disse Martino, e che ci mandi tosto la sua benedizione.

- Ho capito, Martino, rispose padre Andrea, prima di cenare dirò una parola all'orecchio di frate Pasquale, ed egli vi porterà questa benedizione. Addio, addio, la compieta è finita; lasciano già il coro.

Infatti nel chiudere che fece l'uscio della cella, udissi un fruscio confuso e un bisbigliare sommesso, che perdevasi nel cortile e sotto il porticato, finchè non furano tutti raccolti nel refettorio. Allora il convento si fece di nuovo silenzioso. Da a breve l'uscio della cella fu aperto, e un frate entrò recando un piatto di lenti con due pani ed un fiasco ch'ei depose sulla tavola senza far motto. Alla qual vista Martino balzò in piedi ed aspirato alquanto l'odor delle lenti, sclamò:

- Gran mercè, mio buon padre; Deus in adjutorium meum intende.

Il frate che aveva mosso il piede per uscire, borbottò fra i denti come per istinto: Domine ad adjuvandum me festina, e chiuse l'uscio. E noi lasceremo che l'armajuolo e il garzone gavazzino intorno a quel piatto, famoso nelle sante scritture, siccome lasceremo che i frati satollino nel refettorio le convesse lor pance, per ispendere quattro parole intorno al padre Teodoro, il quale, sebben per poco, rappresenta una parte importante nel nostro racconto. Che se mai ai lettori nojasse tal digressione e li facesse sbadigliare, la saltino di piè pari, che tant'e tanto il racconto comincierà lo stesso. Anzi, se dobbiamo dire il vero, questo padre Teodoro importuna non poco anche noi, specialmente perchè ci toglie l'agio di fare una magnifica descrizione della cena, accompagnata da varie scientifiche dissertazioni sull'antichità delle lenti, sul modo di mangiarle, se colla forchetta o col cucchiajo, sulla qualità del vino, sulla consuetudine di cenare; tutti ragionamenti di somma necessità in un romanzo storico, e dei quali se ne incontra uno ad ogni capitolo.

Il padre Teodoro usciva da una delle più riputate famiglie milanesi, crediamo dei Lampugnani, quantunque il nostra cronista lo taccia. Bello e valente della persona, la sua giovinezza era trascorsa tra i piaceri della corte e gli esercizii dell'armi, allora principale ornamento, anzi bisogno dell'educazione giovenile. Ne' giuochi pubblici, ne' tornei, nelle giostre egli tra sempre stato tra i primi, ed aveva riportato sì gran nome, che quando era bandita qualche giostra, tutti i cavalieri ambivano di averlo a condottiero. La sua conoscenza coll'armajuolo datava appunto da quei tempi, perchè Stefano teneva il primato negli ippodromi, siccome ne' tornei lo teneva il padre Teodoro, o, per meglio dire, Uberto Lampugnani, che tale era il suo nome di nascita. il giovine signore capitava di frequente nella bottega dell'armajuolo a provveder elmi e corazze, o a farle raccomodare, e intrattenevasi volentieri collo Stefanolo, allora giovinetto di primo pelo, e con lui aveva preso una grande domestichezza. Egli aveva combattuto a Casorate sotto il comando di Lodrisio Visconte, in quella fiera giornata in cui Milano fu a un pelo di cadere in podestà dei collegati; era stato con Galeazzo all'impresa di Pavia; poscia con Barnabò all'assedio di Bologna, e in tutti questi fatti erasi coperto di gloria. Lo sviscerato amore che nutriva pel suo paese l'aveva tratto in quelle guerre che sembravangli sante, perchè fatte a difesa della sua terra ed al suo ingrandimento, e l'ambizione di Barnabò gli era parsa sulle prime bella e necessaria a fine di rafforzare una signoria combattuta e pericolante. Se non che quando vide sciuparsi vanamente uomini e danaro intorno a Bologna, e il desiderio di dominio, immenso nel Duca, rivolgersi a danno dei sudditi e tormentarli in mille guise, gli cadde dall'animo ogni divozione pel suo principe, più volle seguitarlo in veruna impresa, anzi lasciò affatto il mestiero dell'armi. Allora, fermata stanza in Milano, cominciò ad aprire gli occhi e a scorgere la desolazione del suo paese, e buono e dolce com'era, ingegnavasi di alleviare i mali de' cittadini ora col danaro, ora colla preponderanza del suo consiglio. forse gli sarebbe durato l'animo di rimanere in Milano alla vista di tante crudeltà e di tanti soprusi, se oltre alla carità di patria, un altro e più tenace affetto non l'avesse trattenuto. Il qual affetto era in lui tanto più forte ed intenso, in quanto che da nessuna o almen lieve speranza era alimentato; ed egli lo nutriva in silenzio mai accadeva che dagli atti o dalle parole di lui trapelasse. Allorchè, deposto ogni pensiero di guerra, si ritrasse a vivere tranquillamente nel palazzo de' suoi maggiori, di cui non rimanevagli che la madre, nel frequentare che faceva alcuna volta la corte di Barnabò, aveva posto gli occhi sopra Verde, primogenita del Duca, la quale entrava appena allora nella prima giovinezza, ed appariva bella sopra ogni altra principessa de' suoi tempi. La fama del Lampugnani, i suoi modi nobilmente cortesi, la grazia del favellare, l'avvenenza della persona, fecero sì, che la donzella lo notasse fra tutti i giovani milanesi, e mostrasse maggior piacere della sua presenza che di quella d'alcun altro. Almeno così era sembrato ad Uberto, e sebbene gli occhi dell'amore ingannino sovente, forse ciò era vero. Pertanto a poco a poco gli era venuto sorgendo nell'animo un desiderio sconosciuto, una smania, un affetto, dapprima combattuto, poi trionfante; infine soverchiante ogni suo sentimento. Ma questo amore era per lui affanno continuato, perchè ben sapeva qual distanza passasse tra lui e la figliuola del Duca; tanto più che l'orgoglio di Barnabò gli poneva innanzi soltanto re e principi a cui maritare le sue figlie. Inoltre l'austerità de' suoi principii non gli avrebbe permesso di divenir genero ad uno ch'egli era costretto a disapprovare e quasi ad odiare siccome il più crudele nemico della patria sua. Ond'è che combattuto da sì dolorosi pensieri durò alcuni anni nella sua vita tranquilla e ritirata, soffocando sempre quella fiamma che dentro lo ardeva: finchè andatane Verde a nozze con Leopoldo duca d'Austria, ne provò così forte angoscia che infermò gravemente. Riavutosi, e veduto di aver posto invano il suo affetto, prima nella patria, poi in una donna, si volse interamente a Dio, e in lui collocò ogni suo sentimento. Pertanto scioltosi da ogni terreno vincolo, vestì l'abito degli Umiliati, e, lasciato il i nome di Uberto per pigliar quello di padre Teodoro, si consacrò tutto al servigio della Chiesa ed alle opere di pietà, nelle quali si segnalò in guisa da cattivarsi la riverenza e le benedizioni del popolo. Durante il contagio egli aveva raccolto e soccorso infermi, aveva amministrato sacramenti, nutrito bambini ed orfani, e tanto s'era adoperato a pro degl'infelici, che per lui la peste aveva fatto minor guasto. Dappertutto ov'era miseria da sollevare si era sicuri di trovar lui, o il padre Andrea, il quale sebbene non infiammato dallo stesso zelo, tuttavia col continuo esempio aveva gettata l'antica infingardaggine ed era riuscito una buona pasta di frate.

Tale si era quel padre Teodoro, che noi abbiamo veduto comparire un istante, nel primo capitolo, e col quale ora ripigliamo conoscenza, stantechè terminata la cena, ei s'è levato dal refettorio ed è entrato nella sua cella. Chi dei lettori nol trovasse poi una conoscenza affatto nuova, e non volesse assolutamente chiamarlo padre Teodoro, lo chiami pure fra Cristoforo, fra Buonvicino, o chi altri, che poco c'importa. Già i frati son tutti frati, e dal nome in fuori non conosciamo che siavi differenza tra l'uno e l'altro: sfidiamo i romanzieri a provarcelo.

- La benedizione del Signore sia con voi, diss'egli nell'entrare che fece nella sua stanzuccia. Qual buona ventura ti conduce qui, mio caro Stefano?

- Oimè! non tanto buona, padre Teodoro, rispose l'armajuolo. Voi vedete in me l'uomo più infelice che esista.

- Che?... Il vedervi qui, solo col fanciullo, a quest'ora... sarebbe forse accaduto qualche male alla vostra Cecilia?

- Oh! sì; pur troppo, e non solo a lei, ma a tutti noi, e tale, che non ha rimedio.

- Il Signore è potente e misericordioso, rispose gravemente il frate, non bisogna mai disperare della sua provvidenza.

- È vero, disse Stefano sospirando, sarò io che avrò meritato questo castigo, e non me ne lagno. Ma pure, vi son dei momenti....

- Infine, dite su, che cosa v'è accaduto?

In quel punto entrò anche padre Andrea, e tutti e quattro sedettero intorno alla tavola, intanto che Stefano raccontava per disteso il fatto avvenutogli. Padre Teodoro lo stette ascoltando in silenzio a capo chino, a guisa d'uomo assorto in profonda meditazione. L'armajuolo aveva finito di parlare, che il frate era tuttavia nella medesima attitudine, e pareva quasi non aver dato orecchio alla narrazione. Gli altri tre lo stavano guardando maravigliati e riverenti, e tacevano per non turbare i pensieri di lui. A un tratto ei balzò in piedi, e alzati gli occhi al cielo in atto di profetica inspirazione, gridò:

- Sì, la misura è colma. l'ora dell'emancipazione è venuta. Il Signore scenderà in me, e parlerà da' miei labbri, e l'empio si scuoterà al suono di quelle parole e si nasconderà la faccia nelle mani, perchè esse parleranno la verità. E il cuore di luì si ammollirà all'annunzio della parola di Dio, o si spezzerà sotto la folgore dell'ira sua.

Ciò detto, ricadde sulla seggiola e stette come assopito da questi pensieri. Però da a breve, le sue idee parvero ripigliassero il loro ordine naturale, perchè volto ai due ospiti, disse:

- Non vi siete apposti male nel chiedere ricovero ed ajuto al povero frate: il mio pane intanto è diviso con voi, quanto al resto domani forse le cose cambieranno, se a Dio piace. Però datevi pace e fate di accomodarvi alla meglio nel mio letticciuolo: io passerò la notte nella chiesa. Padre Andrea, venite con me, chè ho gran bisogno di voi. Addio, Stefano, e anche tu Martino, che il Signore vi tenga entrambi nella sua santa custodia.

- Amen, rispose Stefano, e che esaudisca i vostri voti: ormai non c'è più speranza che in lui.

- Adesso e sempre, disse il padre Teodoro, e ripetuti gli addii, i due frati uscirono lasciando l'armajuolo e il garzone padroni intieramente della cella.

 

 

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License