VIII
Alessandro
Ti pigli una
gran sicurtà con me, frate, forse perchè hai veduto che quest'oggi sono in frega
di perdonare, ma bada che tutta la tempesta potrebbe cadere su te. Che c'entri
tu nelle cose del governo? tuo mestiero è di rendere consolazioni a quelli che
ne hanno bisogno, di assordare le celle del tuo convento sino a tanto ch'io non
ti mandi in malora insieme co' tuoi compagni; insomma le tue brighe devono
essere intorno ai morti e non ai vivi. Il vostro tempo è pasato, e siete oramai
ben conosciuti, e se seminerete ancora scandali; vi manderò tutti dove se n'è
ito il vostro fra Girolamo Savonarola.
Revere, Lorenzino de' Medici.
Nel mattino appresso
Barnabò Visconti erasi alzato per tempo, e aveva fatto chiamare i suoi due
figliuoli Rodolfo e Lodovico non che il Medicina, il quale, oltre all'essere cameriere
ed astrologo del Duca, adempiva anche l'uffizio di segretario, quando ne faceva
d'uopo.. Da lì a breve entrarono anche Uberto da Monza, Airone Spinola e
Gavazzo Reina suoi consiglieri e familiari, i quali cercati all'infretta, erano
accorsi dubbiosi di qualche infausta novella. Barnabò camminava su e giù per la
sala a passi concitati, e colle mani spiegazzava una pergamena, su cui di tanto
in tanto gettava gli occhi. Il suo volto era corrugato e arcigno più del
consueto, e le pupille gli splendevano d'una luce fosca e sanguigna. I
consiglieri appena entrati s'accorsero del turbamento del Duca, e poichè
sapevano con che uomo avessero a fare, si tennero in disparte e silenziosi,
finchè non gli fosse piaciuto di rivolger loro la parola. Infatti Barnabò,
fatti ancora due giri per la camera, si trattenne e voltosi a' suoi, disse:
- Cattive nuove debbo
darvi questa mattina. Il papa non si tien pago degli anatemi e delle
scomuniche, e mi vuol morto ad ogni costo. La bolla che feci ingojare a Urbano
V sul ponte del Lambro, sembra che sia passata nello stomaco di Gregorio XI, nè
c'è verso ch'ei possa digerirla. Ma pazienza! questa volta l'ho meritata:
doveva mandarlo sulla bella prima a tener compagnia ai pesci, che nè lui nè i
suoi successori m'avrebbero dato più noja.
- Con rispetto della
signoria vostra, prese a dire senza esitare lo Spinola, d'un mal grande si
sarebbe fatto un mal peggiore: e poi toltone uno, ne sarebbero sorti contra
cento nemici. Già la causa della discordia non istà in un meschino desiderio di
vendetta: il vostro berretto ducale ha sempre fatto gola al triregno
pontificio. Nè Innocenzo VI, nè Gregorio XI ebbero mai nulla a partire col Duca
di Milano, e tuttavia non si mostrarono meno accaniti dell'abate da Grimoaldo.
- È vero, rispose Barnabò,
io ho sempre avuto rispetto alla Chiesa, nè mai volli esserle nemico
deliberatamente. Tutti i malanni derivarono da lei, che volle ad ogni costo
insignorirsi di Bologna e me la tolse a tradimento. E perchè ho chiesto il
fatto mio e tentato di ricuperarlo con ogni arte, dovrò essere scomunicato,
trattato da cane e da infedele, e perseguitato in mille guise? E questo
Gregorio XI mi stringerà ai lombi in modo da non lasciarmi fiato, e mi forzerà
a vegliare notte e dì per custodire le mie terre?
- Ma la pace che doveva
essere negoziata da Leopoldo d'Austria? chiese Gavazzo Reina.
- Pace, pace, voi dite?
E quand'è che potrà esser pace fra me e il papa? Ben mi fe' sapere Leopoldo
ch'egli aveva scritto al pontefice per trattare della pace e che parevagli le cose
inclinassero al meglio; ma intanto sapete che cosa accade? I miei sudditi mi si
ribellano contro e sì mettono sotto la protezione della Chiesa.
- Oimè! prese a dire di
nuovo lo Spinola; dunque io fui profeta di verità, quando pronosticai che le
lettere messe fuori dal papa o tosto o tardi avrebbero recato cattivo frutto.
- Per s. Ambrogio, sì,
che avevate ragione, ed io fui cieco a non badare al vostro consiglio, e a non
rinforzare i miei presidii d'Ossola e di Chiavenna. Un corriere spacciato
questa notte mi recò la triste novella, che i miei furono cacciati, e che gli
abitanti sì dell'uno che dell'altro paese hanno inalberato lo stendardo
pontificio.
- Padre mio! sclamò
Rodolfo, datemi quattrocento lance, e lasciate fare a me a mettere a segno que'
ribaldi e a far loro ribaciare il biscione.
- Tu hai bel dire,
ragazzo mio, bisognerebbe che la peste non avesse spazzato Milano di due terzi
e più degli abitanti, e che si stesse meglio a danaro di quel che or siamo. Ma
coi tempi che corrono, non monta sciuparsi intorno a due terricciuole, quando
imminenti e più gravi disastri ci stanno sopra.
- Che? domandò Lodovico,
vi sarebbero ancora altri malanni?
- Pur troppo, ed è
perciò appunto che non voglio assottigliare le mie truppe. Anche Pavia e
Piacenza e Vigevano minacciano di staccarsi da Milano per darsi al papa, e già
buona parte dei signori si sono ribellati apertamente. Ma quelle città mi
stanno troppo a cuore, e per Vigevano e per Piacenza ho già pensato; quanto a
Pavia, mio fratello Galeazzo a quest'ora n'è informato, e non istarà colle mani
alla cintola.
- Ma questa è dunque una
guerra sorda che ci fa il pontefice, disse Gavazzo Reina.
- Altro che sorda!
soggiunse Barnabò, ei m'è venuto addosso colle armi spirituali e temporali ad
un tempo, ed io devo cingermi di doppia corazza per far fronte a' suoi colpi.
Figuratevi che non volle mai concedere al duca Alberto d'Austria che togliesse
in isposa Violante mia nipote, e che tutte le istanze che fece quel bravo
principe andarono vane.
- E che cosa importa al
duca d'Austria del beneplacito del papa? disse lo Spinola. Non è egli tanto
potente da farne senza?
- E l'interdetto che
pesa sulla nostra famiglia? rispose Barnabò, e il breve che proibisce a tutti i
principi della cristianità di stringersi in parentela coi Visconti? Non tutti
sono della mia tempra, e sanno ridere delle bolle e delle scomuniche. Chi altri
avrebbe osato rendere pane per focaccia e far proclamare scomunicato il papa,
siccome io feci?
- È vero, disse il
Reina, la signoria vostra ha sempre dimostrato animo invitto e pertinace, e
guai se tale non fosse stato.
- E tuttavia, soggiunse
il Duca, che cosa mi son guadagnato? A Bologna dovetti rinunciare una volta per
sempre, e fu fortuna l'averne cavato qualche migliajo di fiorini. Quanto al
resto non mi posso neppur tener sicuro della signoria, perchè un dì o l'altro
l'imperatore, istigato com'è dal pontefice, mi torrà l'investitura e mi
dichiarerà caduto d'ogni potestà. Oh! ma prima che arrivi quel tempo, la voglio
far veder bella a que' che mi gridano la croce addosso. La fortuna non mi sarà
sempre avversa come a s. Rafaello ed a Guastalla. Chi sa che non possiamo
tornar in campo di bel nuovo, e riparare all'onta delle sconfitte avute sul
Modenese.
- Ma i soldati? domandò
Rodolfo.
- I soldati! oh, di
quelli non dubitare che non vi sarà penuria. Mancano bande mercenarie che
girano per l'Italia, pronte a porsi sotto la bandiera di chi paga meglio? Il
maggiore dei guai sta nell'aver danaro, e a quest'ora il mio erario è esausto.
Ma non importa, leverò nuove imposte sui cittadini, accrescerò l'estimo delle
prebende, e ciò mi darà qualche cosa. Infine, se farà d'uopo, rimetterò in
vigore l'editto che misi fuori dieci anni fa, e i miei sudditi avran di grazia,
a pigliar l'armi, se vogliono aver salva la pelle.
Intanto che così
favellava, Barnabò erasi seduto sul suo seggio ducale, e colla destra sosteneva
il capo, mentre colla sinistra accarezzava sbadatamente un bell'alano che
guaiva di tripudio e tentava di leccargli la mano. Dopo un istante di silenzio il
Duca si volse bruscamente ai tre famigliari, e disse:
- Orsù, dunque, che cosa
mi consigliate di fare? Dovrò lasciare che si smembri a poco a poco il mio
paese e portarmela in pace, oppure mostrare di nuovo i denti a' miei nemici?
I consiglieri si guardarono
in viso tra loro quasi per interrogarsi a vicenda, e poi sollevarono gli occhi
sulla faccia di Barnabò in atto di spiare l'interno suo sentimento. Bisogna
credere che in quel momento il volto di lui non apparisse gran che corrucciato
e lasciasse traspirare piuttosto il desiderio della pace che quello della
guerra; perchè tutti convennero nella medesima opinione, e non colsero in
fallo.
- Con rispetto della
signoria vostra, disse Uberto da Monza, parmi che il partito più opportuno
saria quello di far nuove proposizioni al pontefice, e di mostrarsi inclinato a
tutte quelle concessioni che gli parranno migliori.
- Che? sclamò il Duca,
vorreste ch'io discendessi fino a implorare la pace, e a pagarla a prezzo del
mio sangue? Barnabò avvilirsi a questo punto!
- Se la signoria vostra
si degnerà di lasciarmi parlare, rispose Uberto, vedrà che altro è il mio
intendimento. Innanzi tutto non è d'uopo rivolgersi direttamente al papa, ma
scrivere all'uno o all'altro dei duchi d'Austria, perchè pongano maggior calore
nelle negoziazioni, e le trattino anzi a nome vostro. Perciò conceder loro
larga potestà di stabilire i patti, salvo a rifiutarsi nel momento di stipulare
l'accordo. Così col mostrare di volere la pace, la signoria vostra troverà più
docili ed affezionati gli animi dei soggetti, si procaccerà la benevolenza
degli altri principi d'Italia, e in ogni modo guadagnerà tempo, e potrà
mettersi in istato di far fronte a qualunque ostilità. Il temporeggiare non è
mai stato dannoso.
Il Duca stette alquanto
sopra pensiero, quasi meditasse il partito che gli veniva proposto, finalmente
disse:
- Or bene, sia fatto
come voi dite. Scriverò al duca Leopoldo e gli farò nuove proposizioni.
Intanto, se Dio vorrà che la peste se ne stia lontana, e che il paese possa
rifiorire di bel nuovo, ci appresteremo alla guerra per la primavera vegnente,
e il diavolo si metta dalla parte di chi ha ragione. Se potessi trar dalla mia
quel Giovanni Accoud che ora è al soldo del papa, quello sarebbe un potente
ajuto. Ma per ottener ciò si vogliono tesori, e nella stagione che corre...
Basta, di cosa nasce cosa, dice il proverbio, e il tempo matura tutto. Ora,
Medicina mio, disponi la pergamena per la lettera che abbiam detto, e voi
altri, Rodolfo e Lodovico, preparatevi ad uscire di Milano tra poco, perchè
voglio fare una corsa al mio castello di Marignano. Mi sembra mill'anni che ne
son lontano.
I due figliuoli di
Barnabò appena udito il cenno, salutarono il padre ed uscirono, e i tre
consiglieri, che videro di non aver più nulla a fare ivi, presero essi pure
rispettosamente commiato e se ne andarono. Barnabò intanto senza muoversi da
sedere, col capo tuttavia appoggiato alla mano destra, facevasi a dettare una
lunghissima, lettera che incominciava - Magnificentiae tuae salutem. Quod de
negotiis incohatis cum Romana Ecclesia nullum resultatum evenerit, ecc.
ecc. Della qual lettera, citata per intero dal cronista, ora risparmiamo la
noja ai lettori, riserbandoci di pubblicarla insieme cogli altri preziosissimi
documenti, o di cederla, quando avverrà che il nostro racconto sia ristampato
colle solite note ed illustrazioni storiche.
La lettera era appena
compiuta, e il Duca erasi tolto dal suo seggio per apporvi la firma ed il
suggello, quando dalla via gli giunse all'orecchio uno strano rumore di grida
allegre e di risa, accompagnate da alcune voci da prima umili, poi risolute.
Barnabò maravigliato di ciò, comandò al Medicina, che discendesse giù nel
cortile e chiedesse della cosa. Intanto egli erasi riposto a sedere, e diceva
tra sè carezzando l'alano che gli faceva intorno una festa grande:
- Io non so perchè
questa Chiesa benedetta sia tanto schizzinosa, e si pigli sì gran fastidio per
ogni filo d'aria che le dia in su una guancia. Che importa a lei di quattro
pretonzoli messi fuor di prebenda, e di qualche abate impiccato? Alla fine
costoro erano miei soggetti prima che divenissero ecclesiastici, e su di essi
la mia podestà è più antica e più immediata della sua. Stà a vedere che non
potrò esercitare la giustizia a casa mia, perchè tra quelli che mi ubbidiscono
ve ne sono alcuni che portano la cotta o il piviale! La sarebbe bella davvero!
Eppure tutte le discordie avute col pontefice e le guerre che ne naquero furono
cagionate da siffatte inezie. che è una vergogna il dirle. E come ne tien
memoria, e come le cava fuori ad ogni istante queste balorde accuse! Quasichè
non predicasse tutti i giorni la moderazione e il perdon delle ingiurie. Oh! se
potessi accostarmi una volta ai Fiorentini, la vorrei far vedere in barba alla
Santa Sede e a tutti i collegati. Orsù, che cosa è accaduto laggiù?
Queste ultime parole il
Duca le volse al Medicina, il quale entrava in quel punto e mostrava di aver
qualche nuova non troppo grata, che non volesse uscirgli dalla gola.
- Orsù, diss egli di
nuovo Barnabò, avresti veduto la befana forse, che sei diventato muto?
- Ho veduto peggio che
la befana; ho veduto il demonio in carne ed ossa con abito da monaco. E bisogna
proprio che sia tale, perchè le guardie che stanno giù alla porta, se l'avevan
preso in mezzo e volevano fargli un bel giuoco: ma egli con quattro parole li
fè stare tutti a segno, che è un gran dire.
- E che cosa vuole
costui? disse il Duca facendosi scuro in viso.
- Che cosa vuole? cioè
che cosa vogliono, perchè sono due i frati e non uno. Dicono che hanno grande
necessità di parlare colla Signoria vostra, e chiedono ad ogni costo di essere
messi dentro.
- Ho capito: saran
venuti a domandare qualche limosina pei loro conventi. Questi frati sono più
ingordi che i farisei: più ne hanno, più ne vorrebbero avere. Ed io son tanto
balordo da darne loro ad ogni momento. Ma sì, adesso la cosa è cambiata, fa dir
loro che vadano in pace.
- Gliel'ha già detto lo
Sciancato, che per caso trovavasi giù abbasso, ma essi non vollero dargli
retta, e battono sodo di voler favellare colla Signoria vostra. Anzi uno di
loro è andato tant'oltre colle parole, che lo Sciancato aveva fatto mostra di
dargli un sergozzone per fargli salutare la via colla faccia più presto che coi
piedi. Ma il frate si gli è parato dinanzi con tanta autorità, e gli disse non
so che parole, che colui non trovò il coraggio di lasciar andare il colpo.
- Poltrone! Orsù, va, e
di' loro che non voglio udirli, e che partano alla malora prima che accada di
peggio.
Il Medicina scese
all'infretta, e ritornò tostamente con non migliore ambasciata.
- Messer Duca, ei disse,
bisogna proprio dire che abbiano il demonio in corpo, perchè giurano di non
partirsi di qui se non hanno parlato con voi. Affermano di aver cose gravissime
da dirvi, e mal per voi e per tutti se rifiutate di ascoltarli.
- Che siano maladetti
questi eterni seccatori! Fagli entrare adunque, e guai ad essi se le cose che
hanno a dirmi non sono di tale importanza da farmi chiudere un'occhio sulla
noja patita.
Il Medicina discese
un'altra volta, e il Duca sdrajato sbadatamente nel suo seggio, si diè di nuovo
ad accarezzare il cane. I due frati, che i nostri lettori avranno già
indovinato chi fossero, entrarono in atto grave e solenne e si trattennero poco
oltre al limitare. Il padre Teodoro veniva il primo e mostrava nel viso tutta
l'inspirazione di un apostolo; il padre Andrea lo seguiva coll'aspetto docile e
rassegnato di chi è guidato da una volontà superiore. Entrambi stettero un
momento silenziosi, come per raccogliere le proprie idee prima di parlare; tanto
che il Duca, al quale dava gran fastidio quella visita importuna, cominciò a
dar segni d'impazienza, e non aspettò che aprissero bocca, per dir loro:
- Mariuoli sfacciati! Su
qual vangelo avete trovato che sia lecito penetrare a forza nelle case altrui e
recar noja a chi non ne vuole? Parlate in vostra malora, e che vi si secchi
presto la lingua.
Il padre Teodoro alzò
gli occhi al cielo e rispose:
- Iddio, quando disse a
Giona suo servo: Sorgi, e va a Ninive ad annunziare l'ira del Signore e la
distruzione della città, affinchè le genti si convertano, non chiese se ai
Niniviti sarebbe stata gradita o no la venuta di lui. E però gli disse, va, e
non soffermarti nel cammino.
- E fu appunto perciò,
disse il Duca, che quel profeta di mal augurio dovette stare tre giorni nel
ventre della balena, se è vero quel che dicono le scritture. E tu pure, o
frate, corri rischio di tener compagnia per tre giorni ai topi ed alle
lucertole, se non ti spicci tosto di quel che hai a dire, e non vai pe' fatti
tuoi. Orsù, aggiunse il Duca, dimenandosi sul suo seggio con manifesti atti
d'impazienza, lascia da parte questo tuo gergo da profeta, e vieni presto alla
conclusione. Soprattutto guardati bene intorno, e fa conto che questo non è nè
il presbitero nè il confessionale.
- Nel nome di Dio
onnipotente, sclamò allora il frate, apri le orecchie e porgi ascolto a chi ti
parla la voce della verità. Il Signore ti fe' nascere grande e potente, ti
colmò di tutti i doni della fortuna, e ti diè in custodia un popolo fiorente e
prosperoso. Ora, in qual modo hai tu corrisposto ai benefizii del Signore?
Oimè! s'io volgo l'occhio intorno non trovo che argomenti di pietà e di
desolazione. La città spopolata e quasi vota per la peste e per la carestia; i
pochi che rimangono vessati e messi a morte da una crudelissima legge; il pane
tolto di bocca ai poveri e sciupato in pazze profusioni; i ministri di Dio
sbeffeggiati e perseguitati; le rapine e le estorsioni divenute diritto e
giustizia; l'onore delle famiglie insultato e deriso; il palazzo ducale fatto
lupanare e bordello; e per soprappiù gli animali immondi accarezzati e trattati
meglio che gli uomini fatti a imagine e somiglianza di Dio. Che hai tu fatto di
questo popolo sì ricco, sì rigoglioso? Non temi la vendetta del cielo, perchè
prosegui tanto sicuramente nella via della distruzione? Non ti bastarono gli
avvisi avuti, le guerre sostenute, le scomuniche, gli odii, e tutti i castighi
di Dìo?
- Bisogna dire che non siano
bastati, gridò il Duca che non durava più nella pelle, perchè ora me ne tocca
un nuovo e peggiore, che è quello di ascoltarti. In fe' di Dio, non so chi mi
tenga, che non ti lasci andar contro questo cane, il quale non ha altro
desiderio che di far conoscenza colla tua carne. Via, togliti da' miei piedi,
intanto che le gambe ti giovano, perche da qui a un minuto non mi troveresti
così sofferente.
- O degno fratello di
Matteo! ripigliò il frate, hai tu dunque l'animo tanto indurito, che nè le
lagrime dei popoli valgano a commuoverlo nè le minacce divine a scuoterlo? Non
temi adunque l'ira del Signore, chè vuoi vederla compiuta? Or bene, va,
prosegui la nefanda tua opera, opprimi, uccidi, distruggi, ma bada che la spada
dell'angelo ti sta sopra. Anche Faraone si rise delle minacce di Mosè e non
prestò fede ai castighi del cielo, ma rimase immerso nelle acque del mar Rosso.
E tu impuro, sacrilego, eretico, fratricida, tu morrai della morte istessa che
le tue mani prepararon al fratel tuo. Questo ti dice il Signore pur bocca del
suo servo.
Intanto che così
parlava, il padre Teodoro erasi infiammato in viso, gli occhi gli brillavano
d'una luce straordinaria, la sua voce erasi fatta grave e tuonante, e la
persona pareva ingrandita d'assai e quasi sollevata da terra. Il Duca per un
istante restò affascinato dalla prepotenza di quelle parole, fors'anche più per
la stranezza del caso, perchè non mai eragli toccato di vedere tanto ardimento
al suo cospetto. Ma lo sdegno soverchiò tosto ogni altro sentimento, talchè
alzatosi con violenza, mosse un passo alla volta del frate, come in atto di
disserrarglisi addosso; poi, trattenutosi improvvisamente, si volse al compagno
che stava in silenzio, sebbene franco e animoso, e con un sorriso d'ironia più
terribile che qualunque impeto d'ira, gli disse:
- E tu, degno compagno
di questo valente apostolo, non hai tu pure la predica da spifferarmi?
Forsecchè la paura ti trattiene dal parlare? Via, non sarò mica malcontento di
vedere se tu pure sei così forte in teologia.
- I servi di Dio non
temono i potenti della terra, rispose il padre Andrea, al quale le parole del
padre Teodoro avevano inspirato una sicurezza straordinaria. Che posso io dirti
che non abbi già udito dalla bocca del mio compagno? I tuoi peccati soverchiano
ogni misura, ma la misericordia di Dio è grande oltre ogni umano pensiero. Deh!
fa di porgere ascolto alle nostre parole, riconciliati colla Chiesa, la quale
ti attende a braccia aperte, deponi ogni cattivo costume, restituisci il suo a
chi spetta, provvedi al bene del tuo paese, e riconosci una volta l'autorità
del pontefice.
- Poltroni sguajati!
gridò il Duca. È questo dunque che mi venite infinocchiando? Ch'io faccia
l'atto di sommissione al papa, e che mi dichiari suo dipendente? Un
bell'evangelio che andate predicando! Volere che il papa abbia il predominio
sulle cose temporali, siccome pretende di averlo sulle spirituali. E questo non
chiamasi adulterare la religione? Cani di eretici, v'insegnerò io in che modo
si predichi. Ehi, Medicina, va, chiamami tosto Girardolo, e in pari tempo fa
dire a Lodovico e Rodolfo che stieno pronti nel cortile, insieme colla scorta,
per accompagnarmi al castello di Marignano. In verità io sono pazzo a voler
darmi fastidio delle parole di costoro.
Il Medicina, il quale
erasi ritirato nella camera attigua, appena entrati i due frati, accorse tosto
alla chiamata e volò in traccia di Girardolo, intanto che il Duca andava
misurando a gran passi la sala, e sclamava di tanto in tanto, volgendo gli
occhi ai due frati:
- Ora, se tanto vi preme
il papa, vi metterò innanzi io colui che è vero papa qui in Milano. Vedrete che
egli è un dottore così sapiente da farvi star tutti a segno, sebbene non porti
nè manto nè mitra. Quanto poi alla smania di predicare, vi farò innalzare una
tal bigoncia donde potrete favellare alla moltitudine, se pur vi sarà chi
voglia ascoltarvi.
Il padre Teodoro in
questo mezzo aveva incrocicchiate le palme sul petto e sollevati gli occhi al
cielo in atto di celeste rassegnazione, intanto che il suo compagno col capo
inchinato mormorava tra le labbra alcune preghiere raccomandandosi a Dio.
Finalmente dopo dieci minuti di aspettazione, che al padre Teodoro passarono
inosservati, assorto com'era nella sua estasi religiosa, ma che sembrarono un
eternità al Duca ed al padre Andrea, giunse il Medicina con Girardolo della
Pusterla, il quale era ministro e procuratore di Barnabò, e, a cagione del suo
potere, veniva detto per soprannome il papa. Poichè questi fu entrato ed
ebbe riverito il suo signore, il Medicina, avvicinatosi a Barnabò disse:
- Messer Duca, i signori
Lodovico e Rodolfo, vostri figli, vi attendono per partire. Nel salire gli ho
veduti che son già a cavallo ed han seco trenta lance.
- Va bene. Ora consegno
a te, Girardolo, questi due scimuniti, che son venuti a predicare una nuova
eresia al mio cospetto. Sbrigali tu, che t'intendi di teologia meglio di s.
Basilio e di s. Agostino. Bada soprattutto che nei capi d'accusa debba entrare
anche la noia che m'hanno data. In somma, fanne quel che meglio stimi, ch'io te
li abbandono interamente.
Ciò detto, Barnabò erasi
mosso per uscire, ma il padre Teodoro, scosso improvvisamente dalla sua
meditazione, gli si parò dinanzi quando fu vicino all'uscio, e sollevata la
mano in alto, e rizzatosi su tutta la persona, così si pose a gridare:
- Anatema a te, in nome
del Signore onnipotente, destruet te Deus in finem, evellet te, et emigrabit
te de tabernaculo tuo et radicem tuam de terra viventium.
Nell'udire le quali
parole il Duca divenne di bragia in viso e parve che gli schizzasse fuoco dagli
occhi. Mosse un passo contro al frate e corse colla mano al fianco sinistro
come per levarne un'arma: ma l'aspetto di Girardolo e del Medicina che gli si
erano fatti vicini lo trattenne. Però, fissò gli occhi sul volto del frate, e
veduto ch'egli aveva di nuovo innalzato i suoi al cielo con quella sua
espressione dolce e rassegnata, fe' un gesto di dispregio e d'impazienza, e
voltosi a Girardolo disse:
- Sgombrami il cammino
da questo poltrone, e prepara le legna davanti il palazzo. Voglio che entrambi
siano abbruciati tostamente e che paghino il fio della loro ribalderia. Così
anche tu avrai risparmiato la briga di esaminarli. Che fra un'ora sia tutto
finito.
Dopo di che uscì, e da
lì a breve udissi lo scalpitare dei cavalli nel cortile e sulla via, e la voce
dei cavalieri che disponevano la cavalcata.
Girardolo intanto aveva
detto una parola all'orecchio del Medicina, e questi, data una occhiata di
traverso ai due frati, era uscito a dar gli ordini opportuni. Chi poi fosse
maravigliato di quella grand'ira del Duca, allorchè intese l'apostrofe del
padre Teodoro, sappia, che quelle erano le precise parole colle quali terminava
la scomunica fulminata da Innocenzo VI contro di Barnabò; scomunica che gli
diede sì gran molestia, e che fu, si può dire, il principio d'ogni suo danno.
Le quali parole erano le più forti e le più terribili che la Chiesa avesse
adoperato, talchè lo stesso Barnabò, che era solito ridere dei brevi e delle
bolle, ne era rimasto fortemente crucciato, conoscendo assai bene quanto potere
fosse in esse. Perchè è d'uopo sapere, e il nostro cronista lo afferma, che il
Duca aveva buone lettere, e intendevasi di latino, e specialmente di faccende
ecclesiastiche meglio che un canonico. Sopra le bolle e i brevi poi aveva fatto
lunghissimi studii, ed era molto addentro in tutto ciò che apparteneva al jus
ecclesiastico. Non ultima questa tra le bizzarre qualità di quel singolarissimo
principe.
Girardolo della
Pusterla, poichè fu partito il Medicina, erasi fatto dappresso ai due frati, e più
al padre Teodoro, siccome quello che al suo ingegno perverso e beffardo
sembrava il più ghiotto e il più solazzevole.
- Domine miserere,
gli disse, voi siete fatto estranio a questa valle di lagrime. Buon padre, non
vi degnerete voi di guardare in viso a un meschino peccatore, che implora a
ginocchio la vostra benedizione?
- Vade retro Satana,
sclamò il padre Teodoro protendendo le mani.
- Ah! padre, voi siete
anche esorcizzatore? Questo non sapevo io. Sarà un merito di più per ottenere
la palma del martirio.
- Ebbene, dov'è il
carnefice? dov'è la corda? chiese il frate. Io son qui, mi son messo volontario
nelle vostre mani, perchè il Signore ha voluto tentare un'ultima via per
aprirvi gli occhi, ed ha scelto me per suo strumento. Ora che il suo servo non
è più atto a nulla, ei lo chiama a sè, e gli mostra la gloria del paradiso. Or
dunque che tardate ad uccidermi?
- E voi pure, siete
dello stesso avviso? chiese Girardolo al padre Andrea, il quale stava a capo
chino recitando fervorosamente le sue orazioni. Anche a voi fa gola la palma
del martirio? Se dovessi badare alla ciera, parmi che non vi dovrebbe
rincrescere tanto questo mondaccio doloroso, perchè m'avete un viso paffuto a
rubicondo che consola. Basta: Ognuno ha i suoi gusti, ed io non sarò già quello
che ve li disputerà.
Padre Andrea non diè
retta alle maliziose parole di costui, e tirò innanzi a pregare, perchè sentiva
dentro di sè il bisogno di accostarsi tenacemente a Dio per non pensare più
alla terra, dalla quale, a dir vero, distaccavasi un po' malvolentieri. Con
tutto ciò, siccome non voleva parer di meno del padre Teodoro, mostravasi esso
pure infervorato di santissimo zelo, e fors'anche lo era: ma la umana fragilità
combatteva in lui più potente e più libera che non in quell'anima grande, e il
pensiero della morte vicina gli appariva più terribile e più fiero che mai.
Quanto a speranza di cavarsela, non glien'era pur venuta l'ombra, perchè sapeva
già di che natura fosse il Duca, e peggio poi che razza d'uomo era quel
Girardolo della Pusterla, ministro, procuratore, faccendiere, imbroglione,
mezzano, insomma l'occhio destro di Barnabò. Costui era temuto in Milano assai
più che il Duca medesimo; perchè Barnabò poteva qualche volta perdonare per
capriccio, Girardolo, sia per entrare nella grazia del suo signore, sia per
esercizio di potere non ne menava mai una buona. E lo sapevano gli
ecclesiastici, coi quali più specialmente aveva a fare, e che non gli uscivano
mai salvi dalle mani. Basti il dire, che uno dei capi d'accusa dei quali era
stato citato il Duca a scolparsi davanti il pontefice, era appunto questo di
aver accordato sì gran potere a un tal favorito, il quale ne abusava a piacer
suo perseguitando soprattutto i preti.
In questo mezzo il
Medicina era ritornato insieme con quattro alabardieri, i quali andarono a
collocarsi a fianco dei due frati. Poscia fattosi vicino a Girardolo, gli
disse:
- Messere, tutto è
pronto. Il Duca nel partire aveva già dato il comando allo Sciancato, e quella
buona lana, che quando si tratta di dar la corda od abbruciare alcuno, gli è
come a nozze, non se l'è fatto dire due volte. Aprite la finestra e guardate
giù sullo spianato, che vedrete come ogni cosa va a maraviglia.
- Va bene; la legna è
preparata, e lo spianato comincia già a brulicare di gente. Bisogna dire che la
nuova sia corsa a quest'ora per la città. Guarda, come corrono, quasi andassero
ad una festa. Balordi! Ehi, avvertì lo Sciancato che disponga all'ingiro
maggior numero di alabardieri, perchè il popolo è curioso, e ad ogni modo va
tenuto in rispetto.
- Ho capito, rispose il
Medicina.
- Ora scendiamo, disse
Girardolo volto agli alabardieri, e questi presi in mezzo i due frati,
s'avviarono giù per le scale. Quando furono giunti sotto l'androne, proprio sullo
sboccare del ponte levatoio, e che si parò alla vista dei frati la catasta
della legna e la fila dei soldati che la circondavano, entrambi alzarono gli
occhi al cielo come in atto d'invocare la divina misericordia, poi mossi da un
medesimo impulso si gettarono nelle braccia un dell'altro, e si tennero così
avvinti per qualche minuto. Il primo a sciogliersi da quell'impulso fu il padre
Teodoro, il quale inginocchiatosi davanti al compagno, gli disse: - Padre
Andrea, perdonatemi, e datemi la vostra benedizione.
Padre Andrea, a cui
quell'atto aveva destato nell'animo una commozione straordinaria non potè
trattenere una lagrima, e disse con voce interrotta dai singhiozzi:
- Che Iddio vi
ricompensi e vi benedica. In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito
santo.
Poscia rilevatolo, e
inginocchiatosi alla sua volta, piegò le mani sul petto aspettando la
benedizione. Al che il padre Teodoro distese le mani sul capo di lui, e
accennando in pari tempo alla moltitudine circostante, gridò con voce chiara e
forte:
- Che il Signore
benedica te, suo servo, e questo popolo gemente nella servitù, e i tristi che
lo opprimono, e anche questi che ci conducono a morire senza sapere che cosa si
facciano. Possa il nostro sangue fecondare questa terra isterilita, e produr
frutti di amore e di pace.
- Amen, rispose padre
Andrea nell'alzarsi.
- Ora andiamo, disse
padre Teodoro, e nell'avviarsi intuonò con voce alta: Miserere mei Deus
secundum magnam misericordiam tuam.
- Et secundum
moltitudinem miserationum tuam dele iniquitatem meam, rispose padre Andrea,
il quale aveva trovato un insolito coraggio e sorrideva nella speranza del
premio celeste.
I pochi mascalzoni
accorsi eransi accalcati all'ingiro della spianata, tenuti in freno dagli
alabardieri, i quali di tanto in tanto davano loro sui piedi e sulle mani
coll'asta dell'alabarda e ridevano accennandosi tra loro.
- Ahi! sclamava un
ragazzotto di forse tredici anni, non ho le mani di pasta, io. Infine, che cosa
ho fatto?
- Ti sta bene, gli
diceva un grosso omiciatto, non dovevi ficcarti innanzi; sai però che le
guardie ci sono per qualche cosa.
- Asperges me hysopo,
et lavabis me, et super nivem dealbabor, borbottava una vecchia raggrinzita
e nera del viso come una antica pergamena, la quale ripeteva divotamente i
versetti del salmo recitato dai due frati.
- Volete tacere, Agnese,
affrettavasi di dirle all'orecchio una grossa comare zoppa di un piede, volete
tacere. Non sapete che quei due frati sono eretici, e che il dire le orazioni
ch'essi dicono, è peccato?
- Davvero? Eufemia!
rispondeva l'altra spalancando gli occhi. Quando è così non apro più bocca, e
che il Signore mi perdoni.
- Eh! via, non è poi ben
provato che siano eretici, saltò a dire un tale che a giudicarlo dalla ciera
doveva essere un pescivendolo, e potrebbe darsi che fossero più eretici quelli
che li fanno morire. In ogni caso, il miserere è sempre il miserere,
e il bene che si dice frutta sempre.
Tali e somiglianti
discorsi teneva la moltitudine, e per moltitudine vogliamo che si intendano
quattro garzoni fuggiti a qualche officina, e alcune femmine trattevi dal caso
o dalla naturale loro curiosità. I due frati intanto erano giunti davanti a
quella specie di viuzza praticata nella catasta, per la quale, quei che
dovevano essere abbruciati, entravano fino nel mezzo del rogo per essere così
circondati da ogni lato dalle fiamme. Primo entrò il padre Teodoro, poi venne
padre Andrea, sempre recitando il salmo ad alta voce. E anche dopo che furono
dentro, anche dopo che la fiamma ebbe cominciato ad appiccarsi ai quattro lati
del rogo, udivansi tuttavia le voci sonore dei frati tra il crepitare delle
fiamme e lo sfasciarsi della legna. Il rogo non era più che un solo vortice di
fuoco, che le parole uscivano ancor chiare e robuste. Finalmente al rovinare
che fece un lato della catasta, le voci cessarono improvvisamente, e tutto
tornò silenzioso. Le fiamme si spensero, i curiosi si dispersero, gli
alabardieri e quei del Duca rientrarono nel castello, e di tutto
quell'avvenimento non rimasero che poche ceneri sullo spianato.
Il Duca intanto, appena
smontato al suo castello di Marignano, dava gli ordini per una gran caccia da
tenersi il mattino appresso, e non pensava più ai due frati come se mai non
fossero esistiti.
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