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Carlo Tenca
La cà dei cani

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I consigli di Dio lampeggiavano sugli occhi dell'indurato Barnabò colla morte del figlio e della nuora, e colla vicinanza della peste; e pure nulla giovava a fargli cangiar costumi. Non so se sia verità, o se un sogno ed un inganno del volgo ciò che racconta il nostro annalista, dove dice, che nel mese di maggio apparve nella città di Milano alle diecinove ore del giorno un circolo di fuoco, dentro di cui vedevasi il capo di un uomo morto, dalle spalle in su, il quale pareva che ardesse; e durò per un'ora e mezzo assai vicino a terra, sopra il palazzo di Barnabò, cosicchè ognuno lo potette vedere; e poi disparve.

Giulini, Memorie di Milano.

 

La nuova della morte dei due frati non avea destato gran rumore in Milano, perchè omai la gente aveva fatto il callo a cosiffatti avvenimenti, poi quell'accusa di eresia che erasi sparsa attorno, diminuiva in gran parte la compassione. Ben v'erano alcuni, i quali beneficati già dal padre Teodoro, e sicuri della virtù di quel sant'uomo, non volevano prestar fede a quelle voci; ma ad ogni modo stringevansi nelle spalle, e dicevano: sia fatta la volontà di Dio. Tanto il timore aveva oppresso gli animi, che fino la compassione era isterilita, e niuno piangeva la sorte degli altri, perchè diceva - Oggi è toccata a lui, domani può toccare a me. - Però nel convento dove i due frati, e specialmente il padre Teodoro, erano tenuti in gran conto, e, cosa rara, erano amati da tutti, l'annunzio della loro esecuzione produsse un senso straordinario. Appena la notizia ne venne, l'abate fe' chiamare i frati a concistoro, e con un breve discorso esortandoli alla rassegnazione ed alla pazienza, e proponendo loro quei due siccome modelli di virtù, volle che si celebrassero le loro esequie con tutto il decoro che convenivasi alla circostanza, e che i loro nomi fossero venerati siccome quelli di due martiri della fede di Cristo.

Come rimanessero poi il nostro armajuolo e il garzone nell'udire quel fiero caso, è più facile imaginarlo che esprimerlo con parole. Allorchè quel frate Pasquale, di cui serbava grata memoria il ventre di Martino, venne a darne la nuova nella cella ov'erano raccolti i due sventurati in compagnia del fanciullo, Stefano si lasciò cadere sopra una seggiola come colpito dalla folgore, e Martino non ne fu meno dolente e maravigliato. Il povero armajuolo pensò in quel punto che la misericordia di Dio l'avesse propriamente abbandonato, giacchè per aggravare la sua sventura aveva perfino sagrificato due de' suoi servi. A tale idea si strinse il capo nelle mani, quasi in atto di tenerlo a segno, e invero sentiva che la sua mente non poteva reggere a tanto succedersi di sventure, e dubitava di , degli uomini e perfino del Signore. Frate Pasquale, vedendolo così addolorato, stimò più opportuno lasciarlo solo e libero di sfogarsi, tanto più ch'egli stesso aveva troppo il cuore gonfio per la morte de' suoi confratelli per poter consolare altrui. Laonde pian piano si ritirò dicendo all'orecchio di Martino:

- Fate di consolarlo voi quel pover'uomo, perchè io mi sento più voglia di piangere che di parlare. In ogni modo fate conto di essere ancora suoi ospiti, e state a vostro agio nel convento, come se vi fosse ancora quel santo uomo.... Anzi adesso vi avranno tutti maggior riguardo. Addio, la pace del Signore sia con voi.

Martino, poichè il frate fu uscito, prese la seggiola e portatola vicino all'armaiuolo vi si pose a sedere, aspettando ch'egli alzasse il capo. Ma Stefano pareva assorto in tristissimi pensieri e aveva la fronte cupamente rabbujata, come uomo che sta meditando alcun che di sinistro. Il garzone rimase profondamente rattristato a quell'aspetto, perch'egli non aveva mai veduto l'armajuolo così rabbuffatto in viso, neppure quando arrovellavasi con lui, e gli dava qualche scrollatina per avere svignato la bottega. Per lo che, temendo di qualche disgrazia peggiore, volle tentare di rabbonirlo se era possibile, e, chiamato a il fanciullo, gli accennò il padre suo e gli disse all'orecchio:

- Va, e abbraccia il papà, e digli che gli vuoi bene, perchè ne ha bisogno.

- E che cosa ha il papà? chiese il fanciullo pure a voce bassa; piange forse perchè gli hanno portato via la mamma? E questo diceva, perchè la sera innanzi aveva udito raccontare il fatto per disteso, allorchè c'erano i due frati.

- Sicuramente, ch'egli è per ciò, disse Martino. Or va, e fagli una carezza, e tienlo ben istretto finchè non ti dia un bacio.

Il fanciullo guardò tutto dolente il padre suo, poi fattosi vicino, gli salì sulle ginocchia, e colle braccia avvinghiatosi al collo, si diè a coprirlo di baci. L'armajuolo rimase ancora per qualche tempo nella sua attitudine meditabonda, e parve far forza a medesimo; infine, cedendo a quell'impulso naturale che gli sorgeva nell'animo, prese il ragazzo tra le sue mani e, guardatolo con atto d'ineffabile tenerezza, non disse che queste due parole: - Povero Marco. - Ma quelle parole dinotavano bastantemente che il cuore di Stefano era vinto, e che la sua mente cominciava a rischiararsi. Allora Martino non aspettò ch'ei ricadesse nella sua tristezza, ma voltosi d'un tratto a lui, gli disse:

- Or via, messer Stefano, che cosa dite che dobbiam fare?

- Partire tosto di qui, rispose l'armajuolo senza alzar gli occhi, intanto che con una mano seguitava ad accarezzare il fanciullo.

- E dove volete che andiamo? chiese di nuovo il garzone.

- Dove il diavolo ci porta. Che mi fa a me del luogo? disse Stefano corrucciato. Qui già non tira buon'aria per noi.

- Ma frate Pasquale m'ha dato sicurtà di rimanere, finchè ne piace, e m'ha detto che ci avranno tutte le cortesie possibili in memoria di quei due martiri che oggi furon falli morire.

- Lo so, lo so, rispose Stefano sospirando, che tutti volevano un gran bene al padre Teodoro, ed anche al padre Andrea, e che per ciò ci avrebbero riguardo siccome appartenenti a loro due. Non è dell'ospitalità di questi buoni frati ch'io temo; poveretti, essi hanno fatto tutto quello che possono a nostro prò.

- E di che cosa temete adunque? domandò Martino.

- Di che? del Duca, ossia dello Scannapecore. Credi tu che a quest'ora non sapranno ch'io sono rifuggito qui? E se nol sanno, che possano tardar molto a venirne in chiaro?

- Oh! non ardiranno venir a levarci di qui: sarebbe troppo grande insulto alla chiesa di Dio.

- Tu dici questo per ridere, eh, Martino? soggiunse tosto l'armajuolo. Che sì che il Duca avrà molto rispetto alla chiesa ed a chi vi abita. Ne hai sotto gli occhi l'esempio. Pensi tu, che se ha fatto abbruciare quei due santi uomini per una cosa da nulla, si rimarrebbe dal mandar sossopra tutto il convento e dal far arrostire tutti i frati, dall'abate al portinajo, quando volesse cavarsi una voglia, un capriccio, come questo?

- Ebbene, disse Martino alzandosi da sedere, eccomi qui, partiamo; io sono sempre con voi.

- Adagio, adagio, mio caro. Se non dobbiamo rimanere per non mettere in pericolo i nostri ospiti insieme con noi, non dobbiamo poi anche darci così alla cieca nelle mani del Duca. E l'uscire adesso sarebbe come dire, pigliateci. Bisogna lasciar passare il primo rumore. Questa notte dormiremo ancora qui, e domattina prima che faccia giorno usciremo di Porta Giovia, e sia di noi quel che è destinato.

- Udite, messer Stefano, prese a dire Martino. Voi già sapete che io vi sarò compagno sia nell'andare, sia nello stare, e di questo non ne parliamo. Solo voleva dirvi, che mi sa male di partire proprio così alla disperata, senza cercar di ajutarsi a restare.

 - E che modo vorresti tu adoperare? disse l'armaiuolo sorridendo amaramente.

- Eh! messer Stefano, rispose il garzone, io non mi do ancora del tutto per vinto. La scomparsa del cane, e soprattutto quella della vecchia Marta, non l'ho ancora potuta ingojare. Se non li ha portati vìa il diavolo entrambi, in Milano ci devono essere; e poi, la vecchia Marta, con quel brutto nome di strega, deve aver di grazia a tornar a casa, se non vuol dormire la notte al sereno. Lasciate che stassera faccia una corsa fino al Carobbio, e vi saprò dire qualche cosa. Quell'andarsene così ad occhi chiusi non mi va a sangue, e chi sa che le faccende non si voltino. Se ne sono raccomodate di peggiori.

- Basta, disse l'armajuolo scrollando il capo con tuono di incredulità, per me fa quel che vuoi. Bada però a non capitar male.

- Eh! mio Dio, lasciate fare a me, che so come si vada attorno di notte senza inciampare. Così avessi in tasca tante lire, quante volte battei le strade di sera, quando c'era il taglio del piede a chi era colto. E i miei piedi, vedete, sono sani e lesti, e mi giovano a maraviglia.

Infatti Martino non aspettò neppure che la sera fosse innoltrata, e colla permissione di frate Pasquale, il quale era stato assunto all'ufficio di guardiano per la morte di padre Andrea, uscì di soppiatto dal convento, e non ritornò che dopo una buona mezz'ora. L'armajuolo, quantunque avesse mostrato poca fiducia nel tentativo del garzone, lo stava però aspettando con molta ansietà, perchè la speranza è come la pece, che dove s'attacca, lascia il segno. E Stefano sperava, senza sapere come, di che, ma pure sperava, e per quel momento sentivasi quasi sollevato dall'angoscia che l'opprimeva. Quando poi vide il garzone entrare tutto allegro nella cella, il cuore gli saltò di gioja, e tesagli una mano, gli disse affannoso:

- E così, com'è andata?

- Benone, messer Stefano, non poteva capitar meglio. L'ho detto io, che chi cerca trova, e chi non vuol cercare suo danno.

- Via, spicciati, di' su, non tenermi in questa ansietà, disse l'armajuolo respirando appena.

- Ih! ih! messer Stefano, adesso v'è tornata la fiducia, neh? disse il garzone. Ma non importa, ora non voglio darvene cagione. Sappiate intanto che il cane è trovato.

- Trovato, dici? propriamente trovato? sclamò l'armajuolo, che tu sia benedetto, figliuol mio, tu mi torni in vita. E dov'è quella bestiaccia, dov'è?

- A bel bello, messer Stefano, un cane non è mica un balocco da mettersi in tasca, e nemmeno si può condurlo via così sui due piedi.

- Ma l'hai almeno veduto, chiese Stefano.

- Neppure.

- Ma in che modo dunque l'hai trovato? parla una volta in nome del cielo?

Se mi lascerete dire, parlerò, rispose il garzone. Ecco qui la cosa come avvenne. Uscito di qui, corsi difilato alla casa della vecchia Marta, e su per la scala, e siccome trovai l'uscio socchiuso, entrai a dirittura. La vecchia si volse a un tratto, ma sulle prime non mi riconobbe; poscia, quando ebbi sbarazzato il viso, gettò un grido e mi corse incontro: - Che? siete voi, proprio voi, che vedo? - La ribaldaccia mi credeva già ito a ingrassar cavoli. Io allora fo muso da saraceno e le dico - Dov'è il cane? - Ed essa - Ah! sì poveretti, lo so che avete patito molto a cagione di quella bestia - Ed io sempre più fiero. - Dov'è quel cane? - Essa allora si a piangere, mi prega e mi scongiura, che non l'ha fatto a posta, che fu costretta, e cento altre ciarle di tal fatta, tanto che riuscì a dire che il cane c'era, e sapeva in che luogo, ma che bisognava far la cosa segretamente, perchè guai a tutti; infine che tornassimo entrambi domani a sera che ce lo avrebbe consegnato.

- E tu hai creduto a tutte le bugie che colti t'ha infilzato, disse Stefano. Va, non ti credevadolce.

- Eh! non sono poi quel gonzo che credete, rispose Martino. Pure, se aveste veduto come piangeva, e come m'andava supplicando, avreste detto voi stesso che faceva daddovero. E non contento di ciò, l'ho minacciata così fieramente, che varrà la paura se non varrà la coscienza; infine poi l'ho fatta giurare, per tutti i vangeli del mondo, che non ci avrebbe traditi, e se aveste veduto con che fervore invocava il Signore e la Beata Vergine. Sicchè per questo lato son sicuro.

- Orsù, lo vedremo domani, disse Stefano. Ora è tempo che ci corichiamo, perchè tu avrai bisogno di dormire.

Ciò detto, Martino col fanciullo si accomodarono alla meglio sopra il letticciuolo, e l'armajuolo si distese sopra una seggiola, rifiutando a tutta forza di coricarsi. Tutta la notte e tutto il appresso passarono senza che nulla accadesse di memorabile, almeno così pare a noi, perchè il nostro cronista lascia a questo punto i suoi personaggi, e non li ripiglia che in sulla sera del giorno vegnente. La quale, poichè fu giunta, Stefano prese commiato dall'abate e da frate Pasquale, diè a portare il fanciullo a Martino, e con lui s'avviò alla volta del Carobbio. La notte era già innoltrata d'alquanto, e l'oscurità così fitta che non vedevasi a un palmo dal naso. Allorchè i nostri profughi arrivarono davanti a quella tal porticina, l'armajuolo, nel rivedere quel luogo, sentissi rimescolare il sangue dentro le vene, e pensò allo strazio sofferto tre giorni addietro; pure si fece forza ed entrò. Se non che, nello sboccare che fecero nel cortile, Stefano si sentì afferrare per un braccio, e udì la voce di Martino che dicevagli sommesso all'orecchio:

- Su, pigliate voi il fanciullo, messer Stefano, che salirò io dalla vecchia. Non è cosa prudente il metterci entrambi nella trappola, se mai ve ne fosse. Voi state sulla via ad aspettarmi.

- No, Martino, rispose l'armajuolo. Se mai havvi pericolo, non voglio che tu ti esponga un'altra volta per me. Via, taci, ora voglio così. A dirti il vero, muojo anche dalla voglia di dir due parole a quella vecchia del diavolo.

- Sia come volete. Io mi tratterrò fuori della porta. In ogni caso non avete che a chiamare.

- Lascia fare a me; ho qui con che farmi chiaro; e toccava il pugnale.

Questa prudenza di Martino eragli stata suggerita dalla vista di un'ombra che i suoi occhi di lince avevano scorto nel cortile, la quale poteva benissimo esser prodotta da una illusione della sua fantasia, ma ad ogni modo gli aveva dato a pensare. Ei non ne fe' motto all'armajuolo per non mettere la porta a rumore e mandar fallito il suo disegno; ma stimò opportuno adoperare quella cautela e porsi in guardia contro ogni evento. Pertanto accomodatosi come meglio potè il fanciullo sul braccio sinistro, brandì colla destra un coltellaccio che teneva seco ad onta del divieto del Duca, e collocossi allo sbocco della porta, dicendo tra : - Per Dio, se c'è alcuno dentro, dovrà passare di qui, se pure non è un fantasma.

L'armajuolo intanto aveva salito la scaletta, e trovato l'uscio aperto, era entrato nella stanza della vecchia Marta. Costei stava seduta davanti a un gran cammino, che era tutto l'ornamento di quella camera, e con un ferro andava attizzando sul focolare quattro carboni che minacciavano di spegnersi ad ogni istante. Dal cammino pendeva una pentola, in cui bolliva non so che strano intingolo, il quale mandava un odoreperfido da appestare le nari di qualunque cristiano. La camera era illuminata soltanto da quel meschino fuoco, ond'è, che tranne un po' di spazio all'intorno del focolare, il restante giaceva nell'oscurità. Al primo entrare dell'armajuolo, s'udì qualche cosa agitarsi in quel lato della stanza non rischiarato, e un brontolìo sommesso come di un cane che si svegli; ma un sibilo della vecchia bastò a tornare ogni cosa in silenzio. Stefano, che aveva udito quel brontolìo e quel dimenarsi, riconobbe tosto l'animale e sì sentì allargare il cuore dalla gioja, non però in guisa che non si volgesse sdegnato alla vecchia e le dicesse:

- Or via, Marta, la coscienza v'ha finalmente parlato? V'è rincresciuto una volta del male che avete fatto alla povera gente? Meritereste che io mettessi a bollire le vostre ossa dentro quella pentola, vecchia sciagurata. Ma, pazienza, per questa volta v'ho perdonato, e sappiatemene grado. Orsù, datemi il cane, e che ogni cosa sia finita.

La vecchia, la quale teneva volto il dorso all'uscio, girò un cotal poco gli occhi a quelle parole, e senza aprir bocca alzò le spalle con un gesto di sprezzo e tornò al suo ufficio di rimestare il fuoco. L'armajuolo fu più maravigliato che sdegnoso di quell'atto, e pensò che la vecchia non concedesse di buon grado il cane, e lo facesse solo costretta dalle minacce di Martino; il perchè, mosso un passo innanzi, disse:

- Ho capito, vi sa male di dover fare un po' di opera buona, non è vero? Eppure io vi credeva di miglior pasta. Ma già voi altre donne ingannate sempre. Basta, non monta andar in collera per ciò: se non me lo consegnate voi il cane, me lo piglierò da per me, e la faccenda è accomodata, va bene così?

- No, rispose la vecchia con voce rauca e profonda, che pareva uscisse di sotterra.

L'armajuolo che erasi mosso in cerca del cane e lo chiamava colla voce, si trattenne stupefatto a quella risposta, e uno strano sospetto gli balenò nella mente. Colla mano corse al pugnale che teneva sotto il farsetto, poi avvicinossi cautamente al cammino. Ma ad ogni passo che faceva il sospetto gli andava lontano mille miglia, e quando le fu affatto vicino non ebbe più l'ombra del dubbio, che non fosse la vecchia Marta. Sua quella grama vestaccia che traeva al nero, sua la pezzuola, posta sbadatamente sul capo e dalla quale scappavano alcuni rari capelli grigi, sua l'incurvatura della persona; insomma non iscattava un pelo. Però se il sospetto era fuggito, non era però caduto lo sdegno, ond'è che postale una mano sulla spalla, e scossala fortemente le disse:

- Vecchia del demonio, hai piacere forse ch'io stritoli questo tuo sozzo carcame, perchè mi rispondi in tal guisa? Vuoi tu ch'io mi ricordi del mal giuoco che m'hai fatto, e ne pigli vendetta a misura di crusca?

- Bel bello, Stefano mio, rispose la vecchia volgendosi d'un tratto e cacciando indietro la pezzuola, le mie ossa sono di pasta alquanto più dura e scottano le dita a chi le tocca.

- Potenza di Dio! lo Scannapecore! gridò l'armajuolo, balzando indietro d'un passo.

- Ah! ah! disse il canattiere con quel suo ghigno ironico, t'è passata adesso la voglia di stritolarmi, e di pormi a bollire dentro la pentola? Gaglioffaccio! Hai creduto di farmela tenere, ma fallasti nei conti. Ora tocca a me a dirti: vuoi tu ch'io mi ricordi delle minacce e delle spavalderie che facevi alle mie spalle?

L'armajuolo non disse una parola, ma lo stette guardando in atto di fierissima risoluzione, e ringhiava tra i denti. A un tratto, spiccato un salto, si slancia sopra il canattiere col pugnale innalzato per ferire, e colla sinistra afferratolo alla gola, colla destra gli menò un colpo al cuore, che guai se l'avesse colto, tanto era dirizzato giusto. Ma il caso volle che la lama s'impigliasse nella vesta che il canattiere aveva indossato per rassomigliare alla vecchia, e per quanto l'armajuolo s'ingegnasse di cavarnela, non ne venne a capo. Lo Scannapecore, il quale sebbene avesse pensato di trovar resistenza nell'armajuolo, non sognava neppure di dover essere assalito a quel modo, ebbe appena il tempo di chiamare i compagni, e tentò di abbassarsi per dar di piglio al ferro che giaceva sul focolare. Ma Stefano, il quale vide che del pugnale non poteva più giovarsi, e che gli era un perder tempo, non gli lasciò agio a sciogliersi dalla prima stretta che gli diede, anzi, abbandonato d'un tratto il pugnale, gli si avvinghiòforte alla persona, che al canattiere venne meno il respiro. Pure trovò ancora tanto fiato da gridare una seconda volta, e fece anche uno sforzo violento per divincolarsi; ma i compagni dello Scannapecore o erano sordi, oppure fuggiti. Fin dal primo assalirsi dei due, uno strano chiarore era apparso dall'uscio tuttora aperto, e dapprima fioco e lento, erasi di poi vieppiù rinvigorito, e aveva preso un color fosco e sanguigno. Sì il canattiere che l'armajuolo erano rimasti maravigliati di quell'improvvisa apparizione, e temettero di qualche grave sciagura, e più il canattiere, il quale aveva la coscienza non troppo linda: ma, poichè trovavansi entrambi in un pericolo più forte e più vicino, non badarono più che tanto a quella luce. Chi vi badò e ne fu oltremodo spaventato, erano stati i cagnotti dello Scannapecore da lui collocati in agguato nel cortile, i quali al primo mostrarsi di quel chiarore si guardarono in viso pallidi e istupiditi, poi la diedero a tutte gambe senza trovar coraggio di voltarsi indietro. E n'avevano ben donde, imperocchè quella luce veniva da una apparizione celeste, la più strana e la più terribile che si potesse vedere. Era un teschio umano, ardente dentro un cerchio di fuoco, così vicino a terra, che pareva dovesse incendiare le case, e specialmente il palazzo del Duca, sopra il quale posava. Anche Martino fu preso da una gran paura, e temendo che le grida del fanciullo non lo scoprissero, si volse per fuggire, sapendo dove, incamminossi alla volta della bottega. Ivi, pensava, avrebbe potuto deporre il fanciullo, e poi ritornare in traccia dell'armajuoio. E così fece.

Stefano intanto a furia di arrabattarsi era riuscito a stramazzare lo Scannapecore, tanto che sentendo una mano libera, raccolse il pugnale da terra, ov'era caduto, e appuntatoglielo alla gola, gli gridò:

- Ora, raccomanda quella tua sozza anima a Dio, perchè la è finita per te.

- Oimè! pregava lo Scannapecore, non vogliate uccidermi; che pro ne caverete! Infine io non ho mai tentato di togliervi la vita.

- Lo so, ribaldo, lo so che volevi togliermi qualche cosa di più caro. Ma, soggiunse Stefano esitando, quasi sdegnasse di domandar ciò al canattiere, e di Cecilia che cosa è divenuto?

- Oh! quanto a lei, non le fu torto un pelo. Sebbene da quel che fu condotta prigione non l'abbia ancora veduta, me ne fo io mallevadore.

L'armajuolo sentì alleggerirsi d'un peso nell'udire che lo Scannapecore non aveva mai visitato la sua Cecilia, laonde raddolcito alquanto gli disse:

- Per ora ti dono la vita in grazia della nuova che mi hai dato, ma non isperare ch'io ti lasci libero, soggiunse poi vedendo ch'ei tentava di sollevarsi. Oibò, non sono sì gonzo da guastarmi le uova nel paniere, ora che ve le ho raccomodate. Vieni qui, seguitò a dire trascinandolo in un canto dov'era il letticciuolo. Giacchè hai indossato gli abiti della vecchia Marta, puoi anche giacere nel suo letto, e dormirvi finchè ti svegli la tromba del giudizio. Suvvia, ajutati a salirvi, o per Dio, ti fo assaggiare la punta di questo pugnale.

In quel mentre udissi un rumore di passi sulla loggia ed un uomo entrò nella camera. Stefano si volse minaccioso, senza però lasciare il canattiere, ma al chiarore che veniva dal di fuori, ravvisò tosto il garzone, talchè rassicuratosi, disse:

- Bravo Martino, sei giunto in tempo, cerca nella camera se mai ci sia qualche pezzo di corda per assicurare questo valent'uomo, affinchè nel dormire non caschi in terra.

Martino non durò gran pezza a frugare, e avvicinatosi al letto con un gran fascio di corde d'ogni fatta, le ravvolse attorno alla persona dello Scannapecore, poi cacciatogli addosso il saccone, ne assicurò i capi ai travicelli di ferro del letto, e lo scosse fortemente per provarne la tenacità. Quando furono sicuri che ogni cosa andava bene, e che il canattiere soffocato sotto il saccone e legato da ogni lato non poteva muovere un dito, e quasi neppur respirare, si portarono all'altro angolo della stanza dov'era legato il cane, e scioltolo, lo condussero con loro avviandosi alla volta della casa. Allorchè uscirono in istrada, l'armajuolo, visto donde veniva il chiarore, fece il segno della croce e disse:

- Oimè! qualche nuova sciagura ci deve toccare. Povera Milano! Poi, come risovvenendosi d'alcun che, disse, e il fanciullo?

- Il fanciullo è già coricato nel suo letticciuolo, rispose Martino.

- Va bene. Spero coll'ajuto del Signore che domani potremo tutti dormire nel nostro.

Così favellando erano giunti a casa, e accarezzato un po' il fanciullo, che non s'era per anco riavuto dallo spavento, si coricarono entrambi colla speranza nel cuore. E noi li lasceremo dormire in pace sino al appresso, e sognare dei casi loro finchè vogliono: solo ai lettori più curiosi degli altri, i quali chiedessero in che modo si trovasse lo Scannapecore al posto della vecchia Marta, diremo.... anzi non diremo nulla, perchè allora torremmo al nostro racconto quel po' di mistero, che a stento vi abbiamo introdotto. Però, lasciam libero ad essi di pensare che il canattiere possa essere tornato il appresso, dopo la caccia, che possa essersi recato dalla vecchia per saper nuove dell'armajuolo, che trovatovi il cane, e pigliato sospetto, abbia cavato il segreto dalla bocca della vecchia, che l'abbia costretta a spogliarsi e a sloggiare per lasciare ch'ei restasse: insomma, tutto quello che parrà loro più opportuno a spiegare la cosa. Quanto all'apparizione del teschio, se mai vi fosse qualche incredulo, abbiam posto a rinforzo di verità l'epigrafe tolta dal Giulini, colla sola differenza che, quello storico la pone nel maggio del 1383, mentre il nostro cronista ne parla siccome fosse avvenuta nel novembre del 1374.

 

Il mattino vegnente il Duca tornava dal suo castello di Marignano, e stava per metter piede nel palazzo di s. Giovanni in Conca, allorchè, nel voltarsi un tratto, si vide a lato un tale che, buttatosegli a' ginocchi e presentandogli un cane, gli chiedea mercè.

- Chi sei? chiese il Duca, il quale era io vena di buon umore.

- Stefano Baggi, armajuolo, rispose colui sempre inginocchiato.

- Ah! ah! adesso mi sovviene, disse Barnabò. L'hai trovato finalmente il cane! Già con voi altri bisogna adoperar la corda e la prigione per cavarne qualche cosa.

- Deh! messer Duca, non vogliate darmene cagione, rispose Stefano, perchè non ne ho una colpa al mondo. E qui si faceva a narrargli l'accaduto.

Il Duca lo stette ascoltando tra il maravigliato e lo sdegnoso, e quand'ebbe finito, gli disse:

- Alzati, valent'uomo; se ciò che mi narri, è vero, ti sarà fatta giustizia, e vedrai se Barnabò permette soprusi nella sua corte. Girardolo, soggiunse poi volto al suo familiare, stacca quattro lance e mandale al Carobbio per cercarvi lo Scannapecore. Vogliamo un po' godercela con quel tristo. E tu, armajuolo mio, bada di non aver detto bugie, perchè guai a te.

- Giuro per tutti i santi del paradiso, disse Stefano, che quello che dissi alla signoria vostra è vero, com'è vera la luce del sole.

- Ora lo vedremo, rispose il Duca.

Quand'ecco, intanto che le lauce stavano per avviarsi dalla parte del Malcantone, odesi un gran rumore di voci, e una moltitudine correre pazzamente alla volta del palazzo. Quando fu a pochi passi, i primi che s'affannavano, accortisi del Duca, cessarono dal gridare e diedero luogo ai sorvegnenti: tanto che lasciato uno spazio voto, si vide comparire una specie di lettiga, sulla quale era disteso alcun che rassomigliante al corpo d'una femmina. I quattro che la sostenevano, quando si videro in presenza di Barnabò, presi da subita paura, si tolsero quel peso dalle spalle e, lasciatolo cadere a terra, se la svignarono in mezzo alla folla.

- Che vuol dir ciò? chiese il Duca, il quale sospettava già della cosa.

- È lo Scannapecore, gridarono tutti in coro.

Infatti era il canattiere, il quale trovato al mattino mezzo soffocato nel letto, incapace di reggersi sulle gambe, era stato portato a braccia di popolo, così vestito da vecchia, fra le risa ed il tripudio della ribaldaglia. Il Duca appressatosi a lui, che giaceva senza trar fiato, riconosciutolo, gli diè una spinta con un piede, e disse:

- Gettate ai cani questa carogna, e che ognuno vada pe' fatti suoi.

Lo Scannapecore fu portato dentro e posto in un camerotto insieme coi mastini, dove appena giunto mandò l'ultimo fiato;e la moltitudine partissi cheta cheta, e oltremodo contenta di quello spettacolo. L'armajuolo, entrato insieme col Duca, riebbe la moglie e il garzone, e tutti e tre recatisi a casa fecero una festa grande e ringraziarono il cielo della loro liberazione.

 

FINE.

 




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