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Carlo Tenca
La cà dei cani

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  • V
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V.

 

La sventura s'avvia

Per le città frequenti

E di querele un seguito la scorta,

Tarda ella muove, e spia

Le case dei viventi.

Oggi batte improvvisa a questa porta,

Domani a quella: nè mortal perdona.

Assidua, inesorata

Ai vestiboli appon d'ogni persona

La funesta chiamata.

Schiller, La sposa di Messina.

 

A questo punto il manoscritto del canattiere manca di due fogli, e salta d'un tratto quello spazio di tempo che correva tra l'avventura in casa dell'armajuolo e il dì fissato per la mostra dei cani. Noi preghiamo i lettori a portarsi in pace questa mancanza e a non volere nessun male ai topi che per avventura avessero rosicchiato quelle carte. Alla fine la lacuna non è che di due giorni, e non è d'uopo fantasticare gran fallo per indovinare che cosa sarà accaduto durante quel tempo. Basti il sapere, e questo la cronaca lo dice, che al finire del secondo giorno, vale a dire alla vigilia della rassegna, il cane trovavasi in ottima condizione, e non aveva un pelo sconciato; sicchè erasi convenuto che il mattino appresso l'armaiuolo sarebbe andato a levarlo per condurlo poscia al palazzo di Barnabò.

 L'alba dei tafàni non istava molto a spuntare, allorchè in un salotto terreno del palazzo di s. Giovanni alla Conca, che metteva nel cortile destinato ai cani, sedevano intorno a un gran tavolone di quercia otto o nove canattieri in atto di veder il fondo a una gran pentola di Pestivino, camangiare grossolano ma ghiottissimo a que' tempi, composto di castagne peste cotte nel vino. Il loro vestire più accurato del costume, il berretto piumato, il coltello a lato, come fossero per uscire a caccia, e soprattutto l'aria più trista, più burbanzosa dinotavano sentirsi coloro in quel dì alcun che di più che negli altri; e gli atti energici o trascurati manifestavano chiaramente l'interno sentimento. I loro visi poi non erano tali da inspirare miglior confidenza, perocchè oltre la pelle incallita e bruna, e la fronte rugosa o aggrottata, la lunga barba che ingombrava loro metà della faccia, e a taluni scendeva fino sul petto, accresceva terrore a quelle fisonomie naturalmente sinistre. Questo della barba era un costume universale in quel tempo, e tutti la lasciavano crescere, i soldati specialmente, nel cui numero potevano essere compresi i canattieri. Essi adunque stavano quale seduto sopra le panche, quale sdrajato sulla tavola medesima, e di tanto in tanto cacciavano le dita dentro alla pentola e cavavano una manata di quel bollito, che sgocciolava poi sulle barbe e sui berretti. Già allora non badavasi tanto per sottile al modo di star a tavola, e quei birbi poi pensavano, non senza qualche ragione, che se la natura gli aveva forniti di due buone mani, ciò era per qualche cosa; e in quella guisa che servivano a sgozzare un cinghiale, ad abbracciare una bella femmina, a vuotare le case altrui, potevano benissimo tener luogo di cucchiajo e di forchetta,

- Ohe! sclamò uno di costoro, dopo aver rimestato buona pezza nella pentola, compari mici, siamo già al fondo. E a dire che non sono due minuti che vi stiamo intorno. Che santa Lucia conservi la vista a ciascuno di noi; che quanto all'appetito non c'è bisogno di ajuto divino.

- Bel modo invero di saziar questo appetito, soggiunse un altro. Quattro castagne non più grandi di un pisello, cotte in un vino che, se fosse benedetto, farebbe fuggire il diavolo.

- Vuoi dire che potrebbe tener luogo di acqua, neh? ripigliò il primo. Eppure è di quello della cantina dell'Abate di s. Barnaba, e credo che non lo adoperasse per lavarsi i piedi.

- Che il diavolo se lo porti, saltò a dire un terzo. S'ei beveva di questo vino, ha meritato di andare all'inferno. Per me tengo migliore d'assai il pestivino che si fa dall'Ambrosiolo presso la chiesa di s. Maria Maddalena. Quello sì che è bollito da leccarsene le dita.

- Via, via, bel garzone, lo sappiamo che hai una tenerezza particolare per quella bottega e per tutto quello che c'è dentro. Ma bada a' fatti tuoi, che gli occhi della Gilda ne han fatto cadere dei più furbi di te.

- Bada tu piuttosto a districarti dai lacci di quella tua fornaja; bel mobile per mia fè da farle addietro lo spasimato.

- Da un canto gli scherzi, amico; tu sai ch'io sono un po' permaloso, sicchè non toccarmi su questo punto.

- Ih, ih, vedi come s'infiamma subito, e gli salta la mosca al naso. Ho proprio colto nel segno adunque? Povero Scortica, sei cotto davvero?

Lo Scortica si fece rosso in viso e stava per rispondere malamente a quello scherzo, quando uno dei compagni che non aveva mai aperto bocca, allungò le mani dal posto ove era, e tolta la pentola davanti ai due che parlavano, se la tirò bravamente sotto il mento, dicendo:

- Intanto che voi state a piatire, io vedrò di pescare le ultime castagne qui dentro. E tu, Randellajo, grida pure la croce addosso alle fornaje, già tu fosti sempre più amico del vino che della pagnotta; nè ti biasimo per ciò. Ma in fin dei conti il pane è pane, e il vino è vino, e coll'uno e coll'altro noi ce la sbavazziamo in barba della peste e della carestia.

 

Col favor di san Giovanni,

La mattana non ci punge,

Ogni sorta di malanni

Ci salutano da lunge,

Sempre brilli, sempre in festa

La malìa non ci molesta.

 

- Bravo Graffiapelle, bravo, la canzone! la canzone! gridarono tutti in coro.

- Sapete voi, disse questi, che il Medicina vi ha aggiunti due o tre rispetti circa la faccenda dell'altro dì? Già m'ha sempre avuto ciera di capo strambo, ma da far canzoni poi... Bisogna dire che quegli occhi cavati, e quei cento capestri l'abbiano fatto andare in visibilio. Basta; udrete.

- Suvvia, a te, intuona, che ti verremo appresso.

- Ancora due bocconi, e mi sbrigo. Maladetti quei cani, questa mattina, fanno un guaire, uno strepitare che par che voglia subissare il palazzo. Basta, farem conto che sia l'accompagnamento del mandolino.

Ciò detto, spinse lontano la pentola, si asciugò la bocca col rovescio della mano, e alzatosi in piedi colmò prima il bicchiere, il qual atto fu imitato da tutti i compagni; poi alzatolo fino al livello degli occhi, lo guardò alquanto con un sorriso suo particolare, e disse;

- Proprio di quel che brilla, e che si cambia in sangue. Benedetta la cantina del Duca.

E trangugiatolo d'un fiato, depose lentamente il bicchiere sulla tavola, poi strette le labbra, le fè scoppiettare come si farebbe per un bacio, ma con un suono più risoluto e più tenace, con quel suono che esce proprio dallo stomaco soddisfatto. Dopo il qual atto intuonò la prima strofa, la quale doveva essere ripetuta in coro da tutti.

 

Ringhia, latra, fa baccano,

Nobil razza di mastino,

Ogni muso di cristiano

Tiri dritto il suo cammino,

E in udir la nostra voce

Faccia il segno della croce.

 

- Bravo, Graffiapelle, gridò lo Scortica; m'hai preso certo tuono di voce, che mi sembri un canonico. Presto ti porremo indosso il piviale. A noi, ragazzi.

E tutti insieme ripeterono la cadenza compresa negli ultimi due versi.

- Tocca a te, Randellajo, disse allora il primo che aveva intuonato.

- Eccomi, eccomi.

 

Mercè i cani e la moria

Noi vaghiamo a nostro grado

Solitarj per la via,

Sempre pronti a trarre il dato,

E ci guatan con rispetto

Il cappuccio e il corsaletto.

 

E tutti in coro

 

E ci guatan con rispetto

Il cappuccio e il corsaletto.

 

Ora a me, disse lo Scortica, e colmatosi lestamente un bicchiere infino all'orlo, lo votò d'un fiato, e gridò con voce stentorea:

 

Col favor di san Giovanni

La mattana non ci punge,

Ogni sorta di malanni

Ci salutano da lunge,

Sempre brilli, sempre in festa

La malìa non ci molesta.

 

Questa volta il coro non si tenne pago della cadenza, ma volle ripetere l'intera strofa, con un baccano che ne tremarono le vôlte della camera. Intanto un altro era sorto e incominciava:

 

Se vegliam spesso le notti.

 

Ma Graffiapelle gli troncò la canzone in gola, e accennò colla mano che voleva parlare.

- Un momento, bel garzone, i nostri palati sono già arsi come bragie, si sospenda per un istante la canzone e si faccia un brindisi in onore di s. Giovanni.

- Viva s. Giovanni, viva il nostro protettore, gridarono tutti, empiendo i bicchieri e tracannandoli.

- Ora, Sciancato, puoi tirare innanzi.

Lo Sciancato non se lo fece dire due volte, e ripigliò:

 

Se vegliam spesso le notti

Invocando san Nicola,

Se un visin, ma di quei ghiotti,

Ci fa scorrer l'acqua in gola,

Il vegliare almen ci frutta,

Nè restiamo a bocca asciutta.

 

E il coro

 

Il vegliare almen ci frutta,

Nè restiamo a bocca asciutta.

 

In quel punto una voce sconosciuta che partiva dal cortile e s'avanzava alla volta del salotto, udissi cantare:

 

Se alle nostre oneste voglie

È d'ostacolo un marito,

O il pudor di sciocca moglie,

Cui non piace un muso ardito,

Colla corda e col danaro

Li facciam tacer del paro.

 

E intanto che gli altri ripetevano:

 

Colla corda e col danaro

Li facciam tacer del paro,

 

un uomo vestito nella stessa guisa che i canattieri, grosso e tarchiato della persona, e con un viso ricagnato da far paura, entrò nel salotto e prese posto nel crocchio.

- Sei giunto in tempo, Scannapecore, disse Graffiapelle, colmati una mezzina chè l'hai meritata. Quella canzone udita da lontano ha prodotto un effetto straordinario. E poi l'hai cantata con un gusto, con un fare così saporito, che valeva un tesoro. Di' un po', sarebbe forse vero che quelle parole quadrassero a' casi tuoi?

- Eh, baje, rispose lo Scannapecore, sedendo con quell'aria soddisfatta di chi si è assicurato il giuoco.

- Eppure, ripigliò l'altro, ho udito certe voci intorno alla Cilia. Basta, hai un osso duro a rosicchiare, perchè Stefano l'armajuolo non è un baggeo da pigliarsi a scherzo, come tanti altri, ed anche la Cilia è una testolina. Ma di' un po', è dessa ancora quella bella creatura di sette anni fa?

- Capperi, non iscatta un pelo, rispose lo Scortica. L'ho veduta due settimane fa, ch'ell'era scesa in bottega per non so che, e vi so dire che è un boccone da principe. Non ha mica cattivo occhio qui il nostro Scannapecore.

- Orsù, pigliò a dire costui, tiriamo innanzi la canzone, e lasciamo stare le femmine nella loro malora.

- Ohe, disse il Graffiapelle, a udirti te, non mi sembri molto innanzi nelle buone grazie di quella ritrosetta. Ho paura che tu debba fare un buco nell'acqua. La sarebbe pur bella! Lo Scannapecore imbietolito e scornato per soprappiù.

- Adagio, carino, adagio, rispose lo Scannapecore un po' imbronciato. Io sono innanzi e non sono: infine, che cosa ti fa a te? In ogni caso non sarà mai detto che uno, o maschio o femmina, abbia scornato lo Scannapecore. Quanto alla moglie dell'armajuolo, la è un'altra cosa, e non passeranno due dì che vedrete come si vincono le femmine.

- Che sì, che ti cascherà in braccio, neh? disse lo Scortica, oppure, piglierà a pigione il palazzo del Duca per venire ad abitare con te?

- Chi sa che non accada anche questo, disse lo Scannapecore con un sogghigno che nulla aveva di buono. Se ne son vedute tante! Ma infine questa non è cosa vostra, e a cui tocca, la sbrighi. Ora beviamo, innanzi che arrivi il Duca, e teniamci pronti alla mostra. Quest'oggi ne vogliamo veder di nuove.

- Alla sua salute, gridò lo Sciancato colmando la mezzina:, ora udiamo i nuovi rispetti del Medicina. A te Graffiapelle; ohe, a che stai guardando nel fondo della mezzina? sei forse divenuto astrologo, tu? la sarebbe bella, davvero.

- Eh, chi sa! La mia stella, come dice il Medicina, non è lassù nel firmamento, ma sta in fondo agli orciuoli. Qualche dì col gran votarne verrò a capo di scoprirla; e allora, allora vedrete chi è Graffiapelle.

- Bada piuttosto, saltò a dire lo Scortica, che questa tua stella non abbia a entrarti nel ventre, senza che tu te ne accorga.

- In tal caso, rispose Graffiapelle, potete star certi ch'essa tramonterà con me.

- Orsù, la canzone, gridò Scannapecore.

- Eccola, eccola.

 

Chi del pan non si tien pago,

Ma tirato per la gola

O coi cani o collo spago

Tende insidie a una bestiola,

Badi ben, chè un certo laccio

Lo torrà d'ogni altro impaccio.

 

- Bravo Giaffiapelle, gridarono tutti quand'ebbe finito, evviva il Medicina, ei scrive rispetti, meglio che il Bescapè.

- Cheti, figliuoli, disse lo Scannapecore, odo rumore sotto l'androne, che sia già venuto il Duca?

- Sì per Dio, sclamò lo Sciancato, ho sentito il picchio delle alabarde che posavano a terra. Suvvia, presto, nascondiamo le mezzine e la pentola, e poniamci al nostro posto. Di ragione qualcuno l'avrà veduto entrare, e sebbene non sia l'ora assegnata, poco staranno a capitare i cittadini.

Ciò detto alzaronsi tutti, e sbarazzata la tavola, quatti quatti, chi da una parte chi dall'altra se la svignarono nel cortile. Il Duca intanto aveva oltrepassato l'androne, ed era giunto proprio nel mezzo del primo cortile: con lui erano i due figliuoli Rodolfo e Lodovico, e dietro una scorta non troppo numerosa di alabardieri. Barnabò Visconti era alto della persona e vigoroso d'aspetto, quantunque avesse già oltrepassato i confini della virilità, contando a quell'epoca 55 anni. Il suo portamento era grave e risoluto, rozzi e duri i lineamenti, ma la fisonomia presentava una mistura di ferocia e di bonomia, che facilmente traeva in inganno. L'occhio però fisso e quasi impietrito nell'orbita manifestava il carattere strano e caparbio, di cui diè sì aperte prove. Indossava un robone di velluto violaceo foderato di ermellino e sormontato da un cappuccio che coprivagli quasi sempre il capo: disotto aveva il giaco di ferro, precauzione necessaria anche a un principe così temuto. Sulla fronte calva e rugosa vedevasi una ciocca di capelli grigi che sfuggiva di sotto al cappuccio, solo ornamento del capo, se ne eccettui una barba lunghissima e bipartita sul mento, siccome voleva il costume di que' tempi. Il qual costume venne poco dopo distrutto dai francesi che diffusero in Italia il gusto dei visi pelati, come vediamo dipinti i successori di Barnabò. Il che prova che la superiorità della Francia in fatto di mode non è cosa moderna, ma data da tempi antichissimi.

Ora, poichè Barnabò fu giunto nel mezzo del cortile, si trattenne alquanto, e guardossi attorno in atto d'uomo che vuol riconoscere il luogo ove si trova; appunto come un ammalato che esce per la prima volta all'aperto e guarda le vie già da lui battute quasi fossero una cosa nuova. Poscia rivoltosi a Rodolfo che gli stava alla destra, gli disse:

- Per s. Ambrogio, non mi par vero di trovarmi qui a quest'ora nel mio palazzo di s. Giovanni alla Conca. In verità io teneva per fermo di non uscire dal mio forte di Marignano che al dì del giudizio, quando il diavolo avrebbe fatto risuonare a' miei orecchi la sua tromba infuocata. Maladetta questa peste! Pareva che non la ristasse più. Sai tu, Rodolfo, ch'ella ha spazzato Milano, come una campagna dopo la messe? È questa la prima volta ch'io percorro le vie, dachè sono qui, e non volli neppur passare per la loggia, a bella posta per vedere in viso questa moltitudine che mi corre dietro ogni volta che esco all'aperto. Ma altro che moltitudine! Quattro gatti scorticati, mogi mogi, e con un viso da castagna cotta che mettono paura. Povero il mio paese!

- E per soprappiù, rispose Rodolfo, la carestia vi passeggia a tutto agio, e finisce di guastare ogni cosa.

- Quanto ai poveri, soggiunse Barnabò avviandosi alla volta del salotto, ci ho già pensato, ed ho ordinato che si distribuissero frumento e vino in buona copia, oltre le solite limosine che si fanno nello spedale di s. Lazaro dell'arco Romano, in quello di s. Giacomo, e in quello di s. Pietro e Paolo de' Pellegrini. Quello che mi sta a cuore è la mancanza di braccia in questo momento che tanto mi gioverebbero. Basta: i beni confiscati a quei ribaldi che osarono cacciare sul mio, mi daranno ajuto a chiamare qualche banda forestiera. Per ora già non c'è speranza di rappacificarsi con Gregorio XI. Potessi almeno indurlo ad accettare una tregua!

Così favellando il Duca aveva oltrepassato il salotto, ed aveva posto piede nel secondo cortile, destinato ai cani. Gli alabardieri sfilarono all'ingiro lungo le pareti, e intorno al Duca non rimasero che i due figliuoli con sei lancie e pochi famigliari. Quel cortile era bello e spazioso e pareva fatto a bella posta per una rassegna: esso era stato fabbricato nei primi tempi del governo di Barnabò, allorchè entratagli in corpo quella matta smania di fabbricare, ampliò e costrusse con ingente spesa il palazzo. Il qual palazzo era stato in origine eretto da Luchino Visconti, ed era situato allo sbocco della contrada, detta anche oggidì di s. Giovanni alla Conca, là dove all'aprirsi del Corso di P. Romana incrociansi la via dei Moroni col vicolo della Maddalena. Esso abbracciava tutto quel tratto di case che dall'angolo dei Moroni corre fino alla piazza della chiesa, ora soppressa, e la cui facciata, comechè meschina, presenta il più bel tipo che abbia Milano della gotica architettura. Barnabò inoltre aveva aggiunto a quel palazzo alcuni muri forti, guerniti di merli, alti venticinque braccia, talchè aveva piuttosto l'aspetto di castello che di abitazione principesca. Da questo palazzo, fino dai tempi di Luciano, correva una loggia chiusa, che soprastava alle case e metteva dritto nella sua corte posta vicino al Duomo, dov'è adesso la residenza vicereale: e Barnabò, che non aveva più che Luchino tenerezza di comparire in pubblico, ne aveva fatto costruire un'altra del pari coperta, che a guisa di ponte tragittava di là alla sua fortezza di P. Romana. Il nome di Casa dei Cani, attribuito allora a quel luogo, durò fino a nostri dì nella bocca del popolo, ed anche adesso avviene di udirlo qualche volta così denominato. Che poi questo titolo fosse tutt'altro che grato alle orecchie dei milanesi, non è d'uopo che lo diciamo. Chi dei nostri lettori l'ha udito pronunciare da qualche vecchio con quel tuono misterioso e con quelle scrollatine di capo così significanti, potrà far ragione del brivido che avrà messo ai nostri progenitori di buona memoria.

All'intorno del cortile si aprivano i casotti e gli steccati, dentro i quali chiudevansi i cani, ed eranvi assicurati o co' guinzagli o colle musoliere: più addentro erano le stanze destinate alle razze, ed agli alani più pregiati. Gli altri vagavano liberamente pel cortile, e addestrati, com'erano, bastava un cenno, un'occhiata dei canattieri per tenerli in freno. Tutti insieme poi, specialmente nell'ora del cibo, facevano una maladetta armonia di guaiti, di latrati, di abbaiamenti, che era una dolcezza ad udirli. E questa era musica ineffabile per le orecchie del Duca.

I canattieri al primo apparire di Barnabò eransi tirati in disparte, e col berretto in mano parevano attendere rispettosamente i suoi cenni. A vederli adesso umili e inchinati dinanzi a un'autorità maggiore della loro, un filosofo, se a' que' tempi ne fossero esistiti, avrebbe avuto campo di sciorinare un bel sermone sul nulla delle umane presunzioni. Ma il nostro cronista, che era canattiere pur esso, sebbene men ribaldo degli altri, era tanto valente in filosofia come lo speziale nel far tegole, sicchè si tenne pago al semplice mestiere di narratore, e ce li descrisse in questo atto e nulla più. Il Duca avanzossi lentamente alla volta di essi, e si diè a sguardare all'ingiro, a carezzare qualche cane di quei che vagavano nel cortile, a volgere domande sopra domande ai canattieri, intanto che costoro aprivano i cancelli, gli usci, e traevano pel guinzaglio o l'uno o l'altro dei cani favoriti.

- Veda la signoria vostra, diceva lo Scannapecore, il quale siccome il più innanzi nella grazia del principe, pigliava sempre la parola per tutti, veda come sono nutriti e addestrati questi cani; è proprio una consolazione il vederli. Osservi questi due alani, che la signoria vostra mi diè in particolare custodia; come son lucidi e snelli, che rubano gli occhi.

- È vero: due goccie d'acqua che valgono un tesoro. E quello sciocco di abate quasi me li aveva fatti stizzire. Buon per lui che il suo mugnajo lo fe' salvo dei quattro fiorini e della pelle per giunta, se no voleva alloggiarlo per un dì con un pajo di mastini perchè imparasse di che guisa van trattati i cani.

- Sarebbe pur stato un bello spettacolo. Un abate colla musoliera e col guinzaglio, disse lo Scannapecore.

- L'han provato Giovanni Sordo e Antoniolo da Terzago, e ti so dire che hanno avuto agio a pentirsene. Ma in fine l'ora della mostra parmi arrivata. Perchè non son qui quei gaglioffi coi loro cani? Suvvia, fatte che entrino, e vediamo se avvi qualcheduno, cui faccia gola una gabbia di ferro e la compagnia d'un cinghiale affamato.

- In quel punto, dato il segnale, una turba di persone d'ogni età e d'ogni professione entrò tumultuosamente nel cortile, guidando i cani raccomandati a cordicelle di filo, e non si contenne che quando fu alla presenza del Duca. I canattieri senza attendere alcun cenno si gettarono sopra i cani, e dopo averli minutamente esaminati, se erano giudicati in istatu quo, li lasciavano andare insieme con chi li custodiva; quando avevano qualche appiglio, segnavano il nome di chi l'aveva condotto, e quegli era costretto a pagare la multa stabilita. Quando poi, il che avveniva più delle volte, il povero multato non aveva nè danari nè roba da soddisfare l'imposta, allora il Duca lo faceva metter prigione, lo torturava in cento guise, e spesso lo faceva o appiccare o gettare al fuoco.

- Questo cane, gridò lo Scannapecore volgendosi al Duca, ha gli occhi rossi e cisposi ed è dimagrato di un buon terzo.

- A chi fu dato in custodia?

- A Bernardino Brivio, lanajuolo.

- Ebbene, ei pagherà due fiorini d'oro.

- Oimè, prese a dire singhiozzando il povero lanajuolo, per pagare i due fiorini dovrò chiuder bottega e andare mendicando per le strade.

- Taci là, balordo, impara ad avere miglior cura dei cani; soprattutto bada a non lasciarti cogliere un'altra volta, perchè non te la caveresti così a buon patto. Ringrazia la bontà del Duca e vatti con Dio.

- Ehi, ehi, un momento, sclamava lo Sciancato ad un ecclesiastico che era sulle mosse, a vederlo andare in volta quel cane mi ha una cera da poltrone che consola. Già voi altri preti nuotate sempre nel ben di Dio, e questo cane fu pasciuto con tutta la lautezza d'un abate. Che il diavolo mi porti se questo è atto a dare una scrollatina ad una lepre.

- Che? saltò a dire il Duca, un cane ingrassato in tempo di carestia? Ma quest'è un miracolo: bisogna dire che il corvo del profeta Elia ti porti il cibo ogni giorno. In tal caso tu puoi pagare, senza sconciarti, quattro fiorini d'oro.

- Messer Duca, supplicava l'ecclesiastico.

Ma il Duca erasi volto da un altro lato e non badava alle parole di lui: sicchè gli fu forza pigliarsi il suo cane con sè e tra il dolente e lo sdegnoso tornarsene a casa.

- Deh! messer principe, sclamava un fanciullo di forse tredici anni inginocchiandosi davanti a Barnabò, abbiate compassione di me e della mia povera mamma. Son due giorni che non mangiamo, e a casa ho quattro altri fratellini che piangono. Al prestino dei Rosti ci han dato una volta un po' di pane a credenza: e ora non ce ne vogliono dar più. Che colpa abbiamo noi se non c'è da mangiare? E sì che il primo boccone era sempre per il cane. Anche jeri c'era un po' di crosta avanzata da tre dì, e il piccino la voleva per lui e singhiozzava; ma la mamma la fece ammollire nell'acqua e la porse al cane. Oh! messer Duca, abbiate pietà di noi.

- Finiscila, storditello; a udir voi con que' vostri eterni lamenti, sembra che ogni dì siate lì per tirar le cuoja. So ben io di che piede zoppicano i miei cittadini, e so dar la giusta misura alle loro parole. Diavolo! forsecchè non avete all'epoca fissata le vostre buone lire imperiali in mercede del cane mantenuto? E queste non bastano a dar cibo ad un cane e a dieci furfantelli tuoi pari?

- Ah, mio buon signore! seguitava a dire il fanciullo sempre lagrimando, in altri tempi sì, c'era, non da sbavazzarla, ma stando a pane ed aglio, da camparla mediocremente. Ma ora che i forni sono quasi tutti chiusi, che la roba costa dieci volte tanto, e fortuna a trovarne, bisogna proprio cucirsi la bocca, e anche questo non basta.

- Via, via, per questa volta non pagherai che un fiorino d'oro, ma bada di non cadervi più.

- Oimè, gridava più forte il fanciullo, se non abbiamo un quattrino a cavarci la pelle di dosso!

- Allora avrai un pezzetto di lingua tagliata, disse il Duca, e non ti starà male perchè adesso è lunga oltre il dovere.

- Oimè, tapino, e la mia povera mamma, e il mio Ambrosiolo, e la mia Agnesina, e...

Ma il pianto gli soffocò le parole in gola, e lo fe' rimanere come stordito sul suolo: tanto che uno dei canattieri che gli si trovava vicino, vedendo che non se n'andava, gli dette un urto con un piede che lo fe' rotolare d'un tratto fino nel salotto. Ed ivi rimase alcun tempo quasi fuor di sè, e forse rimaneva fino al finir della mostra, se uno dei cittadini che se la svignava col suo cane, mosso a compassione, non l'avesse sollevato da terra e trascinato fuori all'aperto con lui. Da lì a poco rinvenuto, ricovrò forza bastante da ridursi a casa, dove trovò la madre che lo aspettava inginocchiata davanti un'imagine della Madonna. Lasciamo figurar al lettori lo spasima e l'agonia di quella meschina nell'udire così triste novelle, e nel vedere il figliuol suo spaurito e malconcio in quella guisa.

Intanto la rassegna era pressochè terminata: poche persone rimanevano ancora nel cortile, e quelle poche furono sbrigate nella stessa maniera degli altri. Ultimo affatto venne un canonico di s. Stefano, grasso e rubicondo che pareva avesse a gabbo tutti i contagi e tutte le carestie della terra. Egli sbuffava e dimenavasi irrequieto perchè Graffiapelle, il quale aveva il suo cane tra le mani, non rifiniva di visitarlo pelo per pelo, e scrollava il capo in aria di malcontento. Finalmente non potendo più contenersi, si abbassò all'orecchio del canattiere, e con una occhiata d'intelligenza, gli disse:

- Ehi! Graffiapelle, se mi sbrigate alla buon'ora, c'è un tal pizzico di terzuoli che chiedono di entrare nella vostra tasca.

Graffiapelle a quelle parole alzò il capo con un certo sogghigno tra il beffardo e il soddisfatto: ma si fe' tosto serio in viso e assunse il fare d'uomo oltraggiato nella sua dignità, quando vide a canto al suo il viso del Duca, e l'udì esclamare:

- Vivaddio! tu semini terzuoli come se fossero ceci. Ebbene, canonico mio, vedremo se saprai fare altrettanto coi fiorini d'oro. Comincerai dal pagarne una dozzina.

Il canonico inchinossi tutto mortificato e fe' l'atto d'andarsene. Ma il Duca non pareva soddisfatto, e proseguiva:

- Eh! bisogna dire che la tua prebenda sia molto lauta, perchè ti fa diventar grasso anche quando gli altri dimagrano. Tu sei di quelli di s. Stefano, non è vero?

- Sì, messer Duca, rispose il canonico.

- Orsù, domani sloggerai dal tuo posto, perchè ne ho d'uopo per alcun altro: mi hai inteso?

- Osservi, messer Duca, che chi m'ha nominato a tal posto fu l'Arcivescovo, e da lui solo dipende....

- Sozzo cane! gridò Barnabò andandogli contro, devo io imparare da te chi sono e che cosa posso fare? Ti sei dimenticato dell'editto che risguardava voi altri ecclesiastici? Orsù, inginocchiati ribaldo: perocchè qui son'io il solo Arcivescovo, il solo Papa, il solo Signore.

Il povero canonico, tutto spaurito, ebbe di grazia a inginocchiarsi finchè piacque al Duca di rimanergli davanti: poi alzatosi, se n'andò piangendo in cuor suo la grassa prebenda che gli sfuggiva di mano.

- Ora, la mostra sembra finita, disse il Duca in atto di partire, non è mancato nessuno di quei che dovevano condur cani?

I canattieri rimasero zitti senza trar fiato: ma lo Scannapecore si fece innanzi, e disse:

- Messer Duca, n'è mancato uno.

- E chi è costui? chiese Barnabò,

- Stefano Baggis armajuolo, il quale ha in custodia un alano dei più belli.

- Sai tu perchè non sia venuto?

- Credo che sì. A quanto ne udii dire, dev'essergli morto il cane.

- Maladetto! Non sanno aver cura d'un animale, che alla fin dei conti torna a loro vantaggio.

- Con permissione dell'eccellenza vostra, non fu già per difetto di cura che venne a morte quel mastino. Dicesi che l'armajuolo l'abbia ucciso.

- Ucciso, hai detto? E si ardisce qui, nella mia città, quando vi sono io, si ardisce di uccidere un cane? Scannapecore, piglia tosto con te quattro alabardieri e fa che prima di sera sia condotto qui quest'armajuolo con tutta la sua famiglia, se ne ha.

- Messer Duca, sarete ubbidito, rispose lo Scannapecore inchinandosi.

Poi voltosi a' suoi compagni, intanto che il Duca usciva:

- Avete udito? disse con aria di trionfo, e tu, Scortica, che dicevi celiando che la sarebbe venuta a star qui: ti pare ch'io sappia fare i fatti miei?

- Ma che? ma come? - Se il cane c'era? In che modo è avvenuto? - Di' sù, compare, gridavano tutti. Ma lo Scannapecore, fatto cenno agli alabardieri, e pigliato seco Graffiapelle, uscì in fretta, lasciando gli altri a fantasticare sull'avvenuto.

 

 

 




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