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Vincenzo Padula
Persone in Calabria

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LE INDUSTRIE E LA TERRA

CONDIZIONI DELL'INDUSTRIA NELLE PROVINCIE NAPOLETANE E SEGNATAMENTE NELLA NOSTRA

I.

Se la natura fe' tutto il poter suo per renderci ricchi, il borbonico governo emulandone gli sforzi in verso contrario ingegnossi sempre a farci poveri. Quale delle materie prime, obbietto all'arti ed alimento all'industrie, ci manca? Nessuna. Ricca è la faccia del nostro suolo, piú ricche le viscere; e nondimeno noi comprammo e compriamo tuttavia dagli stranieri le terraglie, e le porcellane, i mattoni refrattarii, i cristalli, le leghe metalliche, gli smalti, le vernici, ed i tessuti, e le materie (quantità innumerabile!) che noi non sappiamo tingere. E v'ha ben donde gemere pensando all'immenso consumo, che si fa di queste merci, all'inerzia cui siamo condannati, al nostro denaro che fluisce all'estero. Natura senza Arti è corpo senza anima, idea cui manca la parola, forza in potenza; e l'arti appunto ci mancano? Di quelle, il cui esercizio non richiedemachine, né capitali, né sussidii governativi, certo non patiamo difetto: sappiamo la musica, il canto, la poesia, a cui machine naturali sono l'orecchio, la gola, l'ispirazione; ma la è gloria per noi l'essere classificati coi cigni e coi rosignuoli? Io non bestemmio quest'Arti: so che, dopo gli altari del vero Dio, infallibile argomento della civiltà dei popoli sono gli altari delle Muse, so che un cigno come Omero, il quale non è un uomo, ma tutto il popolo greco immortalato dai suoi canti, è un raro presente dei Cieli: ma dico che, pria che l'immortalità della vita futura, deve ogni nazione assicurarsi la felicità della vita presente, e che il buon padre di famiglia pensa ad avere un'uccelleria quando già si è provveduto d'un ricco pollaio. Il borbonico governo tenne altro stile: fondò accademie pei musici, istituti di scultura e pittura, ed i profusi sussidii diedero ottimi frutti. Avemmo poeti e cantanti, avemmo pittori e scultori e musici valentissimi; ma qual bene ce ne venne? E non dico qual bene; ma se le cose vogliono valutarsi secondo l'estimazione dei savii, chieggo ancora: — Qual gloria? — Con che pietà dee guardarci lo straniero che mettendo piede in Napoli vi trova mille che pingono le piú lievi tinte d'un bel tramonto, e non un solo che sappia colorare un filo di cotone, una stoffa di seta? Mille che dànno anima al marmo, né uno solo che possa comporre una vernice, e fondere una lega! Le donne nostre vanno a cantare in Francia, e le donne francesi vengono a tessere e cucire i loro merletti tra noi! I giovani nostri corrono a ballare in Inghilterra e i giovani inglesi vengono a reggere le fabbriche, gli opificii, ed i vapori in Italia! Il che vuol dire che gli altri popoli sanno l'arte preziosa di far lunga, facile e sicura la vita, e noi quella conosciamo di obliarla e divertirla.

Ma se l'arti trasformatrici son poche in Napoli, nelle provincie sono nulle, e quelle che chiamansi arti primitive e creatrici come la pastorizia, l'agricoltura, l'economia silvana, e le industrie che ne derivano, trovassi in infelicissime condizioni. Queste due ragioni di arti, le creatrici e le trasformatrici, debbono, perché un popolo abbia vita, essere congiunte come i due atti della respirazione, ed i due moti opposti del cuore nel corpo nostro. Presso noi son disgiunte: il nostro terreno crea, e mancano le arti che ne trasformino i prodotti. La nostra pastorizia procede a danno dell'agricoltura; addetti a pascoli sterili e montuosi terreni, gli animali abbandonati all'evento delle stagioni; epizoozie mortalissime, effetto di macri ed insalubri pascoli; intere mandre distrutte dalle rigide vernate. Abbiamo la lupinella, la luzerna, la pimpinella che vegetano nei piú aridi siti, abbiamo il trifoglio, la sulla, la lenticchia, le patate, le pastinache, la rapa, la veccia; e nondimeno i prati artificiali si sconoscono.

Si amano le grandi mandrie, gli armenti numerosi per un falso punto di onore e di grandigia, e il proprietario ignorando che gli animali debbono essere parti viventi del fondo, non divide il gregge in piccoli branchi, dotandone ciascuno dei suoi poderi. Cosí il letame, che fa lieta la terra, si sciopera; armenti nomadi vagano per spazii immensurabili, si tolgono a Cerere i migliori terreni, ai nostri braccianti il lavoro, ai poveri il pane; e dei lamenti e della miseria dei nostri Casalini del Manco una delle precipue cagioni la è questa. Altrove l'inerzia dei proprietarii non stimolata dal lusso, che manca, non corretta dall'istruzione di che son privi, non distrutta dal bisogno, stante il modo feudale, ond'è organata la famiglia, e l'inerzia eziandio del popolo, che, privo d'idee, è pure privo di bisogni, e soddisfatte le prime necessità naturali non chiede piú in , lasciando incoltivate le terre, e quelle mirare senza pietà non si possono inaffiate dall'Esaro, che si stendono da S. Caterina a Malvito. Altrove la coltura dell'olivo procede a scapito di quella del suolo, che nel Circondario di Rossano è nulla, e chi muove da Spezzano a Terranova si crede in un deserto e si consola soltanto all'aspetto ridente di Corigliano. Non macchine poi, non istromenti agrari, l'aratro è tuttavia il descritto da Virgilio, e i metodi di alternare le colture arbitrarii e diversi. Non si è associata insomma la pastorizia alla coltura e la coltura delle terre a quella delle piante e degli alberi fruttiferi. In qual parte della provincia non prova l'olivo? E nondimeno esso è coltivato in grande nel solo circondario di Rossano, dove si trascura il gelso, il fico, il mandorlo, e la vite, non perché il prodotto ne sia cattivo, ché noi benché lontani sentiamo tuttavia la fragranza del vino dei Pirainetti, ma per l'inerzia, figlia della smodata ricchezza dei proprietari delle terre. In qual parte non mette bene il cotone? E quest'utile pianta si conosce soltanto nei circondari di Rossano e Castrovillari. Insomma, delle piante alcune escludono le altre, mentre dovrebbero stare insieme; di alcune conoscono poche specie, e non tutte, cosí dell'erbe tintorie il solo zafferano e la robbia, dei gelsi gl'indigeni ed i bolognesi, non già i nani; degli olivi due o tre specie; una sola poi specie di riso e di tabacco. Della vite le abbiamo tutte, ma qual nota in un paese, e quale nota in un altro nessun paese le possiede insieme, nessun proprietario ha pensato a coltivarne isolatamente ciascuna per avere varie qualità di vini, studiarle, e correggere e migliorare l'una con l'unione dell'altra. Si coltiva il lino, ma nessuno succedaneo del lino; e quel che si coltiva mal si coltiva, stante che i nostri contadini non sanno distinguere il seme che il filo bianco da quello che lo bruno, e separatamente coltivarli. Sbalestrati dal governo Borbonico come esuli e pellegrini in tutti i punti di nostra provincia noi osservammo che ciascuna regione tra noi ha colture proprie, e proprii metodi di coltivazione, predilezione per alcune piante, antipatia per altre; qui tutto castagni, tutto olivi, qui tutto querce, tutto fichi, mentre il terreno è buono per essi tutti; e domandammo — I primi abitatori di questi luoghi, varii eziandio nell'uso delle vesti e delle vocali, vennero forse da diverse regioni? E le quistioni economiche si mutavano in quistioni etnografiche, che noi travedevamo molteplici ed interessanti, ma non potevamo risolvere, perché la polizia ci dava il tempo di correre, non quello di fermarci, e di studiare. Quello che studiammo per tutto fu l'inerzia dei proprietarii, l'inerzia e l'ignoranza del popolo. I grandi capitalisti tra noi o impiegano il denaro in mutui con usure scandalose, o lo versano nel Banco: nessuno ha spirito di speculazione, nessuno ha spirito di industria, che raddoppierebbe il loro reddito, e darebbe al popolo pane e lavoro. Chi ha pensato a metter su una fabbrica, un opificio? Abbiamo molte pecore, molte vacche, molti cuoii, e nessuna fabbrica di pelli, tranne quella di Cianceruso in Rossano: diretta (se vive tuttavia) da uno Svizzero. Abbiamo molto cotone, ma nessuno opificio per filarlo, per tesserlo, per farne tele stampate, e le due fabbriche di felpa di Corigliano non hanno trovato imitatrici. Abbiamo molta lana, e nessuna fabbrica per spettinarla, filarla e tingerla. Abbiamo gelsi e bachi, ma nessuna bigattiera, e se non fossero stati i fratelli Ottaviani da Messina la seta organzina sarebbe tuttavia tra noi un desiderio. Abbiamo ottime crete in Rende, Rogiano, Terranova, e nessun capitalista pensò ancora a farne una speculazione. Che dirò di piú? Raffaele Fera, e Giovanni Noce, giovani intelligenti ed arditi, fondano in Cosenza una fabbrica di potassa con una distilleria, dando cosí un valore alle ceneri ed alle vinacce che tra noi si buttano; e qual fu il generoso signore che avesse lor detto: — Concorro anch'io all'impresa, e vada innanzi? Siamo un popolo di morti, d'oziosi, e malcontenti schiamazzatori. Insomma, le fonti della ricchezza sono tre, terre, lavoro e capitali, e il lavoro è una relazione, è la copula dei due estremi. Ora le terre sono inculte, i capitali sono morti, o seppelliti nel Banco, o dati ad usura: che ne siegue? Ne siegue che il lavoro manca, che l'indigenza, e con essa il malcostume, l'ignoranza e il brigantaggio montano l'un piú che l'altro, e che le fonti della ricchezza sono inaridite!

Questo stato deplorabile delle nostre industrie crea mille mali, e mille danni.

Danno pei padri di famiglia, che non trovano dove impiegare i loro figli, essendoché i mestieri, l'arti e le professioni siano in un campo assai stretto per la loro attività; poiché se hanno mezzi di fortuna non possono uscire del trivio di essere o preti, o medici, o avvocati; e se non ne hanno per vivere, ognuno sa quanto pochi siano i mestieri, a cui applicarsi. Danno per la morale pubblica; poiché essendo poche le professioni, e molti coloro che le esercitano, la concorrenza tra questi partorisce odii, gare, calunnie, che fan sembrare noi Calabresi nati dai semi di Cadmo. Danno per la pubblica quiete; poiché un terzo dei nostri giovani dopo gli studi sterili di lingua e di filosofia, i quali rendono per quanto inutile altrettanto superbo chi gli coltiva, e quindi pieno di pretensioni e sempre scontento, si rimane senza professione; ed un altro terzo non trovando vie di lucro con quella ch'esercita, non vede altro argomento per uscire dai miseri termini, dov'è ridotto, che di sconvolgere il governo esistente. Danno per il carattere nazionale; poiché il culto esclusivo dell'arti belle, e Io spregio dell'utili ammollisce l'indole del popolo, lo fa amico dell'ozio, e dei piaceri, ignaro della vita pratica, vittima dei sogni dell'immaginazione. Danno per le stesse arti belle e per le scienze; ché non avremmo né preti stupidi e corrotti, né avvocati azzeccagarbugli e disseminatori di malafede, né medici carnefici, né artisti senza merito e senza fortuna, se fosse tra noi sviluppata l'industria, la quale crea mille arti e mille mestieri svariatissimi, e i nostri giovani non si vedessero costretti ad incalzarsi tutti su le stesse vie. Bisogna dunque incoraggiare l'industria, moltiplicare le arti ed i mestieri. Intorno a ciò qual provvedimento prese il passato governo? Lo diremo in seguito.

27 aprile 1864.

II.

A creare l'industrie e le arti il governo borbonico credette mezzo efficace le privative, e le dispensò a destra e a manca. Lefebvre ottenne privatica, e messe su due fabbriche di acido solforico, l'una in Capodimonte, e l'altra nei Bagnoli. Widemann ottenne privativa d'introduzione (!), e stabilí una tintoria nell'Arenaccio di Casanova. Achard ottenne privativa, e pose su in Castellamare la concia e tinta di cuoii. Tourné rappresenta alla Corte di Napoli di avere egli scoverto il metodo di estrarre l'olio dal sevo, e di poterlo sostituire alla cera, e ne domanda privativa. E il Borbone, ignorando che la stearina si conoscesse fin dalla metà del secolo passato, gliela concedette. Dovrò andare piú innanzi? Dovrò dire come tutte le industrie sono in Napoli, come le nostre belle donne vanno in Alessandria, ed i nostri medici in Costantinopoli con la certezza di farvi fortuna? Non esamino le privative secondo le ultime considerazioni delle scienze economiche, ma domando solo: — Qual bene n'è venuto a noi? — Nessuno. Abbiamo forse appreso quelle arti? No. Giovani napoletani travagliano, è vero, negli opifici di Achard e di Widemann ma Widemann e Achard non manifestano loro i secreti di conciare i cuoi, e di tingere; l'industria introdotta da mani straniere in mani straniere è rimasta. Si è bassato finalmente il prezzo dei prodotti? Avemmo un risparmio nel consumo? Neppure: la privativa dava luogo al monopolio, e il monopolio era organizzato in grande.

Basti un solo tra mille esempii, che destava, essendo noi in Napoli, l'indignazione di tutti gli onesti. Tourné e Lefebvre venuti nel pensiero di stabilire una fabbrica di allume di rocca, ed avendo per ciò bisogno non pure di privative ma di molt'altre agevolazioni, invocano la protezione di Nunziante, e lo fanno loro socio. L'impresa allora procede; si ottiene la privativa, e si fondano quattro fabbriche in Piedigrotta, Capodimonte, Pozzuoli, ed isola di Vulcano. Ma la privativa non basta: si vuol rendere eterna, si vuole impedire e per sempre la concorrenza, ed i tre socii fittandosi le terre alluminose di Pozzuoli, mettono nel contratto una clausola penale di duemila docati a chi dei proprietarii di quelle terre osasse venderne altrui. I tre soci allora si dividono la vendita dell'allume, e n'elevano il prezzo a 10 docati il cantaio, mentre in Francia è di tre e quattro, e calcolando le spese di trasporto sarebbe tra noi di sei, o di sei e mezzo al piú. Per questo modo il Tourné, che venne povero tra noi, ora possiede al di di seicentomila docati, ed ha congiunto la sua mano d'artigiano alla nobile mano della figlia del principe di Monte Sant'Angelo. E sia onore a lui che al solo ingegno deve il suo ingrandimento, e sia lode al principe, cui pregiudizii di casta non tolsero di apprezzare i pregi reali del genero; ma sia pure maledizione al governo passato che immiserí i suoi sudditi, ed arricchí i forestieri.

Dovrò ora dire quello ch'ei facesse per le provincie? A distruggere l'ignoranza del popolo, ed innamorarlo degli studii positivi istituí in questo capoluogo, istituí in tutti gli altri le Società economiche, e diede in ciampanelle. Composte d'uomini letterati, cioè di eloquenti chiacchieratori, che non sapeano distinguere un'erba da un'erba, una pietra da una pietra, quelle società furono un inutile lusso, e sprecarono tempo e parole, senza che le arti e le industrie se ne vantaggiassero. La nostra, per esempio, non ci diede la Statistica Calabra, la Flora Calabra, la Fauna Calabra, la Geologia Calabra, non specchietti comparativi della quantità dei prodotti, e della variazione dei prezzi, non della produzione e della consumazione, non del movimento commerciale, non delle merci immesse tra noi, ed uscite da noi. Che cosa dunque ci diede? Le astratte generalità, che si trovano nei libri, e che sono inutili, non le notizie speciali e proficue, che si attingono dai fatti.

È tempo che tutte queste miserie finiscano. Cause dello stato deplorabile delle nostre industrie sono l'inerzia, dicemmo, e la ignoranza dei proprietarii, l'inerzia e l'ignoranza del popolo. Combattiamo dunque le cause. L'inerzia dei ricchi nasce perché son troppo ricchi, perché in ciascuna casa un solo si deputa all'importante funzione di far prole, e gli altri fratelli restano in tutta la lor vita nella condizione di figli di famiglia. Si loro la pappa e il vestiario, si assicura loro quanto basti a far le spese ad una drudetta, e gli infelici diventano cretini; e se l'assegno della famiglia non è sufficiente brigano in tutti i modi nell'amministrazione comunale, e non sempre onestamente. Cosí mille ingegni, mille forze produttive si schiacciano, si sciupano, si rendono sterili. Che compenso può trovarsi a tanto male? Certo, i principii di morale e di giustizia, che ogni giorno acquistano piú del cuore dei padri, e lo spirito di liberalismo che dall'organizzazione dello Stato passerà, a poco a poco , ma immancabilmente passerà in quella della famiglia, faranno cessare questo male, questo feudalismo impiantato nel focolare domestico; ma tutto sparirebbe ad un tratto se al ministro Pisanelli piacesse nella prossima compilazione del Codice Civile scemare la disponibile dei padri. Piú. I ricchi sono inerti, dicemmo, ed avversano lo spirito di speculazione, perché vogliono, e possono unicamente vivere della rendita prediale. Si amano le grandi estensioni di terreni, che poi o si lasciano sterili (con danno dell'agricoltura e dei braccianti) o si deputano a pascolo di armenti nomadi; e l'avidità d'ingrandire il fondo, che si possiede, è cosí prepotente, che in Calabria i ricchi sono dal popolo, ch'è misero ed è poeta, chiamati uccelli grifoni. È inutile dire che noi parliamo in generale; e però gli uccelli grifoni vogliono anch'essi arrotondare le loro rive del Reno, e non perdonano a verun mezzo, anche il piú immorale, per acquistare il poderetto del vicino. La storia della vigna di Naboth è in Calabria la storia di tutti i giorni. Per scemare tale avidità, la tassa sulle successioni (per mill'altri versi dannosa) fu una vera manna del Cielo; perché d'oggi innanzi molti capitali, che si sarebbero impiegati ad acquisto di terre, cambieranno destino. Insomma, l'inerzia dei ricchi cesserà con lo scemare l'amore alla proprietà prediale, ed alla vastità aristocratica delle terre: il che avverrà tostoché i fondi non resteranno piú in mano del solo tra dieci figli, che tolga moglie, ma si divideranno tra tutti e dieci. Allora avremo piccoli fondi, ma molti; piccoli proprietari, ma molti, e grandi industrie, e grandi ed onesti, ed operosi cittadini. E per combattere l'inerzia del popolo e l'ignoranza di esso e dei proprietarii qual sarebbe il mezzo?

30 aprile 1864.

III

Dammi un punto dove farmi una leva, diceva Archimede, e muoverò l'universo. L'uomo che coltiva le Muse, e l'uomo che coltiva la terra han bisogno egualmente d'un punto, dove fermino la leva. Il punto del primo è un'idea, che promette d'esser gravida, un'idea a gomitolo, che fa nascere il bisogno di svolgerla; e il punto del secondo è un terreno, che sia suo, e che gli dica: — Tuttociò ch'è sotto a me fino all'inferno, e tuttociò ch'è sopra di me fino al trono di Dio, è tuo. Questo punto di appoggio è mancato sempre al nostro popolo. Tra noi gli agricoltori possidenti (ossia i massari) sono pochi; la maggioranza è di agricoltori braccianti, che non camminano sulle terre, ma volano, e seminano un anno qui, un anno , non fermandosi in veruna, scegliendo le migliori, e peggiorandole tutte. S'è fittaiuolo, cerca ad ottenere il massimo guadagno che può, non mungendole, ma smungendole, non adoperando carezze, ma strapazzi; ché il calabrese è brigante finanche quando zappa. Spirata la locazione intende contrarne una altra, e si studia a lasciare sfruttato il terreno, che abbandona; e quando il proprietario vedendo inariditi i suoi noci maledice alla crittogama, al gelo ed agli insetti, il pover'uomo s'inganna; ché i noci son seccati, perché il fittaiuolo ne tagliò le radici e le vendette. Se poi è bracciante, passa da un punto ad un altro punto dei terreni Comunali, lasciando la sterilità dietro i suoi passi, non badando a concimare il suolo, a piantarlo, a migliorarlo, e se sia in declivio, o in piano; e quando il numero dei buoni terreni è esaurito, mette fuoco in un bosco e semina sulla cenere. Cosí le nostre belle foreste si sono distrutte, cosí si son formate quelle lande deserte, inutili al pascolo, inutili alla semina, e che tra le terre vicine verdeggianti biancheggiano come macchie di tigna; cosí è avvenuto che il forestiero che visita la prima volta le nostre campagne è costretto a dire: — Per qui passarono i Vandali —! Tali condizioni di cose han fatto che il Calabrese abbia smentito la poesia, che dipinge la campagna come albergo dell'innocenza dell'idillio, e la giusta osservazione dei fisiocrati, che dissero di tutte le occupazioni essere l'agricoltura la piú conducente alla bontà del cuore ed alla generosità degl'istinti. L'agricoltura esercitata al modo, che per noi si è detto, ha renduto ingeneroso e maligno il popolo nostro. Non potendosi affezionare alla terra, perché non sua, non si è affezionato a veruna cosa, che sia sulla terra. Odia la terra, e la strapazza, gli alberi, e gli rovina, il paese dove viene a dormire la sera, e se vi vede una fontana nuova, un albero nuovo che vi si costruisce e vi si pianta per abbellimento, egli si guard'attorno, e quando è sicuro di non esser veduto fa con la zappa o con la scure un guasto qualunque alle nuove costruzioni. «Ah! — egli dice sogghignando amaramente, — tutto ciò serve pel galantuomo, ed io lo guasto!» I galantuomini, ossia i proprietarii gli son dunque nemici? Noi siamo nelloro numero, e sappiamo che non è il proprietario che ruba e froda il contadino, ma è il contadino che froda e ruba il proprietario. Quando studieremo, lo stato delle persone tra noi, entreremo sopra ciò in piú sottili osservazioni: per ora a noi basta aver segnalato l'odio ingiusto le piú volte, ma sempre accanito che l'uomo del popolo nutre pei proprietarii, e per la campagna da lui coltivata. Tu dici: — Ecco la grandine ha disertato le vigne —; e l'uomo e la donna del popolo ti rispondono: — Si possa far tanto vino quanto basti per una messa di esequie a tutto il paese —! Tu dici: — Ecco, la siccità ha distrutto il grano —; ed essi ti rispondono: — Venga tal fame, che ci costringa a divorarci a vicenda -! Queste ed altre piú crudeli parole ci han fatto sempre fremere, ma non odiare il popolo. Ogni uomo, ed ogni popolo nasce buono ed è buono; è la miseria che lo intristisce, e quella del nostro non è assolutamente, come si fa, da recarsi alla durezza dei proprietarii, ma alla mancanza del lavoro, e delle terre. Saviamente dunque il governo, come rimedio a tanti mali, ha imposto la quotizzazione dei terreni comunali tra i proletarii; operazione santa e benefica, la quale (e ciò sia lode alla Prefettura) nella nostra provincia si è condotta piú che a mezzo, quando in molte altre non si è neppure cominciata. Or perché a questo non si risolve il governo di aggiungere un altro maggiore beneficio, la vendita, o meglio l'incensimento a piccioli lotti dei beni demaniali ed ecclesiastici? Cosí il numero dei piccoli possidenti crescerebbe, la industria fiorirebbe, l'inerzia sparirebbe, e nascerebbero l'arti.

Ma per l'arti e per l'industrie è mestieri l'istruzione; e noi dicemmo l'ignoranza male comune all'alta, e alla bassa classe. In che modo si dev'intendere ciò? In che modo si deve combattere? I nostri ricchi, i nostri proprietarii hanno tutti, chi piú chi meno, ricevuto un'educazione letteraria e scientifica sia in collegio, sia in famiglia, e tra loro non pochi potrebbero con decoro sedere in una cattedra; ma egli è appunto codesta educazione letteraria e classica, che, per ciò che concerne l'economia, è una completa ignoranza. Non col latino, e col greco, non con la poesia e le cognizioni storiche si può mettere su una fabbrica, intendere il valore d'una macchina, apprezzare un'istituzione economica e civile. Ci vuole ben altro che queste miserie dotte, onde l'istruzione ci ha fatto, e continua a farci creature inutili e presuntuose. Il culto esclusivo del greco, e del latino, gli studii esclusivi di filosofia, di teologia e di dritto sono stati la rovina di Italia negli ordini politici, e nei letterarii: ci han renduto nazione oziosa, imitatrice di un passato che non può rinascere, attaccata a quel passato e nemica del progresso; e il mal vezzo continua e, mentre tanti miserabili romanzi, e tra questi i Miserabili di Victor Hugo, trovano traduttori e lettori, né lettori, né traduttori ha trovato la bella collezione, che ha fatto il Roret di Manuali per ogni arte e mestiere.

La scuola politecnica è il nostro assoluto bisogno; ecco il rimedio all'ignoranza del popolo e del ricco. È d'uopo che la fisica e la chimica siano rendute popolari come il catechismo di religione ed in tutti i capoluoghi s'istituiscano grandi scuole, dove l'arti non s'imparino sui libri, ma col fatto, dove il maestro non dica: — Cosí si fa la vernice, cosí si tinge, cosí si lavora l'acciaro; ma faccia la vernice, tinga la stoffa, lavori l'acciaro alla presenza dei giovani. Chimica, fisica, meccanica si studiano tra noi da due in cento; ed anche questi due ne sanno o i piccoli fatti, che alimentano i giochi e la curiosità, o le generalità somme che sono infruttuose, e non mai la parte pratica. In Francia non fu cosí. Tosto che Lavoisier cangiò l'aspetto della chimica, Chaptal ne fece l'applicazione all'arti, e quel movimento fu iniziato su due linee, l'una intorno alla scienza, e l'altra intorno all'arte, arricchí, e continua ad arricchire quel paese, e despota lo fece della moda e dell'eleganza. Torneremo meglio su questo proposito nello esporre lo stato della pubblica istruzione tra noi, ed allora indicheremo i fondi, cui possiede la provincia per darci una scuola politecnica. Ora riassumendo: — Dicemmo causa delle pessime condizioni di nostre industrie l'inerzia e l'ignoranza del popolo e dei proprietarii. Ebbene! il popolo cesserà di essere inerte con la quotizzazione dei terreni comunali, ed il proprietario con la distruzione del feudalismo domestico: e il popolo e i proprietarii finiranno d'essere ignoranti con le scuole politecniche. Ma ciò non basta. Fonti delle ricchezze, abbiamo detto, sono terre, lavoro e capitali. Or chi darà i capitali al popolo nostro? Chi gli assicurerà il lavoro? Ecco l'ultimo problema che ci resta a risolvere.

4 maggio 1864.

IV.

Nessuna cosa, sia buona, sia mala, può esistere isolata in questo mondo; gli obbiettivi al pari che l'idee hanno pure la loro logica, e per mancanza di questa logica cadono egualmente i despotici ed i liberi governi. Cade il governo despotico quando alla sua catena manca un anello, e cade il governo libero quando la sua mano benefica non apre tutte le dita. Ogn'istituzione ha bisogno di mille altre affini, che la sorreggano, l'alimentino, le diano moto: isolatela, ed essa cadrà; il che in fin di conto non significa altro che questo: Le mezze misure sono inutili. La quotizzazione dei terreni comunali (la quale oltracciò, come diremo in seguito, è incompleta) è stata una mezza misura, e il governo ha mostrato di saperlo quando ha detto ai proletarii — Voi non potete vendere i terreni, che vi assegno, se non dopo vent'anni. — Temeva dunque che li vendessero? . E perché dovrebbero venderli? Per la mancanza dei capitali sufficienti a comprare le sementi, e gl'istromenti agrarii, i mezzi di sussistenza durante l'inverno. Il provvedimento dunque della quotizzazione è inutile, se non si piglia l'altro di mettere in circolazione il denaro, e farne facile il mutuo. Non difetto di terre, ma difetto di capitali ebbe finora il popolo: ed infatti il bracciante, tutte le volte che sentitisi forte di qualche piccola somma, è corso sempre avidamente a coltivare i terreni comunali; ma quando il raccolto gli è venuto meno, ed il bisogno lo ha stretto, altro partito non si ha veduto per vivere che di entrare nella classe dei fittaiuoli, o dei coloni, i quali, oltre il non pagare la pigione della casa rurale, ricevono dal proprietario galantuomo un sussidio per l'inverno, ed un'anticipazione di tutta o di parte della semente. Senza capitali il proletario continuerà dunque a vivere come al passato; i terreni ottenuti gli saranno inutili, e restando in abbandono, gli antichi usurpatori li ripiglieranno a poco a poco,e cosí la vecchia piaga rinascerà. Mettere però in circolazione il denaro, e farne facile e poco oneroso il mutuo non deve, né può essere opera governativa, ma nostra. Col chiedere tutto al governo ci facciamo simili ai pulcini che vogliono l'imbeccatura dalla madre, né si assicurano di dare un volo fuori del nido,e cercarsi il cibo da sé. Governo libero e governo emancipato son sinonimi, e l'atto solenne onde s'accorda lo Statuto al popolo è simile a quello onde un padre dice al figlio: — Avete vent'anni, pigliate una strada, pigliate una donna, e fate economia per voi —. Conosciamo una volta operosità, e buon volere; ed ecco ciò che, sull'innanzi di quanto si adopera presso le nazioni piú culte, noi proponghiamo ai nostri concittadini.

Tra noi i capitalisti vanno divisi in due classi, i grandi ed i piccoli; ed i grandi son buoni, ed i piccoli maligni, perché non è l'elefante, ma la vipera che morde. I primi, amando una vita facile, versano i loro tesori sul Gran Libro, con danno dell'agricoltura e dell'arti, perché quel denaroesce da noi, ma non torna a noi; ed i secondi esercitano l'industria vergognosa dell'usure, che sono scandalosissime. Altri ti mutua cento lire, e ti chiede, 15, 17, 20 lire l’anno, ed il vampiro per nascondere tanto succiamento di sangue ti costringe a mettere nella scrittura di obbligo di averti mutuato 120 lire gratuitamente! Altri presta sopra pegno, a cui si un valore qualunque, a patto che resti suo per quel prezzo arbitrariamente convenuto, se, maturata la scadenza, tardi d'un giorno a riscuoterlo. Altri (e questa scabbia non è maligna altrove quanto in Cosenza) vivono con piccioli e ripetuti salassi di usure mensili, e per 42 centesimi ne vogliono sei ogni mese, e per una lira dodici dopo un anno! Dovrò dire di piú? Dovrò ricordare come una malattia un po' lunga, una raccolta un po' scarsa metta sul lastrico l'artigiano, e il piccolo agricoltore possidente?

Costui contrae piccoli debiti, sempre con la speranza di estinguerli, finché, questa svanita, ne contrae altro piú grande offrendo un'ipoteca sul suo fondicello; ma il capitalista temendo di dovere subire in seguito un lungo e dispendioso giudizio di esproprio, gli dice: — No! ma il fondo mi si dichiarerà venduto pel prezzo di ciò che chiedi a mutuo, a patto ch'io n'entri in possesso, p. e. indi a tre anni, se non paghi, e che io ti compensi, il piú del valore del fondo secondo la stima, che ne farà il tale agrimensore. E cosí avviene che in ogni paese della nostra povera provincia tu trovi sempre un capitalista, un notaro ed un agrimensore, triade di demoni che si ama di quell'amore inalterabile che nasce dalla complicità d'un delitto, e dei quali non sai dire quale sia il piú nero. Cosí spariscono a poco a poco le piccole fortune, e poiché il denaro che dovrebbe fruttare animando l'industrie, s'impiega, mancando queste, in usure; è chiaro che la società tra noi è composta di due classi: di uomini che succiano gli uomini, e di uomini che succiano la terra, e se un pittore pingesse i primi attaccati con l'avide labbra alle vene giugulari dei secondi, ed i secondi attaccati con la bocca insanguinata alle zolle della terra, farebbe un quadro di cui Satana istesso fremerebbe.

Chi però ci credesse capaci di condannare codesti usurai mal ci conosce. Noi non condanniamo nessuno, perché la ragione ignara di sdegni puerili maledice alle sole cause libere, e la causa delle nostre piaghe è necessaria. Nasce dal vizioso organismo della società nostra, dalle perverse istituzioni che ci han retto al passato, e dall'ignoranza che ci educò a barbarie. Bisogna che ne usciamo, ed aiuti da ciò sono l'istituzione di una Cassa di credito immobiliare, di una Unione di credito, e dell'Associazione dei capi d'industria coi lavoratori. Il piú dei nostri sono sventuratamente nuovi all'economiche discipline, e per servire alla costoro intelligenza ci spiegheremo il piú pianamente possibile. Premettiamo un fatto innegabile. I grandi nostri capitalisti amano di far grandi mutui, non piccoli, e son pronti a mutuarli centomila lire, ma non cento lire. Or da ciò che segue? Segue quel che n'è seguito fino all'altro anno nella nostra provincia medesima. Lasciando da parte i vivi, citiamo l'esempio d'un estinto (la cui memoria ci sarà sempre venerata) del Barone Pietro Berlingieri. Il Berlingieri dava a mutuo somme favolose alla ragione del 5 per cento; e però i piccoli capitalisti dei nostri paesi prendeano da lui il denaro alla ragione del 5 e lo mutuavano a noi di seconda mano a quella del 12, del 15, del 20. Or siffatta industria che pochi usurai facevano ad utile di sé, ed a rovina di tutti, bisogna che sia fatta dai nostri generosi signori a vantaggio particolare e comune, e il far questo si dice fondare una Cassa di credito immobiliare. Spieghiamoci meglio. I signori A. B. C., e via discorrendo, dicono ai grandi capitalisti: — Prestaci un capitale di tre milioni di lire, che noi vi garantiamo con ipoteca sui nostri fondi, e da questo momento per titolo del vostro credito vi diamo lettere di pegno, che vi verranno soddisfatte con rate annue da tutti noi, pel capitale, e per gli interessi. — Quando uno di noi ha bisogno di mille lire, o piú, o meno, va dai signori A. B. C., e questi ci dicono: — Noi daremo a voi le mille lire, e voi darete a noi una ipoteca di duemila lire; ci pagherete ogni anno gl'interessi, e di piú venti lire, come piccola rata del capitale che vi prestate, acciocché dopo molti anni, e quasi senza addarvene vi troviate liberi dal vostro debito. — Cosí, né piú né meno, è fatta la Cassa del credito immobiliare.

Ora è possibile a farsi tra noi? ; perché si è fatta prima in Prussia sotto il grande Federico, e poi da per tutto.

È possibile di trovare grandi capitalisti, che prestino i loro capitali alla Cassa? L'esempio di Berlingieri risponde che . Oltre di che torna piú conto a loro il mutuarli a piú proprietarii obbligati solidamente che ad un solo e piú conto ancora a versarli nella cassa onde parliamo, che nel Gran Libro, perché quella li garentisce con un'ipoteca, e questo con la fede pubblica; da quella è assicurato l'effettivo valore del capitale e della rendita, da questo la sola rendita.

È possibile a farsi senza il soccorso del governo? , perché la è cosa, che dipende unicamente da noi, e il Governo altro bene non potrebbe fare alla cassa che quello di riconoscere le sue lettere di pegno con dar loro il corso delle polizze.

Ma è possibile il trovare i signori A. B. C., e via discorrendo, che la fondino? A questa domanda poi non tocca a noi di rispondere, bene a voi, Signori Calabresi, che siete al tempo stesso grandi proprietari e nobili. Pigliando voi a prestito al 6, al 7, e dando prestito alla ragione di 7, ed 8 il primo vantaggio è vostro, che sarete gli Azionisti della Cassa. Ma non è a nome di siffatto onesto guadagno che vi preghiamo, bensí a nome dell'onor vostro. I piccoli capitalisti, i maligni usurai andran via: non avendo dove locare il loro denaro l'offriranno a voi, gl'interessi saranno ridotti, e le benedizioni del popolo vi accompagneranno.

7 maggio 1864.

V.

La Cassa del Credito immobiliare, di che facemmo parola nell'articolo precedente, torna utile agli agricoltori, a tutti quelli insomma che hanno un fondo per garentire il denaro che tolgono a prestito. Ma i mille che non l'hanno, come potrebbero rinvenire i capitali necessarii a metter su una industria, o menarla innanzi, ed acquistare le materie prime necessarie ai loro lavori? Il mezzo infallibile da ciò è l'unione del credito; ed ecco in che consiste.

Io, p. e., sono calzolaio, né trovo chi mi presti quattrocento lire, perché non ho come garentirle al creditore, e quel che avviene a me, avviene a te sarto, a te falegname, a te caffettiere, avviene a tutti noi artigiani e braccianti di Cosenza. Ciascuno è impossibile che trovi credito, perché presi isolatamente siamo insolvibili. Questa insolvibilità, a dir vero, è relativa, maggiore o minore secondo gli individui; perché io forse sarò buon pagatore per 40 lire, tu per 50, un terzo per 70, ma nessuno di noi lo è per 400. Or, cosí stando la cosa, perché non ci uniamo? Unendoci si forma una società, la quale senza dubbio è solvibile, se ciascuno di noi a prendersi solo non lo è, ed essendo solvibile trova credito, e credito ai suoi socii. Siffatta società si chiama unione di credito, e si costituisce cosí. Gli artigiani A. B. C. un bel giorno chiamano tutti noi altri, e ci dicono: -— Uniamoci. Tutti allora corriamo all'invito, ma A. B. C., che, per trovarci noi tutti in Cosenza, ci conoscono e sanno chi di noi sia onesto, sobrio e buon lavoratore, fanno uno scarto degli oziosi, degl'inetti, dei cattivi, e ritengono i soli buoni. Mettiamo che questi buoni siano quattrocento, e già avremo una società bella e fatta, composta di quattrocento socii. Scegliesi allora un Amministratore ed un Cassiere, e ciascuno dei socii rilascia loro una scritta, onde dichiara di riconoscere la società, e di essere responsabile dei suoi atti. Con ciò, io socio che prima ero solvibile o, poco, o nulla, divento solvibile, perché io garentisco tutti gli altri, e tutti gli altri garentiscono me.

L'essere divenuto solvibile è un bel diritto e debbo pagarne l'acquisto. Lo pago io, lo pagano gli altri al momento d'essere ammessi come socii, e supponendo che ciascuno di noi paghi una lira, e dia piú 50 centesimi per le spese di amministrazione, è chiaro che la Cassa viene dal primo istante di sua istallazione ad avere un fondo di 400 lire, ed un altro di 200 per i bisogni del suo governo. Fatto ciò, ci dividiamo, e ciascuno di noi ripiglia i suoi lavori. Indi a quattro giorni io mi presento all'Amministratore, e gli dicoDammi credito. — Di quanto? — Di 200 lire. — Perché ti bisognano? — Per questo e questo. — E tosto l'amministratore esamina l'esito probabile della mia impresa, la mia attività, e le condizioni di mia fortuna, e mi dice: — 200 lire no, 150 . — E dove quella somma si trovi in Cassa, me la , dove il fondo di cassa siasi esaurito, se la mutua da un proprietario qualunque. — Direte: — Ma chi mai vorrà risolversi a mutuargli denaro? — Ognuno, rispondiamo noi, perché quel mutuo gli verrà garentito non dall'Amministratore, ma dalla Società, vale a dire da 400 socii. — Tornate a chiedere: — E se voi debitore di 150 lire non sarete puntuale al pagamento, che si farà? — Si farà questo: — L'Amministratore alla fine dell'anno chiamerà i 400 socii, e dirà loro: — Un nostro fratello ha truffato 150 lire; paghiamole noi, e fermiamo la rata di ciascuno. E la rata di ciascuno sarà meno di 4 centesimi. Che spesa dunque mi porta la società nel caso anzidetto? Una lira per dritto d'ingresso, 50 centesimi per l'amministrazione, 4 centesimi pel fallimento d'un nostro socio; e grazie a piccolo prezzo io trovo denaro ai miei bisogni, e ne pago un interesse mite. — Ma se tutti i soci truffano? — Oh! questo è impossibile perché essendo obbligati solidalmente, si sorvegliano a vicenda.

Ed ecco in che consiste l'unione del credito. Istituita per la prima volta al 1848 in Bruxelles fu imitata in seguito in Chambery, in Gand, in Liegi, ed ora si propaga e fa bella pruova in Germania; e noi per renderla intelligibile a tutti i nostri lettori abbiamo adoperato un esempio, che ne porgesse la idea fondamentale, la quale, per variamente che possa condursi ad effetto, rimane sempre la medesima, ed è questa: L'unione del credito è un'istituzione che eleva la solvibilità individuale all'altezza d'una solvibilità collettiva, dove tutti i socii, senza intermedio di capitalisti o azionisti, si garentiscono a vicenda, nominando gli amministratori, raccolgono i profitti, ove ve ne siano e pagano una piccola somma pei bisogni di amministrazione, ed un'altra per coprire le spese di sconto e di rischi.

Il terzo rimedio poi che consigliamo a far migliori non solo le condizioni economiche nostre, ma ad elevare il salario degli operai (la modicità del quale è altra piaga piú terribile, onde ci occuperemo in appresso) è l'associazione dei capi d'industria coi lavoratori. Nello stato presente di nostre cose, la potrebbe con incalcolabile vantaggio tentarsi in opera di agricoltura. Il salario dei braccianti è una lira in tutti i paesi, 50 centesimi quello delle donne adulte, 25 quello dei ragazzi.

È una miseria, che fa paura! Ora in ciascun comune i piccoli capitalisti, se fossero intelligenti amatori non del solo bene altrui, ma del proprio a mille doppii, fonderebbero una Cassa Agraria. Chiamati a sé i contadini, direbbero loro: «Noi abbiamo terre, e mezzi di coltura; e voi l'une, e non gli altri. Coltiviamolo dunque in comunione. Noi anticiperemo le sementi, voi conducete le mogli ed i figli, e lavorate tutti ed insieme. Vi sarà pagata la metà del salario, che fin ora avete, secondo gli usi nostri, ricevuto, ma vi daremo una cartella di credito per ciò che potrebbe spettarvi al tempo del ricolto. Queste cartelle avranno corso di moneta per la società, né noi, né i suoi socii potremo rifiutare il pagamento. Se prima del ricolto avrete bisogno di denaro vendete le vostre cartelle, il cui valore è la somma delle speranze, che il futuro ricolto, — il quale valore essendo variamente valutabile sarà per voi obbietto di speculazione, e materia di contratto. Altrettali cartelle si daranno a quanti vi seconderanno nella coltura, sia con trasportare letame, sia con arare, con sarchiare, o con altra opera qualunque. Fatto il raccolto, si stabiliranno le quote a ragguaglio del numero delle giornate, e del valore dei capitali adoperati in terre, e in denaro da ciascuno di tutti noi. Animo dunque, ed avanti». E allora i nostri buoni villani si dividerebbero in falangi, sante e benedette falangi le quali ha da venire pur tempo che debbano prendere interamente il luogo di quelle che armate di spada e di moschetto ora impoveriscono gli Stati. Ciascuna falange avrebbe il suo capoccio; le terre si coltiverebbero tutte, ma successivamente, ma variamente, con amore e intelligenza. Si introdurrebbero migliori metodi di coltura, cesserebbero i furti, gli odii, le invidie, passioni corruttrici ed avvelenate, perché né invidie, né odii, né furti si conoscono nelle famiglie, e nel nostro caso i contadini ed i proprietarii ne formerebbero una.

E qui facciamo punto, tralasciando di ricordare il gran bene che ne verrebbe all'agiatezza non solo, ma al pubblico costume; perché scriviamo non trattati di economia, ma articoli; ed ai lettori ingegnosi bastano le prime idee, perché piglino amore a siffatte istituzioni, e le conducano in atto. Possiamo sperarlo? Possiamo credere che le parole nostre non suonino nel deserto? Non a caso dicemmo che i nostri grandi signori sono odiati dal popolo. Essi buoni, essi generosi soccorritori delle miserie, essi forniti di carità e disinteresse; e nondimeno il povero popolo gli ha in ira: ira ingiusta, che deve sparire, e sparirà tosto che l'aristocrazia nostra imitando la inglese si farà educatrice del popolo, mescendosi ad esso, associandolo alle sue intraprese, e dirozzandolo. Molti tra loro han contribuito con armi e denaro al nostro risorgimento, e ne siano benedetti; ma se contenti a questa gloria non tentano altro, e vogliono serbarsi in voce di liberali, noi ci permettiamo di sorridere. Una rivoluzione può farsi per amore di novità, per utile proprio, per soddisfazione di vendetta, e non sempre per liberalismo. Liberale vuol dire educatore, benefattore del popolo, promotore della morale e della civiltà. Un ozioso Sardanapalo non può meritare quel nome. Eglino hanno un tempo condotto il popolo alle battaglie, ed ora debbono condurlo agli opifici d'industrie, e di manifatture. Piglino dunque l'iniziativa delle benefiche istituzioni, e facciano che cessi l'odio profondo che il popolo ha per loro, odio, giova ripeterlo, ingiusto, ma innegabile.

11 maggio 1864.




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