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Vincenzo Padula Persone in Calabria IntraText CT - Lettura del testo |
Mettiamo le mani in una materia che scotta; ma fedeli al nostro programma di moralizzare il paese non dubitiamo di rivelare le nostre vergogne, sperando ch'educati al soffio della libertà possano i figli essere migliori dei padri.
In contrada come la nostra, dove i paesi piú importanti son mediterranei, e mancano ed arti, ed industrie, e strade, e porti che aiutano, se nato, e, se non nato, producono lo spirito di speculazione, è chiaro che l'occupazione precipua dei nostri popoli dovea essere l'agricoltura. Benestanti, che vivono di reddito prediale, artigiani e professori, che vivono con l'esercizio del loro mestiere, e villani o braccianti o fittaiuoli, che vivono con la zappa, furono e sono tuttavia le tre classi, nelle quali entrano gli abitatori della nostra Calabria. A tutte e tre essendo fondo comune di sussistenza l'agricoltura, dalla sua floridezza nasceva il benessere dei cittadini, e dal costoro benessere quello del ceto medio formato di artigiani e di professori. Ciò che dunque si raccomanda soprattutto alla scienza economica tra noi è lo stato dei contadini, che dànno i nove decimi della popolazione, ed ai quali unico argomento ad assicurare la loro vita e l'altrui è la terra. La storia della terra dal lato geologico è la storia dell'uomo fisico, e la storia della terra dal lato agricolo è la storia del l'uomo considerato com'essere morale e come persona giuridica, in modo che la scienza inamena del Dritto può ridursi ad una storia dilettevole e ragionata dei terreni, e delle vicende dell'agricoltura. Qual è dunque la storia dei terreni in Calabria?
Dalla fondazione della napoletana monarchia a tutto il secolo passato i terreni furono feudali, ecclesiastici, demaniali ed allodiali. Gli allodiali erano pochi, pochi i grandi proprietarii, oneste le fortune, onestissimi i padroni, e l'aurea mediocrità di Orazio conveniva all'une ed agli altri. I Re, i Baroni, e le Chiese, parte per generosità, parte per bisogno, ora cedettero, ora col peso di canoni annuali diedero ai comuni una porzione dei loro terreni, e cosí nacquero i beni che furono detti della università, o beni comunali. Perlustrando a quei tempi i nostri paesi tu avresti trovato delle terre un terzo appartenente al Barone del luogo, un terzo alle corporazioni religiose, un terzo al comune, e qua e là tra queste tre specie di fondi il campicello e il vigneto allodiale, cui tale confessavano il governo migliore e la coltura meglio intesa. Allora il Dio Termine era divinità formidabile: potente il principe del luogo, potente il clero; e l'uno e l'altro ne rendeano inviolabile il culto. E il popolo nato con la zappa? Il popolo nato con la zappa non era libero, e si comprende, non avea istruzione, non sicuro l'onore, non garentita la libertà individuale; ma possedeva in quella vece ciò che tutti gli statuti non han potuto ancor dare, lo stomaco pieno. Coltivava i terreni ora del comune, ora del principe, ora della chiesa; e ciò che pagava non solo era una miseria, un moggio di grano per ogni moggiata di terra, e spesso meno; ma la contribuzione era stabilita per una sola specie di coltura; vale a dire, se il terreno era seminatorio, il contadino mi dava un moggio di frumento dopo aver trebbiato; ma non era obbligato a darmi piú nulla per tutto altro che vi avesse o seminato o piantato dopo la trebbiatura. Piú. Godeva degli usi civici, e nei marroneti e nei vigneti, e via discorrendo, succedeva dopo la raccolta delle castagne e la vendemmia ciò che dicevasi sbarro. Il popolo v'introduceva i suoi animali, vi andava per erbe e frasche e nei geli di inverno, stagione nella quale, come dice un proverbio calabrese, chi ebbe pane morí, e visse chi ebbe fuoco, possedeva non solo fuoco, ma pane. È vero che il Barone ne carezzava la moglie, è vero che l'arciprete e il monaco succolento faceano gli occhi dolci alla figlia: tutto il male era lí, ma si mangiava.
Ai tre trattati, in cui si divide l'economia politica, di produzione, consumo e riproduzione della ricchezza, noi, se potessimo, vorremmo aggiungere quelli della distribuzione. A chi ha cuore e principii di morale che preme se la industria cresciuta fa che il terreno invece di uno produca mille, se di quei mille invece di vivere mille, vive uno solo? Teneri figli di questa Calabria ne studiammo con lungo amore la storia; e cadutoci sott'occhio il censimento di varii comuni del 1748, nello Stato delle persone trovammo ogni mestiere tranne quello del pizzicagnolo e del rivenditore a minuto. Il numero crescente di questa sorta persone sta in un popolo agricolo come il nostro in ragione della crescente miseria; ed allora mancavano affatto, perché l'ultimo dei contadini era in tale stato di agiatezza da provvedersi anticipatamente nelle fiere di tutto ciò che gli potesse far bisogno nel corso dell'anno. Di qui, a quei tempi, non colossali fortune, né colossali miserie, non uggiosi cipressi accanto agli umili viburni, ma una graduata comodità, che non irritava gli animi, ma gli univa, improntando ai nostri costumi una cordialità ch'è sparita, una sincerità che si desidera, una benignità d'indole che si ricorda con dolore.
Questo stato di cose cessò con la occupazione francese e con le leggi del 1806 eversive della feudalità. Ogni rivoluzione è essenzialmente demoralizzatrice essa sbriglia gli appetiti piú ignobili, e l'esempio delle subite fortune, e dei guadagni improvvisati produce una febbre, che spinge una classe addosso all'altra come flutti di mare in tempesta. E questo allora seguí. Decimate dal brigantaggio e dalle guerre civili le antiche famiglie dei proprietarii e dei nobili, venduti a vil prezzo i beni feudali ed ecclesiastici, nacquero nuovi nomi, e nuove ambizioni. Agli antichi Baroni, il cui genio per le libidini e pel sangue era temprato dall'educazione, dall'uso del potere, dal sentimento del decoro, succedettero, dove piú, dove meno, pochi prepotenti per paese, i quali abusarono della ricchezza e del potere, perché nuovi al potere ed alla ricchezza volevano sperimentarne l'impero, e perché, conscii di loro bassi principii, si studiavano a cancellarne la memoria in sé medesimi e negli altri con l'uso brutale della forza. Cosí il feudalismo fulminato dalle leggi rimase nel fatto, e piú terribile, piú corruttore, piú odiato di prima: il Dio Termine ebbe il suo Renan, e fu precipitato dal piedistallo; s'invasero i terreni comunali, s'invasero i pochi beni rimasti alle Chiese, ed uomini armati fino ai denti col nome di Guardiani si posero a custodia dei male acquistati terreni. Dovrò dire come la pecorella del povero, che memore degli antichi dritti timidamente vi entrava a cercarvi un fil d'erba, venisse sequestrata? Dovrò dire come la figlia del popolo che vi si conduceva a raccorre la frasca caduta fu percossa, spogliata, disonorata? Il popolo nato con la zappa non ebbe piú la scelta tra terreni, comunali, feudali, ed ecclesiastici, ricevette la legge e non l'impose, pagò per ogni moggiata di terreno tre, quattro, e cinque moggi di grano, il proprietario gli disse se anche pianti orígano nel mio fondo, ne voglio parte; la sua moglie seguí ad essere accarezzata, la figlia ad essere guardata con occhi dolci; ma le corna non furono piú di oro; il principe pagava, l'arciprete e il monaco succulento pagavano; i nuovi venuti non pagarono che con busse, e il popolo restò digiuno.
I comuni spogliati, al vedersi sommessi alla imposta fondiaria per vasti territori che non piú possedevano, reclamarono. Ma chi potea far dritto a quei reclami? Usurpatori erano i Sindaci, usurpatori i Decurioni, e de' titoli di proprietà posseduti dai comuni essi falsarono una parte, involarono un'altra, e parecchi che si trovavano in deposito negli uffici d'Intendenza sparirono ancora misteriosamente. Tutti questi fatti immorali corrompeano il cuore del popolo: se il popolo diveniva brigante, non eravamo noi a dargliene l'esempio? E di noi che rubavamo al comune 40 moggiate di terreno, e del brigante che rubava a noi quaranta pecore chi era il piú colpevole? Mille volte si tentò di rivendicare l'usurpazioni, ma invano: i Consiglieri che a ciò veniano deputati dall'Intendenze appartenevano, come diceva il popolo, alla razza dei cani barboni. Alloggiavano in casa degli usurpatori, e tra i pranzi fumanti ed i calici coronati dalle spume dello sciampagna chiudevano gli occhi generosamente e lasciavano che l'acqua corresse pure al suo chino. Al 1848 l'ira popolare fino allora compressa finalmente scoppiò. Le popolazioni guidate dai piú vecchi contadini ch'ivano innanzi portando in mano Crocefissi e Madonne irruppero nei terreni usurpati: illegale era quel procedere, e niuno il nega; si commisero atti di vandalismo, ed è verissimo; ma un dritto sacro ed imprescrittibile era in fondo a quel movimento, ed anche questo è innegabile. Che fecero gli usurpatori? Si giovarono della reazione borbonica ed accusarono come Comunisti e discepoli di Fourier i nostri poveri tangheri che si credevano trasportati nella valle degli incantesimi, quando il Giudice gravemente gl'interrogava: «Siete voi socialisti?». Di quegl'infelici, il cui torto era di aver ragione, alcuni morirono nelle prigioni, altri furono mandati in esilio: e per questo modo gli usurpatori unirono al furto prima l'immoralità, poi la falsificazione, poi l'omicidio, poi le lacrime di mille famiglie, e gli onesti fremettero in terra, e gli angioli piansero in Cielo.
La Storia dirà come di quei movimenti incomposti del '48 il governo borbonico avesse gran parte. Quando dopo i fatti di armi di Castrovillari il generale Busacca venne in Cosenza, ai proletari di tutti i paesi che si recavano a lui implorando giustizia, egli dava eccitamenti alle rapine e al sangue. E rapine si fecero, e sangue si sparse; ma compiuta la reazione, il governo, che prima avea favoriti i proletaria a danno degli usurpatori, favori questi a danno di quelli; poi cangiando metodo disgustò gli uni e gli altri con le operazioni del Barletta, che furono arbitrarie in parte, incompiute in tutto.
Ora a sanare questa piaga marciosa che provvedimento ha preso il presente governo?
Della mancanza di vita pubblica, onde accusammo il paese, è da recarsi la cagione a quella della pubblica morale. Quindi il Governo con l'esempio, e quindi il Clero con l'educazione altro non ci predicarono che l'adempimento dei doveri che costituiscono la morale privata. Si nei pulpiti, e sí nei confessionali non s'inculcò mai il rispetto dovuto ai beni del Comune ed al denaro delle pubbliche amministrazioni; e però le nostre coscienze si fecero scrupolo di frodare il vicino, ma non le Università, e se di restituzioni fatte in punto di morte ai particolari non mancano esempii, gli esempii si desiderano per ciò che concerne i comuni. Tra gli usurpatori noi avremmo voluto che si fosse trovato chi mosso da sentimenti di giustizia e di probità avesse detto — Ho rubato sotto un governo ladro, ed ora restituisco sotto un governo libero. — Che felice mutamento non ne sarebbe venuto al pubblico costume! La virtú è contagiosa al pari del vizio, e bastava l'esempio d'un solo proprietario perché mille volentierosi lo imitassero. Ma non fu cosí la gloria che segue gli atti di eroica virtú non è ancora obbietto di nostra ambizione, e tosto che il governo dispose la reintegra e la quotizzazione dei terreni comunali, gli usurpatori si studiarono per tutte le guise di eluderle. E fossero stati contenti ai cavilli legali; ma tra loro non mancò chi sbigottisse i proletarii. Scordaste dunque, dicevano ad essi, le vicende del '48? Anche allora invadeste le nostre terre, e morte, prigionia e miseria furono le debite pene alla vostra audacia. Ora il governo ve le divide; ma quanto starà in piedi codesto governo? Al prossimo ritorno del Borbone ripiglieranno il mal tolto, ed allora guai a voi! E vi ha certo onde fremere per la viltà a cui ci educò gli animi il secolare dispotismo, a pensare che in molti paesi i proletarii o protestarono contro la quotizzazione, o si mostrarono indifferenti a giovarsene.
Ma la Prefettura si pose arditamente all'impresa. A noi certo non garba, teoricamente parlando, quell'ibrida istituzione, che toglie, per darla altrui, la facoltà di giudicare alla Magistratura, e che dicesi Contenzioso Amministrativo: noi pensiamo unico modo legale ed efficace di risolvere le controversie tra gli usurpatori ed i comuni esser quello di rimetterle ai Tribunali ordinarci; ma nel caso nostro come potrebbe ciò farsi senza ledere gl'interessi delle popolazioni? Quanti sono i Sindaci che non abbiano usurpato? Quanti i Consiglieri municipali egualmente irriprovevoli?
Ed anche a supporli tutti, senza l'eccezione d'un solo, onestissimi, vorremmo sapere in quanti di loro si trovi coraggio civile da far guerra all'intrigo. Ciò ch'è seguito di recente al comune di Tortora ci serve mirabilmente di esempio. Il Duca di Tortora creditore di esso comune introduce un giudizio di esproprio, e nel gennaio del 1862 i due boschi comunali Cavuta e Sarviola, messi all'asta pubblica, si aggiudicarono per ventimila dotati a Don Francesco Marsiglia. L'anno seguente il Duca sequestra gli anzidetti due fondi assieme con altri otto, che formano tutto il patrimonio del comune; l'esproprio è menato innanzi rapidamente; il Municipio che non mostra nessun segno di vita lascia fare, e tutti i dieci fondi si aggiudicano definitivamente a Don Francesco Marsiglia per novemila e 869 dotati, mentre il valore reale superava i novantamila, mentre, sette mesi innanzi, due soli di essi, Cavuta e Sarviola, erano stati al medesimo Marsiglia aggiudicati per ventimila dotati! La mano ci trema nello scrivere questo fatto.
Due contadini ne fremettero al par di noi; si posero la via tra le gambe, e nella vigilia del giorno ladro, che dovea consumarsi quella svergognata spoliazione del Comune, giunsero stanchi e coverti di polvere in Cosenza, e si presentarono al Prefetto. E il Prefetto Guicciardi provvide all'uopo, e generosamente: si produsse appello contro la sentenza dell'aggiudicazione definitiva, si produssero delle offerte di sesto, s'intavolarono nuovi trattati col Duca di Tortora. E a crimine uno disce omnes. Or voi lasciate gl'interessi dei Comuni alla nota cura dei Municipii, togliete a Prefetti come Guicciardi il mandato di rivedere le controversie tra i Comuni e gli usurpatori, e vedrete che ne avverrà.
La Prefettura dunque si pose, come dicemmo, all'opera della quotizzazione, e il suo primo ostacolo per menarla innanzi utilmente e speditamente fu l'articolo 49 delle disposizioni messe fuori dal governo al 1861 per regolare l'operazioni demaniali. Quell'articolo era concepito cosí: «I Commessarii si asterranno dall'adottare il procedimento eccezionale della reintegra, quando l'istanza del comune non sia fondata sulla dichiarazione giuridica della demanialità del fondo controverso; ovvero, quando il prevenuto di occupazione possegga da trent'anni senza molestia né di fatto, né di dritto, o da dieci anni con giusto titolo e buona fede». Quest'ultima parte è ben giusta, ed è l'unica parte che sia giusta; ma le altre due contrastano al buon senso ed all'equità. Obbligare il comune a presentare i suoi titoli è crudele irrisione, quando si riflette che quei titoli furono, come dicemmo, o falsati, o involati; rispettare il possesso trentennario è anche ingiusto, perché quel possesso non fu mai pacifico: non ebbe molestie di dritto, ed è vero; ma non ne ebbe perché non potea averne, atteso che i Sindaci ed i Consiglieri, i soli che potessero promuovere quelle molestie di dritto, erano appunto, gli usurpatori, o i loro attinenti; ma è vero pure ed innegabile che quel possesso ebbe molestie di fatto. Nel caso d'un fondo ereditario, o indiviso, l'azione d'un solo dei coeredi o dei socii vale come se fosse intentata da tutti; e nel caso d'un fondo comunale le vie di fatto esercitate dall'ultimo cittadino valgono pure come esercitate da tutti. Or queste vie di fatto ci furono sempre: sii continuò a far legna, a transitare, a pascolare or da uno, ora da un altro dei fondi usurpati; quei parziali ardimenti furono puniti, ma l'esistenza della pena non prova sempre quella del delitto. Tolte queste due disposizioni (che furono in seguito modificate) tutte l'altre sono informate dalla massima equità, e favorivano piú gli usurpatori, che gli spogliati.
Ad eseguirle col maggior bene degli uni e col minor danno degli altri intese solertemente il Consigliere Alfonso Galasso. Dal '62 al '63 si quotizzarono i terreni dei comuni di Torano, San Basile, Villa Piane, Amendolara, Cervicati, Civita, S. Marco Argentano, Altomonte, Scalea, Alessandria, Saracena, Santa Caterina, Cerchiara e Fascineto. I terreni furono dell'estensione di 34.70 ettari, del valore di 992.797 lire, e se ne fecero 3255 quote. Si conchiusero oltracciò varie conciliazioni nei comuni di S. Marco Argentano, Terranova, Corigliano, Civita, Spezzano Albanese, Saracena, S. Lorenzo del Vallo, Malvito, Scigliano, Torano, Marano Principato, e Marchesato, San Vincenzo, Cerzeto, Bisignano, Francavilla e Mongrassano. Ed i terreni,. oggetto di conciliazione, furono di ettari 848,77 e del valore di Lire 137.176. Queste operazioni furono accolte con grida di «Viva il Re! Viva l'Italia!» e contribuirono non poco a rendere caro al popolo il nuovo governo. Speriamo che il sig. Rossi succeduto al Galasso voglia continuare l'opera del suo predecessore con pari zelo ed attività. La quotizzazione non è ancora terminata; molti comuni ancora la invocano, e sarebbe pur tempo di contentarli. E noi mettiamo fine a questo articolo pregando tutti gli onesti d'illuminare i proletarii sui loro interessi, perché non vengano ingannati dagli usurpatori. Non son mancati dei Sindaci, e dei consiglieri Municipali che mossi dalla turpe avidità di ottenere alcune quote deferirono falsamente alle Autorità di essere state rifiutate dai proletarii, e chiesero che si mettessero a vendita all'asta pubblica!
Non son mancati dei ricchi signori, che mostrandosi quanto avidi altrettanto ignoranti delle Leggi, immaginarono contratti di locazione per la durata di novant'anni, cosí sperando d'impadronirsi dei terreni quotizzati! Deploriamo la vergogna di questi ed altri mille fatti, e facciam voti a nome della libertà, della morale, e del liberalismo (il cui nome è stranamente abusato da parecchi sedicenti liberali usurpatori) che non si ripetano piú.