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Vincenzo Padula Persone in Calabria IntraText CT - Lettura del testo |
S. Lorenzo del Vallo, Malvito e Pitturelli son famosi per essere i paesi delle magare.
La magara è pallida, alta e magra; si è votata al diavolo da cui ottiene tutto a patto di far male altrui.
Chi si ha formato l'opinione di essere tale è generalmente temuta; tutto ottiene dai vicini, e nulla le si nega dalle contadine quando entra in casa loro.
Le donne ricorrono alla magara per ottenere filtri.
Ella prende un ramarro, lo cuoce al forno, lo polverizza, e lo mette sotto l'altare, donde lo ritoglie finita che è la messa. Quella polvere si crede un filtro potente; e di qui l'espressione: mi ha versato la polvere. Anche filtro è il sangue mestruo.
La magara s'introduce pel buco della toppa, tocca i ragazzi, e gli stroppia, i mariti e li fa impotenti; e quando uno di questi è insoffribile, la magara consiglia alla moglie di mangiarsi una gallina nera di venerdí, e buttarne le penne in sette strade. Per fare ammalare un uomo, la magara ficca chiodi in una mela o testa di gallo, e la butta sulla casa di lui, e nella via per dove passa. Un batuffolo di cenci che s'incontra per la strada spaventa il calabrese, che lo crede una fattura. In Calabria si fanno pellegrinaggi alle Chiese e ai paesi dove si crede che si trovi buona magara; e tutte le malattie insanabili si credono effetto di fattura. Quando l'infermo viene creduto affatturato si chiama la rimediante. Siede presso all'ammalato, e lo guarda a traverso delle dita delle due mani, che ella tiene sollevate ed aperte. Poi geme, pronunzia tre parole: e se dice: I polpastrelli mi lucono, è certa di avere sciolta la magia, e consola l'infermo. Se poi dice: I polpastrelli li veggo oscuri, è segno che la morte dell'infermo è irreparabile.
Per innamorare una donna, bisogna farle mangiare una pitta con tre gocce del proprio sangue; tre peli del pube, e tre fili [della corda] della campana di tre chiese.
Rimedio contro le fatture è il pignatello. Si fa a bollirvi dentro ruta di tre finestre, pane di tre case, e l'olio di tre chiese del Sacramento. Si fanno bollire, e se ne strofina l'infermo. Poi si getta di notte in un crocicchio. Per togliersi alla insidia delle magare si porta addosso un abitino con dentro una corda di campana, orecchio di cane, una palla omicida, un pezzo di stola benedetta, sale, miglio, e tre foglie di agrifoglio, portato nella mano dritta, e che non abbia passato fiume.
Il venerdí santo girano le magare. Per evitarle bisognano le seguenti precauzioni:
1) un vaglio o la madia riposte dalla parte interna dell'uscio;
2) un pezzo di lievito messo al limitare;
3) un coltello o altro pezzo di acciaio sotto il guanciale;
4) il mantello sul letto che significa quello di S. Giuseppe;
5) un pugno di panico avvolto in un panno di lana e posto presso al letto. Le maliarde non possono offendere se prima non contano quel panico; e ciò a fare vi vuol tempo. Suonerà intanto mezzanotte, ed elleno perdono ogni potere.
Questo medesimo potere di entrare nelle case per il buco della chiave lo hanno le magare il primo venerdí di marzo. Le magare percorrono la via nel tempo della mietitura; perciò per salvare da fatture le biche del grano, i massari vi mettono dentro un sfoglio (?) di cipolla, un pezzo di ferro, ed un istrumento rurale qualunque. E quella cipolla si guarda poi [illeggibile]. Le magare hanno potere sui fanciulli finché non sono battezzati; e però finché il neonato è senza nome, le madri mettono sulle finestre un pezzo di sale, e un altro di acciaro.
In tutti i venerdí non si parla mai di magare; e se altri ne favella si conchiude con dire: Piombo all'orecchio loro che oggi è sabato per noi.
La ruta che sette mali stuta si tiene sulle finestre come talismano contro le magare. La regina delle magare si crede che fosse stata la madre di S. Pietro. Il popolo crede che S. Pietro fosse tignoso, e magara la madre di lui. Ed ella disse tra sé: Or perché mio figlio deve essere discepolo, e maestro cosí potente colui dalla zazzera lunga? Voglio fare una magia a codesto Cristo. Gliela fece, e la pose sotto la soglia della porta, senza farne motto al figlio. Ci era un dí festivo, e disse a Pietro: — Vedi Pietro che stamane voglio invitare il maestro tuo —. S. Pietro fa fare un banchetto, e vi porta il maestro. Ma Cristo stando per entrare disse a Pietro: — Pietro, pigliami a cavalluccio. Pietro obbedí, e la madre se ne morse il dito. Durante la tavola, ella dunque si alza e passa la magia nell'architrave. Finito il desinare, Cristo disse a Pietro: — Mettiti a cavalluccio su di me —. Pietro obbedí, ma quando furono soli, Pietro chiese ragione del fatto, Cristo raccontò la cosa come era; e concluse con dire:
Magaria fatta sia;
Chi la fa, e chi la fa fare
Questa madre di S. Pietro era una donna perfida, che nulla dimandava per l'anima: solo una volta, essendo al fiume a lavare porri, una foglia le andò via giú per l'acqua, e non potendola piú riprendere, disse al fiume: — Vada per l'anima mia —. Morí e non si trovò nessuna luce tranne quella fronda di porro; (perché chi si trova di non aver mai fatto elemosina si dice è andata all'oscuro). La dannazione di lei spiacque a S. Pietro, che, permettendoglielo Dio, va nell'inferno e la chiama: — Mamma vientene —. Le altre anime dannate le si appiccicarono ai panni, ma ella respingendole superbamente, gridava — Avete forse voi un figlio, come l'ho io in Paradiso —? Di ciò sdegnato Pietro la lasciò gire in fondo. Da questo è venuto, che quando le nostre donne vanno in chiesa, e trovano un'altra che nega di far loro luogo sogliono dirle: — Oh! somiglia alla madre di S. Pietro —. E quando muore signora nemica di elemosine, il popolo dice: — Si trova avanti una fronda di porro.
Altra magaria che usano è questa. Si vuole che Tizio sposi Caia? La magara gira tre chiese e lascia in ciascuna un paio di paternostri, che vi devono dormire. Poi dalla mano di tre morti toglie la media falange del dito medio, la riduce in polvere, e la dà a mangiare a Tizio. Oppure fa un pupoletto di cera o di pasta, se lo mette in seno e stando davanti all'altare di S. Antonio prega cosí:
Sant'Antoniu ch' 'e (che di) Francia venisti
e tridici grazie fu chi portasti
dunamínne sia (dammene sei) a mia
Una la mintu (metto) alli piedi
una la mintu alli gammi (gambe)
chi pe mia ni spinni (mi brama) e mori;
non pe muriri, Sant'Antoniu miu,
Se una vecchia ha lunga agonia si crede opera di fattura e per toglierla si taglia la corda di lana che sostiene lo sproviero o si mette un giogo sotto il collo della vecchia, e poi si brucia.
La magara per prolungare l'infermità di un moribondo entragli in casa e gli siede presso al letto e fila.
Mia ava materna vide di notte entrare due donne coi capelli sciolti, disseppellire il fuoco, poi buttare le loro trecce sulla verga, onde pendevano le salsicce, ricoprire il fuoco e sparire. Volea gridare e non potea; cercò di svegliare il marito e questi stette duro. La dimane si trovò attratta, gremò, e morií.
La sera di venerdí santo si brucia nel braciere una scarpa in S. Fili.
Quei di S. Giovanni in Fiore, come. perdono un oggetto corrono a Melis (Calab. Ult. 2) paese famoso per le magare. La magara empie di acqua una caldaia e dirimpetto a sé mette uno specchio. Proferite il nome di colui che sospettate, Tizio, Caio, Sempronio, Pietro. Al nome Pietro l'acqua gorgoglia: — È questi il ladro — dice la magara — ora mira nello specchio —. E tu vedi nello specchio Pietro con tutti gli atti che fece per rubare le tue vacche. Il servo del Vicario Barberi in Napoli.
Trebisacci è famoso per le magare.
Il nostro popolo racconta cosí la vita di Nino Martino.
Era un giovinetto pecoraro cresciuto come selvaggio nella Sila. Dopo sette anni tornò al paese nativo, e trovò i suoi compagni ben vestiti, e lui stracciato. Giocò alla mora, e lo chiamarono selvaggio; andò alla fontana e le fanciulle sorrisero ai suoi compagni, e non a lui. Propose dunque di non tornare piú alle pecore, e andò dal padrone a farsi i conti. Questi gli tirò un calcio in culo, e lo chiamò guercio cane. Nino fremette e rientra in sua casa; non ritrova la madre; esce di nuovo, e va da un suo zio per consigliarsi con lui. Non trova lo zio ma l'archibugio di lui; lo spicca, se lo mette in spalla, e torna ai boschi. Fece per uccidere le pecore, e si pentí; ma uccise i montoni, perché gli parvero che somigliassero al suo padrone. Poi girando pei paesi vicini cantava:
Chi si vò fari surdatu (soldato) riale
Jisse 'n campagna cu Ninu Martinu;
A viveri u (a bere non) li porta alle funtane,
Cà appriessu li va l'utru (l'otre) cu lu vinu.
Nu li fa jiri vestuti di lana,
Ma i vesti tutti di dommaschiu (damasco) finu;
Lu pani jancu nu lu fa mancari,
Lu cumpanaggiu nu li veni minu.
Si fece cosí una banda di quindici persone e con essi volle visitare il suo antico padrone.
Scontaruno (incontrarono) pe' strata n'ogliurari (olivèndolo)
— Scarica s'uogliu, ca nua lu volimu, —
E l'ogliurari si misi a gridari:
— Ah! cuanu l'aju 'mbattata 31 stamatina! —
Nínu Martinu, ch'è n'omo riali,
Ci l'ha pagatu na quarta a carrinu 32;
E l'ogliuraru si mise a prejare (esultare):
— Vinnivi (vendetti) l'uogliu, ed ancora è matinu.
E con l'olio va in casa del padrone. Metà dei compagni rimane giú in corte e l'altra sale con lui. Al vederlo il padrone si fece un olio; ma Nino gli disse:
Tu sira (ieri sera) mi chiamasti guierciu cani,
Chistu t'è figliu, e ti ni pu' spisari (scordare),
Cumu la mamma de Ninu Martinu.
A munti Niuru (Nero) l'avimu a portari,
E là ni ci spassamu chiú ca simu;
Lu ficatiellu t'avimu a mannari (mandare),
Ca ti lu stufi tu juovi (giovedí) matinu.
Poi, rivoltosi ai compagni, gridò:
Porte e finestre ingignate (cominciate) ad untare,
Ca ardunu cumu dèdaru (rami resinosi) de pinu.
Arse la casa, poi tolse seco il figlio Agostino, e tornato al bosco prese un fegato di capra, e lo mandò al padrone, come se fosse quello di Agostino. Martino amava quel povero ragazzo che volle brigante al pari di lui. Ed Agostino crebbe, e fu fedele a Nino, tanto che per salvarlo da un'imboscata ricevette un pallino ad un occhio, che ne accecò. Lo chiamarono il Cecato; ma Nino lo chiamava fratello. Gli dette abiti come i suoi ed un fucile come il suo.
Nino era casalese; ma coi suoi compagni venne nel territorio d'Acri. La principessa lo protegga; ma un giorno avendosi preso un cavallo del principe, cominciò ad essere perseguitato, e nell'Ischia di Crati venne a conflitto coi guardiani del principe:
Pua (poi) quannu fummu a la vatti de Grati,
Sentivi diri: — Sparati, sparati!
E vinni na timpesta 'ncuollu a mia.
Cari cumpagni, sumati, sumati (alzatevi);
Sunu venuti pe' pigliari a mia.
— Eranu tante e tante i schioppettate,
Chi nenti pe lu fumu si paria,
Una de chille a nu vrazzu m'ha datu 33
Ed aju persa la forza, c'avia.
— Schiuppetta mia, chi d'oru si' muntata,
Mo' cà si vidi la tua guappería.
Aju pigliatu la mera (mira), aju sparatu;
Cumu palummi (colombi) ne cadieru sia (sei).
Ma il valore gli fu inutile. Preso dai guardiani del principe, si rivolge a costoro e dice:
Chi l'aju fattu allu principi d'Acri?
Di che cosa minnitta (vendetta) vo' de mia?
Nu mi pigliai né piecure, né capri,
Ne mancu vacche de la masseria.
Pe' n'affrittu cavallo scontricatu (guidalescato)
Che a mala pena la sella patia.
All'irtu (in salita) mi donava na pedata,
Allu penninu (in discesa) si susía (alzava), e cadía.
Li fici dire s'u volía pagatu 34
Ma vo' la capu (testa) de la vita mia.
Giunto in Bisignano, e passando sotto il palazzo del principe, per farsi udire dalla principessa cantò:
Cari cumpagni, chiangíti e gridati
C'aviti persu chi vi protegia;
Ch'era lu juru (fiore) de la compagnia.
La principessa s'affacciò e disse:
Chi la campagna tremare facia? —
— Nu su galera, ma varca scasciata,
Sugnu vassallu tua, signura mia.
— Mò te' stu maccaturu, e stu toccatu35
Ti ci stuji (asciughi) le lacrime pe' via. —
— Nu vuogliu maccaturu, né toccatu,
Vuogliu la grazia de Vossignuria. —
— Se t'avissi pigliato lu mia Statu
Tricientu scudi spennería pe' tia;
Ma t'ha pigliatu lu principi d'Acri
Ch'è statu vattiatu (battezzato) in Pagania,
A nullu grazia mai illu n'ha datu,
vai cumu püorcu in Gucceria (macelleria).
Martino è dannato a morte; ma manda a dire ad Agostino che aspetta da lui per essere salvato; e sicuro di ciò va alla forca. Giunto colà per pigliar tempo finché venisse Agostino si mise a cantare, e disse:
Lu vènneri (venerdí) de marzo sugnu natu;
Chi fussi muortu in vrazza (braccio) a mamma mia!
E mo chi sogni alli furchi arrivatu
Vogliu cuntàri li mie gagliardie.
Vacche e jumente n'aju scrapentatu (sparate),
E fatti carni alla Canatteria;
Mille forti muntagne aju schiasciatu (squarciate)
Fatti carbuni pe' la forgiaria;
E tante ciarre (giare) d'uogliu sbullerate (infrante)
Ch'u fietu n'arrivava alla Mantia;
Vutti e carracchi e vino aju trivillatu36
E fattu zancu (fango) pe' mmiezzu le vie;
Sore e sorelle n'aju sbrigognate (svergognate)
L' aju cacciate di la signuria;
Na munachella sula era restata,
Ma non vedendo venire Agostino, s'arrabbia e dice:
C'un veni cuntra a chini affurca a mia37
Púrbari (polvere) e palli ci n'avia lassatu,
E na schiuppetta, ch'è 'guale alla mia
Ma vedendolo venire, ripiglia:
Vi' vi' ca vene Gustinu mio frate,
E duna morte a chi a vo dare a mia.
Agostino vestito da monaco, sale sulle forche col pretesto di voler confessare il condannato. Sale sulle forche, uccide il boia, ed aiutato dai compagni libera Martino.
Martino tornato libero risolve di mutar vita, e va a confessarsi dal guardiano dei Cappuccini. Ma questi al sentir Martino, s'inchiavistella nella sua cella; sicché un frate terziario va a confessarlo; e gli dà per penitenza: «Ciò che non vuoi per te, non fare agli altri». Nino regala il monaco, e va a ricevere la benedizione della madre. Era tardi, e la madre dormiva. Voleva svegliarla ma si ricordò della penitenza impostagli, e sedette sull'uscio. Passarono i compagni, lo credettero una spia, e gli scaricarono i fucili addosso. Ma qual fu la loro sorpresa nel riconoscere Nino nel morto! Chiamarono la madre, lo portarono nella costei cantina, e lo seppellirono sotto una botte di vino.
Ma il morto Nino era divenuto santo; e cosí s'era alzato, e inginocchiatosi dietro la botte, vi versava sempre del vino mercé un sarmento che teneva in bocca. La Giustizia, vedendo la madre a vendere sempre vino, e non comprare mai mosto, andò a frugarle in casa, e trovato Nino, e visto il miracolo lo fe' santificare. E perciò noi contadini lo chiamiamo il santo dell'abbondanza, ed entrando in casa, o nell'aia, o nel trappeto altrui sogliamo dire: Santu Martinu!