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Vincenzo Padula
Persone in Calabria

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LE PRIGIONI DI COSENZA

Tra le liete grida del popolo nel onomastico del Re udimmo una voce che lo malediva; nella festa di Garibaldi ci parve vedere una lurida ombra entrare in teatro, imporre silenzio agli applausi, e dire: — Maledetto Garibaldi! Nel santo giorno di Pasqua mentre la devota Cosenza salutava Cristo risorto ne venne all'orecchio un gemito, che bestemmiava Cristo.

D'onde moveva quel grido, quella maledizione e quella bestemmia? Sotto a noi, intorno a noi, che lieti di possedere una patria libera, una religione di amore ed un Re galantuomo, ora mormoriamo una preghiera, ed ora intuoniamo un inno, vi è dunque chi piange, e maledice? Vi è dunque un inferno?

Camminammo dietro quel grido d'angoscia che ci percoteva l'orecchio, e senza addarcene pure ci trovammo sotto al Castello, accanto a S. Agostino, e nel recinto di Santa Teresa. Cercavamo un inferno, e ne trovammo tre: i tre inferni sono le prigioni.

Prigione e prigioniero son due parole che si hanno non come barbare ma come incivili. Noi abbiamo una falsa delicatezza, un galateo villano, una decenza indecente. Parlando di marcia, di piaghe, di pidocchi, soggiungiamo: Con riverenza parlando, mentre la signorina si accosta al naso la boccetta con acqua di Colonia, e, cacciando piú grossa boccata, l'aristocratico si nasconde il viso nel fumo del suo sigaro. E parole indecenti son pure prigione e prigioniero. Esse sono la marcia che cola, la piaga che puzza, i pidocchi che camminano sul corpo sociale. Chi avrebbe la virtú di parlarne? Non ne parlano coloro che gli arrestano, non i giudici che li condannano, non tutti noi che vedendo tre tombe scoperchiate in mezzo ai nostri edifici non domandiamo mai: chi vi entra, e chi n'esce? Modo efficace di far tacere una conversazione è di profferire le parole carcere e carcerato.

Ne parli dunque il giornale. È una marcia, ma marcia battezzata; è una piaga, ma piaga pensante; son pidocchi, ma pidocchi che ragionano.

Le prigioni di Cosenza bastano appena a 500 prigionieri e nondimeno al momento ne contengono 897. Manca a quegl'infelici l'aria da respirare, il luogo da muoversi, sono legati a mazzi, come i dannati dell'inferno, gli uni agli altri sovrimposti come fasci di fieno. La facilità, onde si procede agli arresti, i papaveri che nascono sugli umidi e polverosi processi fa che il numero dei prigionieri invece di scemare monti ogni giorno. È un male che non si deplora nella sola Cosenza, ma in tutte le provincie. Salerno grida, Foggia ha cessato di gridare. Il tifo carcerario ha colpito spaventevolmente questa città; e il tifo scapperà pure dalle nostre prigioni, e coprirà con le sue papule tutta Cosenza.

Le nostre finanze versano in tristi condizioni, e le rende piú tristi l'enorme numero dei prigionieri. Per ciascuno il governo spende ogni giorno una lira, abbiamo per gli 897 carcerati di Cosenza duecento ed undici docati al giorno e settantaseimila e quindici docati all'anno; la qual cifra moltiplícata pel numero dei soli capoluoghi, non tenendo ragione dei mandamenti, vi darà un prodotto, la cui considerazione vi farà compiangere lo sperpero della finanza, e lo sciupo di tanti capitali.

Gli attuali 897 carcerati sono classificati in questo modo:

Giudicabili

452

Condannati

290

Appartenenti alla polizia

144

Prostitute

11

Se avessimo scritto al momento che queste cifre ci caddero sott'occhio, la nostra penna si sarebbe convertita in pugnale, il nostro inchiostro in veleno. Abbiamo dunque voluto digerire la nostra bile, ed ora il piú pacatamente che si può domandiamo a tutte le autorità, domandiamo al pubblico: «È egli onesto, che 452 infelici gridino da quattro anni, ed inutilmente ogni giorno: — Fateci giustizia

Ciascuno in quattro anni ha costato al Governo 343 docati, e 52 grana: or chi è questo ciascuno? È un infelice che strozzato dal bisogno, o rubò, o fu complice d'un brigante; ma quale dei nostri contadini non diventerebbe uomo onesto se il governo gli desse i 343 dotati che ora spende per tenerlo in prigione? Il governo intende di moralizzare il paese, di migliorare il costume del prigioniero, ma non è questo il modo di ottenere l'uno scopo, e l'altro. L'infelice vede ogni giorno la moglie, la figlia, la sorella venire a visitarlo in Cosenza, e perdervi in quest'occasione l'onore e la salute; vede sparire a poco a poco la ricchezza dei suoi cenci domestici, mancare il pane alla prole, i magistrati sordi alle sue suppliche, il suo processo buttato in fondo ad altri mille, ed un tesoro di odio contro gli uomini, di vendetta contro la società, di disprezzo verso la legge gli si accumula lentamente nel cuore; e quando suona l'ora della liberazione, i bisogni cresciuti e la necessità di compensare quattro anni di lacrime anche con un mese di vita piena, libera, gaudente, lo spingono a crescere il numero dei briganti. Avete inteso, signori magistrati? È vero che in parte la colpa è dell'attuale guazzabuglio giudiziario; è vero che non tutti i giudici di mandamento hanno volere e capacità di fornire i pochi processi di loro competenza; è vero che l'esser priva Cosenza di una sezione della Corte di Appello impartisce ai processi l'attributo dell'eternità; ma è vero ancora che tre Giudici istruttori, ed un Regio Procuratore e due Sostituti potrebbero fare di piú di quel che fanno. Guardate dunque, miei onorevoli signori, l'interesse della finanza, della giustizia, e della pubblica morale. Pensate che ogni giorno 452 infelici vi gridano: — Sbrigate i nostri processi. E voi sbrigateli, e voi travagliate, e siate pur certi che, sia qualunque la mole d'un processo, chi ha vera capacità e lunga pratica non se ne mette paura. Pur questo non basta, e vi è tale scandalo a cui il dizionario non mi porge veruno epiteto conveniente. Vi sono in alcune regioni parecchi detenuti che non appartengono a nessuna autorità! Non al Prefetto, non al Generale, non al Procuratore Regio: nessuno di costoro ne ha ordinato l'arresto, nessuno di costoro sa che quell'arresto sia stato eseguito. Il fatto ne viene assicurato da tale, a cui abbiamo mille ragioni di aggiustar fede; e noi per onore di questo governo che tanto ci è a cuore denunciamo questo scandalo che oltraggia le fondamenta della Costituzione, perché tutte le autorità civili e militari si informino se sia vero, e lo facciano sparire.

Quando noi girammo le mura esteriori delle prigioni ci venne all'orecchio una canzone. La poesia figlia di Dio è il primo bisogno nella gioia, e nel dolore; e noi udendola dal primo all'ultimo verso la ritenemmo a memoria, ed è questa:

 

Jetti (andò) na petra allu mari perfunnu

Lu juornu c'allu càrciuru trasivi.

Càrciaru, (amaru iu!) quantu si' funnu!

Sipoltura di muorti, iu ci stò vivu.

Vorra sapiri chi n'è de stu munnu,

E si l'amici mia su muorti o vivi.

O aria, chi subbierni (sei sopra) tuttu u munnu!

Libertà bella, cumu ti perdivi!

 

Buona donna che fili, chi sono quei carcerati? — Sono, mi rispose la vecchia, i carcerati della polizia. — Alla parola polizia noi che fummo vittime della polizia borbonica, noi che odiamo ogni cosa, l'iniziale del cui nome fosse p, anche pane, anche il prosciutto, piangemmo, e frememmo. Il Prometeo incatenato di Eschilo quando invoca gli elementi non ha espressione sublime al par di quell'O aria che governi il mondo! O libertà bella, come ti ho perduta! Nessuna lingua possiede un paragone simile a quello tra il prigioniero ed una pietra che cade nell'oceano profondo! Nessun cuore può rimanere freddo al desiderio del prigioniero che ignora se gli amici sieno vivi o morti, se il mondo sia nella stagione d'inverno o di està. Noi ne piangemmo, ed ora domandiamo alle Autorità, a cui spetta: — Che fanno colà 144 prigionieri per ragioni di polizia? Debbono andare a domicilio coatto? Vi vadano. Non meritano d'andarci? Si liberino. Sono rei? Si giudichino con le forme ordinarie. Temete che liberandosi in questo tempo possano divenire briganti, o manutengoli? Ed in questo caso ascoltate il nostro povero consiglio. Date a ciascuno di quei miserabili 85 docati, e 41 grana che dovreste spendere a tenerlo chiuso per un anno, e dite loro: Tu comprati un mulo, e fa il mulattiere; tu zappa e sementa, e coltiva; tu un paio di buoi, e guadagna la vita. Ah! non è da stupire che conoscendosi il bisogno essere il consigliere dei misfatti non siasi ancora pensato dai legislatori di scemare il primo per diminuire i secondi?

Speriamo che i nostri voti saranno soddisfatti. Se non lo saranno, voi, poveri pidocchi che avete un'anima, non disperate perciò. Dite alla vostra marcia, ed alle vostre piaghe: — Vendicateci. La miseria è piú onnipotente della grandezza: il pidocchio può anche mordere. Fortuna vi negò tutto tranne i quadri nosologici. Leggete dunque e scegliete. Avete in vostra balia la peste, il tifo, la petecchia. Fatele uscire, ammorbate la società che vi calpesta; e cosí solamente i Giudici cesseranno di dormire, i Cancellieri di sbadigliare.

30 marzo 1864.




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