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Vincenzo Padula
Persone in Calabria

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LA SOCIETÀ OPERAIA

La sera del 3 s'inaugurò in questa nostra Cosenza l'apertura della Casina degli Operai. La sala era illuminata per benino, vi era la bandiera nazionale, vi era la banda, vi era un'eletta accolta di persone. L'entusiasmo si leggeva in tutti i volti, il nostro bravo Traiano Ippolito andava attorno con sigari, Santo Allegro non smentiva il suo nome, rideva, saltava, danzava, improvvisava brindisi, e se le rime del buono ombrellaro e sarto erano spesso sbagliate, il concetto n'era però sempre patriottico. L'inno di Garibaldi equivale allo sciampagna; ma lo sciampagna vi fu pure, vi furono i nostri vini nostrali, dono di Dionisio Mauro, vi ebbe un'enorme pizza rustica, fattura di Donna Peppa Gallicchio, che in questi lavori di pasta non ha chi le metta il piede innanzi. Il presidente Mariano Campagna invitò il «Bruzio» a dir qualche cosa e in quell'occasione il «Bruzio» parlò cosí:

 

Signori,

Mi si chiedono due parole, ne dirò quattro. Io mi rallegro innanzi tratto del generoso pensiero che vi ha spinto ad unirvi; nella unione sta la forza, e la forza accompagnata dal dritto è la padrona dell'universo. Vi ebbe un tempo che l'ozio fu creduto nobiltà, santità l'ignoranza, e nome di vergogna il nome di operaio. Quel tempo è passato, il primo artefice, il primo maestro, il primo fattore, e l'eterno operaio è Dio. Credere che Dio o siasi riposato, o riposi è un errore. Se si fermasse per poco l'oscillazione del cuore, vi sarebbe mai vita? Se restasse il lento moto della serpentina, l'orologio continuerebbe ad essere quello ch'è? E se Dio ritirasse le mani dal mondo, il mondo cesserebbe di esistere. Il cappello è il simbolo della libertà dell'operaio; lo portano tuttora i fratelli delle nostre congregazioni. È un simbolo, da cui è fuggita l'idea, è una reliquia di antichi tempi, quando la religione non guasta ancora da terrene cupidigie, creava le confraternite per raggiungere uno scopo di pietà ed insieme di politica, rivendicando all'individuo i suoi diritti. Traiano Ippolito è andato testé in giro presentandoci dei sigari sopra un cappello; e la sua fu un'idea gentile; ché certo non ci è chi sia degno di coprirsi sul tramonto d'una utile giornata, e guardare il cielo col cappello in capo, se non l'operaio, che tergendosi, con le mani il sudore della fronte può dire: «Il mio pane non è frutto dei lavori o dei delitti degli avi, ma è frutto delle mie fatiche; è duro, ma il mio sudore lo fa molle; l'ho acquistato senza vergogna, lo mangio senza rimorso». Ho detto ch'ei si terga il sudore con la mano: avete riflettuto che sia la mano? È la ministra dell'intelligenza, è l'arme innocua ma potente, che scevera l'uomo dalla bestia. Date la mano alla bestia, e la bestia sarà uomo; toglietela all'uomo, e questi perderà il dominio sull'universo. Essa trasfigura la materia, e v'imprime le gioie, i dolori, le speranze dell'operaio; essa crea mille forme e rende palpabili, visibili, ed immortali le idee. Né mi parlate della nobiltà di queste. Idee che non possono tradursi in fatti, idee, che aggirandosi solitarie nel cervello non possono muovere i muscoli, sono inutili idee. Or l'operaio adopera la mano, ed è uomo; trasforma la materia, e diventa emulo e manovale di Dio.

Ma quest'emulo e manovale di Dio ha ottenuto ciò che gli spetta? ha occupato nella società il posto che gli conviene? Udite, signori: vi racconterò una storia. Un calzolaio lavorava sull'uscio di via: passa con la croce sulle spalle il divino operaio, e chiede di potere riposarsi sulla soglia. La miseria ci fa crudeli, il calzolaio era misero, e gli risponde «Cammina». E Cristo gli disse: «Io camminerò, ma poserò, tu camminerai, né poserai». E di presente quel malarrivato sospinto dalla forza misteriosa delle divine parole rientra in casa, di piglio ad un bastone, e comincia il giro dell'universo. E son diciannove secoli ch'egli cammina, di giorno e di notte, sotto la sferza del Sole, e sotto quella delle tempeste, né può trovare ancora una pietra, neppure quella del sepolcro, per adagiarvi lo stanco capo. Questa storia dell'ebreo errante è una favoletta ingegnosa, che significa le vicende della vita dell'operaio. Dacché Cristo è morto, una grande rivoluzione cominciò per la umanità; gli uomini di tutte le classi si mossero, e qual piú, qual meno raggiunsero il loro scopo; i soli operai camminano ancora, ed arriveranno alla meta. Che cercano essi dunque? Quel che cerchiamo noi, quel che cercano tutti: il progresso.

Quel granello di arena, che agita il vento, è corpo inorganico. Una pianta vi estende le barbe: il granello ne è assorbito, passa in succo, diventa parte d'una fronda, d'un fiore, d'un frutto. Non avea vita, e l'acquista. Un bruto divora quel frutto, quel fiore e quella fronda: il granello lascia di essere parte vegetabile, e diventa animale. Non avea sensazioni, non moto volontario, e l'acquista: era sospinto dal vento, ora fattosi parte dell'ala dell'uccello, lo domina, canta nella sua gola, vede nei suoi occhi. Garibaldi si nutre di quello uccello, ed ecco che il granello di arena, che prima si trasformò in vegetabile, poi in animale, ora è parte della carne d'un grande uomo. Diventa la fibra che si scuote, quando egli pensa di redimere l'Italia, il muscolo della mano che stringe il ferro, quando abbatte il soglio dei Borboni, la goccia del sangue, che gli spiccia dal piede, quando cade in Aspromonte. Nella natura dunque, ch'è opera di Dio, vi ha un continuo progresso, una trasformazione perenne, onde la materia inorganica si cangia in organica, ed ogni essere passa dal suo ad un gradino superiore. E questo medesimo progresso perché non dev'essere nella società, la quale è opera dell'uomo? Una società dove l'individuo è stazionario, ha ingegno e non può svilupparlo, operosità e non può adibirla, sete di essere felice, e trova nelle leggi, nei pregiudizii, nella propria posizione ostacoli a soddisfarla, credetemi amici miei, è una cattiva società. In questo caso gli uomini si ribellano, ed egli è a traverso di guerre sanguinose che l'ebreo errante dell'operaio acquistò il dritto di progredire, di trasformarsi, ed ha progredito, e si è trasformato.

Che ha fatto egli dunque? Prima era servo della gleba, era parte di un fondo, si comprava, si vendeva con esso, era vegetabile. Poi si sbarbò dalla terra, si attaccò ai servigi d'un patrizio, divise coi cani le briciole cadenti dalla mensa del comune signore, e diventò animale. Poi si ricordò che quell'animale era battezzato, si volle che il suo servizio fosse a tempo, gli si assegnò un salario, e l'animale diventò uomo. Poi si uní con altri suoi simili, fu parte d'una corporazione di arte, si assicurò contro la fame, ma non fu persona. Poi le corporazioni si sciolsero, egli acquistò i dritti civili e politici, divenne persona, ma morí di fame, e muore di fame adesso. Perciò egli si muove, perciò egli ebreo errante cammina ancora, ed altro non cerca qual meta di suo cammino, che giustizia e carità. La ricchezza, o signori, è un effetto dei capitali e del lavoro; il capitalista ha i primi, l'operaio ha il secondo. La società dice al proprietario ed al capitalista: «Pagami la fondiaria, e la ricchezza mobile, ed io assicurerò la tua proprietà dai ladri». Ma che cosa dice all'operaio? nulla. Gli assicura il lavoro? neppure.

L'operaio dunque chiede che gli venga assicurato il lavoro: ecco la giustizia; che nelle infermità e nella vecchiaia trovi una mano soccorrevole: ecco la carità. Ad attuare l'una e l'altra si richiede il concorso del governo, ed il vostro. Il governo deve essere libero; e come la libertà del governo lo conduca a poco a poco, senz'avvedersene, ad assicurarvi il lavoro, non è qui luogo da dire. Voi dall'altra parte dovete essere istruiti e morali. Emancipatevi, scriveva Garibaldi agli operai di Brescia, dal prete con l'istruzione, dallo sgherro col lavoro. Lavoro, moralità, istruzione, ecco il vostro scopo. Vi siete uniti per raggiungerlo, e Dio benedica i vostri sforzi. Io aborrii sempre dalle Società popolari; perché la verità è un po' amara, ma debbo dirvela. Il popolo è il bracco che scova la lepre, ma non mangia la lepre; la lepre è mangiata dai cacciatori, dagli ambiziosi che si servono di voi come di sgabello per salire sublimi, che vi promettono mari e monti, e v'ingannano, e ad altro non mirano che ad ottenere i vostri voti per una candidatura, ed il vostro braccio. Aprite gli occhi, miei buoni amici. Le quistioni politiche non sono per voi. Il migliore dei re si è sacrificato per la grandezza d'Italia: abbiate fede in lui, e nel parlamento.

Pensate a far buoni deputati, e poi chiudete gli occhi. Istruirvi, educarvi, soccorrervi mutuamente, imparare a stimarvi tra voi, sia il vostro fine. Distinguete l'idea dal fatto, il principio dal governo. Il governo è un insieme di uomini: possono essere cattivi, possono ingannarvi; ma oggi ci sono, domani no. Ma il principio sacro, per cui dovete combattere, è l'unità, l'indivisibilità, la libertà d'Italia, e l'eterna distruzione del passato. Voi, e il basso popolo di nostra provincia avete finora parecchie giuste cagioni di lagnarvi del governo; ma, ripeto, distinguete il governo dal principio, e serbatevi fedeli a quella bandiera, che ci sventola sul capo, e ci dice: «Avanti, e non vi volgete indietro, neppure con la memoria».

8 aprile 1865




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