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Vincenzo Padula
Persone in Calabria

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IV. — I BRACCIANTI

La classe piú numerosa e piú miserabile è quella dei braccianti. Fino ad otto anni il fanciullo calabrese va dietro all'asino, alla pecora, ed alla troia: a nove anni il padre gli pone in mano la zappa, e la pala, in ispalla la corba, lo conduce seco al lavoro, e lo mette in condizione di guadagnarsi 42 centesimi al giorno. A quindici il suo salario cresce, e ne ha 67; a venti non tratta piú la zappettina, ma la grossa zappa, e con rompersi l'arco della schiena da mane a sera ha 85 centesimi e la minestra, o 125 senza minestra. Allora si sente di esser vero bracciante, e, per scemare o raddoppiare la sua miseria, prende moglie. E la prende, perché il padre dice: Ad agusto, fora fora, nun vuogliu sèntari chiú suspiri. E finito in agosto il ricolto, il bracciante ha una piccola provvisione di grano che gli il padre, e prende moglie. La nostra contadina in aprile sogna fiori, e il bracciante è contento, perché in Calabria per dormire a letto bisogna essere marito. Fino a due anni dormí nel misero letto dove fu concepito: nacque il secondo fratello, ed egli fu respinto nella parte inferiore; nacque il terzo, ed egli uscí dal letto e dormí sopra il cassone; nacque il quarto, ed ei cadde giú dal cassone, e si trovò a dormire sul focolare. Poi crebbe, e d'inverno passò la notte nel pagliere accanto all'asino, d'està prese sonno sulla via allo scoverto, e, se avea un'innamorata, andò a dormire sullo scaglione della porta, o sul ballatoio della scala di lei.

 

Tutta stanotti a na scala ho dormuto;

L'acqua e lu vientu mi ci ha perramatu;

Ma u vientu mi paria lu tua salutu,

E l'acqua mi paria acqua rosata.

 

Perramare significa perticare, abbacchiare; e il poverino era flagellato dall'acqua e dal vento; e nondimeno quel misero ha tanta gentilezza di cuore, e bellezza di fantasia, che il buffo del vento gli pare il saluto della sua bella, ed acqua di rose la pioggia. Ma agosto è venuto; egli si mette una piuma di pavone al cappello, e prende moglie; e l'idea della moglie va associata con quella del letto, del letto che gli sembra un trono. E come potrebbe immaginare l'una senza l'altro? Nella Calabria nostra la povera donna del popolo per maritarsi deve avere un letto, che spesso è l'unica sua dote; e il nostro bracciante che fino a venti anni si ha ammaccato le carni sulle pietre della via, vede quel letto e canta:

 

Intra su liettu 'e ricamati panni

Ci sta na varca cu tricientu 'ntinni:

E' na figliola di quattordici anni,

Calata da lu cielu 'nterra vinni.

Sia beneditta chi ti fozi mamma,

E beneditta chi ti dezi minna,

Nun mi guardari cud uocchi tiranni!

Spogliati, bella mia, e jamuninni 11.

 

E la bella, che si spoglia, a lui sembra una barca con trecento antenne. Che immagine graziosa! Il poeta aristocratico, ed ignaro della vita paragona una bella donna alla farfalla variopinta, alla tortorella che geme, alla pallida luna che viaggia, alla rosa ricca di minio che pompeggia nel prato; ma il nostro bracciante ha miglior gusto, non ha che farsene né di farfalle, né di rose, né di luna; e vuole una barca con trecento antenne, una donna dal collo corto, dalle spalle larghe, dai fianchi arditi, dai polsi di acciaio, vigile, diligente, infatigabile massaia; e siffatta donna si chiama barca tra noi, barca che porta grano e ricchezza, barca con la quale il povero uomo spera solcare lieto le onde tempestose della vita. O venti, spirategli propizii! Ei benedice a colei che le dié la poppa (minna), e si mette in cammino! Che ne avverrà? O lettori, e lettrici, cui fortuna sorrise, lasciate di contemplare le piaghe di un Cristo di legno: io vi prèdico la vera religione, e vi mostro un Cristo di carne, il bracciante.

Non in tutti i comuni il bracciante trova un terreno comunale da coltivare; se lo trova, non rinviene un monte frumentario che gli muti la semente; se il monte frumentario vi è, non ha un signore che lo garentisca; e se vince questi ostacoli, se a forza di pazienza e d'industria è giunto ad ottenere un pezzo di terreno comunale, gli uccelli grifoni (ché cosí i galantuomini usurpatori si chiamano tra noi) quanto tempo credete che lo lascino tranquillo? La poesia popolare è il sublime gemito del popolo, il grido che lascia dietro a sé questo torbido torrente senza nome, che scorre per un alveo interrotto da sassi; e la poesia popolare dice cosí:

 

Nun appi sciorta de dormiri a liettu,

mancu de mi fari nu pagliaru:

Mi ni fici unu 'npedi a nu ruviettu (rovo)

Jiètturu (andarono) i genti boni, e m'u sciollaru.

Pe lu munnu li via (possano) jiri dimierti 12

Cumu fo (fanno) jiri a mia senza pagliaru!

 

Il poverino dunque che non ebbe sorte di dormire in un letto e di possedere una capanna, se ne avea costruito finalmente una a pié d'un rovo, come fa la lucertola, come usa la capinera di formarsi il suo nido; ma quel terreno era buono, fece gola alla gente buona, cioè al galantuomo, e il galantuomo mandò i suoi guardiani armati fino ai denti, che demolirono la capanna! L'infelice non si scorò; scelse il terreno piú sfruttato, piú inutile, una grillaia, un renacchio insomma; ma anche quel luogo gli fu invidiato.

 

Amaru iu! duvi simminai!

A nu rinacchiu 'nmienzu a dua valluni.

Simminai ranu, e ricoglietti guai,

All'aria riventaru zampagliuni.

Vinni nu riccu pe' si l'accattari;

Pe' dinari mi detti sicuzzuni.

Jivi alla curti pe' m'esaminari,

U Capitanu mi misi 'nprigiuni.

Jivi a lu liettu pe' mi riposari,

Cadietti e scamacciavi li picciuni.

Jivi allu fuocu pe' m' i cucinari,

A gatta mi pisciatti li carbuni.

 

Questa canzone vale quanto l'Iliade di Omero. È la storia lacrimevole del popolo Calabrese, e si prova, — all'udirla cantare dal contadino, quando tra un verso ed un altro fa pausa con un cruccioso colpo di zappa, — una compassione profonda. Egli dunque seminò in un renacchio collocato tra due torrenti; seminò grano e il suo raccolto fu di dolori. Gli zampagliuni sono, ora i grilli di lunghe zampe, ora le mosche cavalline; e il suo frumento battuto sull'aia diventò uno sciame di mosche e volò; perché i creditori non gli diedero tempo di portarselo a casa, ma gli furono sopra sull'aia medesima, e glielo sequestrarono. Il misero pensò di vendere quel renacchio ad un ricco signore; e costui, invece di denaro, gli diede sicuzzuni, parola che risponde a capello al toscano sergozzone, perché pare che in tutti i punti del globo i sergozzoni siano fatti pel contadino. Spogliato e giuntato se ne richiamò col Giudice, e per tutta giustizia il Capitano lo manda in prigione. Quale scoramento non entra allora nel cuore del malarrivato! Nulla gli riesce, nulla crede che gli possa riuscire; trova inciampi per tutto, anche nel letto, ne casca giú, e schiaccia (scamaccia) i piccioni, che vi si educano sotto. L'ultima strofe ha una grazia indefinibile, la grazia del riso tra le lacrime, la grazia dell'uomo che la baia a se stesso ed alla fortuna. Accende il fuoco, vuole arrostirsi i piccioni; ma un triste destino veglia ai suoi danni, e il gatto orina sulle braci e gliele spegne. I suoi proverbii sono informati da giustizia profonda: Sugnu fortunatu cumu l'erba d'a via! U disignu d'u póvaru u vientu u mina! Tutti i petri s'arruzzuòlanu alli piedi mia! U vo' ha da moriri cu la lingua grossa! Egli dunque non è uomo ma un'erba che cresce sulla via: chi passa la calpesta! Fa mille disegni, ma un soffio di vento glieli disperde, e l'avvenire resta chiuso per lui! Nel cammino della vita chi lo precede e chi lo segue smuovono le pietre, e queste rotolando non feriscono altro che i piedi suoi! La società con tutte le classi piú elevate gravita su di lui, ed egli bue, egli fratello del bue, condannato a continuo lavoro, non può neppure lagnarsene, ma deve come il bue (vo') morire per ingrossamento di lingua! Non è trista siffatta condizione? Eppure il detto è poco. Il nostro bracciante è rimasto senza terreni comunali; che ha da fare per vivere? Locare le sue braccia: e noi, che amammo sempre la conversazione del povero e dell'infelice, restammo commossi tutte le volte che stendendole e facendo spallucce ci disse, (come è solito di dire) «Non abbiamo che queste!» Bastassero almeno a farlo vivere! Ma ciò è impossibile. Il suo salario, il dicemmo, è una miseria, ed il lavoro campestre non e continuo tra noi, ma periodico e due volte all'anno. Stante i meschini termini in che si trova l'agricoltura, si sconosce il seminatore, lo scotennatoio, la marra, ed il bidente. S'ignora il mazzuolo per schiacciare le zolle, il cilindro per comprimere le sementi, l'erpice per appianare i solchi, ed i varii istromenti, per innestare ad occhio, a scudo, a scappo. Uniche armi sue sono il digitale, la falce e la forca quando miete, la zappa, la vanga e la scure quando semina. La zappa a piccone (pínnolo), la gruccia per ficcare i magliuoli nel divelto, e la pala per lo sterro sono del proprietario che adopera il bracciante. Né poi tutti i braccianti sono buoni a questi semplicissimi lavori campestri: non tutti sanno trattare il pennato e potare le viti, non tutti contare le viti, per propagginarle, non tutti l'arte dello innesto. Zappare per seminare, potare e schiarire gli alberi, cavare formelle per piantarvi gelsi, fichi ed olivi, ed i lavori, che in paesi piú culti si fanno dai giumenti e dai carretti, sono tutte le occupazioni dei nostri braccianti. Fossero almeno continue! Grazie alle fatiche dell'està, la sua piccola casetta ha in agosto qualche bene di Dio; ma il proverbio suo dice:

 

Agustu porta lìttari,

Settembre si li leje (se le legge):

Viestiti, 'nculu nudu,

Ca viernu priestu vene.

 

Agosto divenuto corriere porta lettere a settembre. Il signor settembre sgombrasi la fronte, per veder meglio, dalla corona dei pampini che lo adombrano, legge le lettere, e vi trova scritto: O povero bracciante, che hai le natiche nude, pensa a vestirti, perché l'inverno è vicino. E il poveretto vende parte del grano riposto, e si veste, e guarda fidente il futuro. M'ohimé! Finu a Natalifriddu, né fami: E Natali avanti tremanu i 'nfanti. Questo proverbio dipinge lo stato del popolo nostro: con le provvisioni accumolate in està egli vive fino ai 25 di decembre, e d'ind'in poi? E d'ind'in poi, il freddo, la fame, la miseria, la malattia, la disperazione ne porta metà all'altro mondo. Il bracciante guardasi le braccia divenute inutili, la neve che gli cade sul letto, e lo chiude in casa, il focolare senza un tizzo che lo riscaldi, e fa debiti sopra debiti, e la sua preghiera è che Dio gli faccia vedere aprile. I proverbi: È juruta a frasca; nun avimu chiú paura, — e A primavera u Signuri spanni a tàvula 13 sono commoventi. O tragicommedia della vita! Il fiorellino che spunta parla due linguaggi; al ricco dice: «Ama!» al povero dice: «Mangia!» E il bracciante riprende la zappa, e torna ai campi; ma questa volta non lavora piú allegramente, perché sa che tutti i suoi guadagni della bella stagione non bastano a pagare i debiti da lui contratti nella brutta. Una canzone popolare dipinge il suo stato, ed è mirabile:

 

Iu chiangu (piango), amaru io! quant'aju de dari;

Nu mi resta nu filu de capilli.

 

Infelice! per pagar dunque i suoi debiti dovrà privarsi di tutto, e rimanersi senza un filo di capelli?

 

Nun puozzu cu la genti pratticari;

Ugnunu chi mi sconta: Avissi chilli?

 

Che pittura vera! Egli non può bazzicare liberamente come prima e chi lo incontra strofina il pollice sull'indice e gli dice: Hai tu quel denaro che mi devi? Quel chilli senza sostantivo, quella domanda senza un mi dice, che lo preceda, son due eleganze stupende, che non s'imparano certo sul vocabolario, ma sulla bocca del popolo.

 

Io mi vuotu cu nu buonu parrari:

Oji li dugnu a tia, dumani a chillu.

 

Io mi volto. Non ti pare di vedere un botolino dentro una cerchia di grossi cagnacci, che con la coda tra le gambe giri attorno a stesso? Con un buon parlare. E certo il suo dev'essere un umile e buon parlare per chetare i creditori, quando dice: Oggi pagherò te, domani lui.

 

Ca si alla chiazza mi faciti stari,

Iu a pocu a pocu vi ni pagu milli.

 

La piazza (chiazza) è avanti la Chiesa, è il luogo di riposo e di diporto nelle domeniche per i braccianti; e il nostro vuole che quivi non lo molestino, perché egli è puntuale, e non che cinque pagherà mille debitori, ma a poco a poco. La domanda è onesta, ma il difficile in Calabria è di trovare un creditore che ti dia respiro.

 

Si mi faciti pua sempri 'ngrignari,

Iu mai né pagu a tia, né pagu a chilli;

Ma mi fazzu na mazza 'e nu cantaru,

E a tia ni dugnu sette, e cientu a chilli.

 

Ed ecco qui l'indole nuda del Calabrese. Con le buone ne fate a vostro senno; ma se lo fate adirare ('ngrignari), non solo non paga a te ed agli altri, ma si procaccia una mazza del peso d'un cantaio e la darà a te sette volte per le spalle, e cento per le altrui.

2 luglio 1864.

*

Uscita la stagione della semina, i nostri braccianti si adoprano in tutt'i modi per vivere. Altri pigiano le uve nei palmenti, e nei tini, altri corrono alle fungaie sul cadere delle prim'acque, altri rassettano le castagne, e calzati di zoccoli le sgusciano dopo che son secche nel metato, altri pigliano il mestiere del manovale o del carbonaio, altri fa panieri, o fusti per basti, o cerchi per botti, ed altri diventa fattoiano, ossia trappettaio. Non tutti però sono abili a queste sorte mestieri, né ogni paese offre occasione di esercitarli; e però il piú che altro non sa che trattare la zappa o la vanga emigra in lontane contrade, e Sicilia ne riceve ogni anno nude, innumerevoli, e fameliche schiere. Né siffatta emigrazione è altrove maggiore quanto nei comuni del Manco, con che danno dell'igiene e morale pubblica il vedremo in seguito. Di tutti i lavori del bracciante prende parte la sua barca con trecento antenne. — Due tizzi morti non fanno fuoco, dice il loro proverbio, e se il marito è tizzo che arde, la moglie ne seconda le fiamme, e quando è diligente ed operosa massaia si dice che sostiene il naso sulla faccia del marito. Che fa dunque costei? Per saperlo è d'uopo entrare in sua casa. La casa del bracciante è a terreno, non battuta, né ammattonata; riceve la luce dalla porta, e se ha finestra la è senza vetri o impannata. Di fianco è il focolare privo di cappa e di cammino, e il fumo tinge le pareti, e costringe gl'inquilini a curvarsi. Di faccia è il letto fatto d'un saccone, poche volte d'una materassa ripiena di capecchio, e fornito di due coverte. Una caldaia ed un calderotto di rame, una padella di ferro, un albio col mattarello, una madia con la rasiera e lo staccio, un bacioccolo per pestarvi il sale, pochi canavacci, due o tre canestri, e panieri, una caniccia per riporvi sopra o frutta, o pane o altro, un carruccio per tenervi il bimbo, una cassapanca vicino il focolare, un cassone con due sedie sopra, un trespolo per desinarvi, pochi scanni di ferola, un cofano, due o tre corbelli col cercine dentro, due o tre corde, due o tre stroppe e bilie, un crivello, una lucerna di creta, poche stoviglie risprangate con accia, una bombola di creta invetriata, due orciuoli, un bacile, un paio di sacchi, una bisaccia, una scala a piuoli per andare al soppalco (suffitta o chiancatu), un catino per rigovernare i piatti, un bicchiere, un paiuolo, una pentola, due o tre zucche per riporvi pepe e sale, uno ziro, due o tre terzeruole, una scodella di legno, una scure, una zappettina, una granata, una bugnola, e due o tre batacchi dietro la porta, e un gatto, un porcello, e poche galline formano tutta la masserizia e la ricchezza della nostra barca con trecento antenne. Manca l'orinale e il pitale; ma in Calabria l'occorrenze si fanno innanzi la porta; le abitudini della nettezza non sono ancora parte di nostra educazione, e finanche in Cosenza non è raro il signore che la sera prima d'andare a letto apra i balconi, ed orini sulla strada. Faccia tinta, e trippa piena dice il nostro popolo; e quindi il bracciante si lava il viso la sola domenica quando si rade, e la sua donna quando va all'acqua. Mentre l'orciuolo si riempie, ella si sciacqua la faccia, il collo, ed i piedi nudi ed inzaccherati; poi guarda d'attorno, solleva la gonna, piglia un gherone della camicia mostrando una gamba invidiabile alla signora, e si asciuga. Memore del proverbio: A gallina chi cammina, si ricogli cu la vozza (gozzo) china, ella ai primi bagliori antelucani armata di scure va in contado; fa una fascina, od un fastello, lo lega con la sua stroppa, se lo mette sul cercine e rientra in paese a venderlo cinque soldi. Poi si piglia il barile, lo porta pieno d'acqua a chi ne la richiede, e guadagna un soldo; poi, se la signora la chiama, le abburatta la farina, le porta le tavole col pane al forno, e si busca una focaccia a tre pani; o vaglia il grano del proprietario, e le si un morsello o di cacio o di lardone; o fa il bucato ad altra signora, ed ha 42 centesimi, una minestra di fave, e quattro pani di segala; poi, se le avanza tempo, fila, governa il porcello, e le galline, e si pettina. Di està coglie la foglia pei bigatti, ed ha cinque soldi a sacco; lavora nei campi, quando si sarchia, si miete, si trebbia, ed in tutte sorte lavori il salario della sua giornata è sempre 42 centesimi. I marroneti sono vicini al domestico, e nel mese di ottobre ella rassetta le castagne; poi, se il marito glielo permette, emigra nei paesi maremmani, e loca l'opera sua a rassettare l'olive. Affannandosi in questo modo ell'aiuta il marito, ed i due poveretti vivono; e per vedere come vivono bisogna vedere come mangino. Memore del proverbio: A stati chiudi spini, ca u viernu si riventanu ngilli, ella seccò al sole forza di zucche, di peperoni, e di bucce di poponi; raccolse l'olive appena vaiate e giú battute dal vento, i pomodori acerbi, i petronciani, i funghi e li salò nelle sue terzuole; e questi e le patate, e gli agli e le cipolle, e le uova della gallina sono tutti i loro cibi: cibi che sono spine, e non diventarono anguille. Quando sono ricchissimi mangiano pane di segala, di frumentone, o inferrigno: finito il grano, mangiano il castagnaccio, o pane di orzo, o d'una mistura di veccia, lupini e fave. Vino non mai, se non quando l'hanno in dono; carne non mai, se non quando uccidono il porco, o per qualche lavoro estraordinario sentonsi sonare in tasca una lira di piú. Allora i poveretti dicono: Chi gabbari u chianchieri, — Cumprassi capu, trippa e piedi, e, per frodare il beccaio comprano una busecchia col sangue, e spanciano e lupeggiano per un giorno. Perché noi sorrisi dalla fortuna provassimo pietà per questa povera gente, ci bisogna vedere i nostri braccianti nell'ora del beruzzo. Per rinfrancare le forze si cavano di tasca un cantuccio dell'orribile pane, onde dicemmo pocanzi, e lo mangiano o scusso o accompagnato da un peperone, o da un capo d'aglio! E nondimeno tra tanta miseria il genio calabrese non si estingue: la poesia rovescia la sua luce sulla povera casacca, e la rattoppata guarnaccia, e composte dai braccianti nostri sono l'anonime canzoni popolari che ne descrivono lo stato. Una di esse dice:

 

Un mi ni curo si giùvani iu muoru,

Ca lassu la mia bella accomudata:

Li lassu na gallina chi fa l'ova,

Nu gallo chi li fa la matinata;

Li, lassu na farzata (coperta) e dua lenzola,

Si ci cummoglia alla forti vernata:

Li lassu nu stuppiellu 14 e piparuoli;

Si ci mangia lu pane quannu è stati.

 

Quanta pietosa ironia è in questa canzone! Il bracciante dunque muore contento, perché sa che, morto lui, la moglie rimane provveduta di tutto! E di che e provveduta? D'una gallina, che le fa l'uovo, d'un gallo che la sveglia, d'una sola coverta per l'inverno, e di peperoni ardenti, coi quali, egli dice, la si rinfrescherà il sangue mangiandoli in està col pane, o facendone una crescentina.

Quest'altra canzone è piú seria, mettendo a confronto il povero col ricco:

 

Nasci lu riccu e buono parentatu

U povariellu de n'affritto lignu:

U riccu ad ugne tavula è 'mmitatu,

U povariellu nun ne fozi (fu) dignu:

U riccu, quannu ha debiti, è aspettatu,

U povariello o carceratu, o pignu;

Mori lu riccu, e la cruci ha 'nnorata (dorata),

U povariello ha na cruci de lignu.

 

Dopo tali canzoni dovrò aggiungere quella dei pidocchi? A questa, e consimili parole, molti nostri lettori che hanno il liberalismo, il galateo e la carità cristiana non nel cuore ma nel naso, l'arricceranno sdegnosamente. Noi abbiamo altro gusto; noi con questi pazienti studii sulle condizioni del nostro popolo miriamo a ben altro scopo che a quello di soddisfare un'inutile curiosità. Noi vogliamo che la classe culta ed agiata guardi il popolo nostro composto tutto di braccianti proletarii, nati da un legno afflitto, respinti dalla tavola dei beni sociali, costretti a garentire la lira, che si mutuano, o col pegno della zappa o col sacrificio della loro libertà; o solleviamo arditamente il lurido e fetido panno, che ne copre le piaghe, per far cessare le prepotenze, per far sparire le barriere che un orgoglio feudale ha messo tra i galantuomini ed il popolo, e per dir loro: «Educhiamolo». Ah! e che cosa è dunque un popolo, ch'è capace di comporre, di cantare, di udire ridendo la seguente canzone?

 

Nu journu li piducchi feru festa,

Mi jianu (andavano) pe' li spalli cumu muschi;

Ed io jia pe' porti e pe' finestri,

Nu quaderuottu pe' trovari 'nbrustu (in prèstito).

 

I pidocchi dunque festeggiano e fan galloria sulle carni abbronzate del nostro popolo, che non ebbe mai né due calzoni, né due camicie, e che per nettarsi degl'insetti, che lo succiano, si presta una caldaja, e vi mette a bollire i suoi panni!

 

Nu quaderuottu nun puotti trovari,

E jivi a mi circari 15 a nu valluni:

A schere a schere cientu a lu collaru,

E quattrucientu jianu allu juppuni 16.

 

Uni ci n'era, ch'era palummaru (palombaio),

Tenia li corna cumu nu muntuni:

Iu jiviamaru iu! — pe l'amazzari,

E mi dezi allu piettu nu 'mmuttuni.

 

Cadivi 'nterra, e cursi alli gridati

U capitanu de lu battagliuni:

Ni fuoziru (furono) tricientu fucilati,

l'àvutri (gli altri) si mísiru 'nprigiuni.

 

Tra i mille imitatori del Berni non mancò chi trattasse in buono italiano il medesimo argomento; ma il nostro bracciante poeta è rimasto insuperato. È grazioso quel suo andare a spollinarsi in un vallone; è bella l'iperbole d'un pidocchio armato con le corna d'un ariete che combatte col misero contadino e lo manda a gambe levate per aria, con dargli una capata al petto. E l'arrivo del Capitano che mette in ginocchio quei pidocchi come altrettanti briganti, e grida al suo battaglione: «Fuoco!», aumenta la bellezza dell'iperbole.

Ma noi domandiamo: — Un contadino pari al nostro, che conosce d'esser povero, imbrutito, lordo, sporco, ignorante e ne ride, non merita pietà da noi? Non è degno che ci occupiamo di educarlo, di migliorarlo, di fargli nascere in petto il sentimento della dignità umana? Esso attualmente non è uomo, ma un'appendice dell'animale. Lavora per mangiare, mangia per aver forza a lavorare, poi dorme: ecco tutta la sua vita. Sente i bisogni dell'intelligenza? No. Sente quelli del cuore? Neppure. E pensare che dopo una vita intera vissuta a stecchetto egli parte dal mondo senza aver conosciuto né il mondoDio, né le meraviglie del mondo e di Dio, è cosa che stringe il cuore. E stringe il cuore il vedere tutta la felicità d'un uomo attaccata ad un capo d'aglio, e quella d'una donna al possesso d'una gallina! Quando questa vien rubata, se ne piange la perdita per tre giorni. La nostra barca con trecento antenne è invasata da trecento furie, e facendosi all'uscio comincia a gridare: «Possano le penne della gallina mia nascere in faccia di chi la rubò! Altro non gli lasci Dio nella casa che la povera gallina mia! Io me l'avea cresciuta come una figlia con le molliche del pane, ed ella mi venia appresso come una cristiana. Mille sventure colgano chi mi tolse gli alimenti dalla bocca! Io ne cangiava le uova alla taverna or con olio, ed ora con sale, ed ero ricca. Si chiuda, come il baco nel bozzolo, chi chiuse in sua casa la gallina mia! O male vicine, datele la libertà. Dio sterri la famiglia, che ha rubato la gallina mia: non ci resti altro di vivo che una gatta nera che gridi Miaú. Possano nell'impeto del dolore raschiarsi il volto con lo scardasso! Possano dibattersi come trote inebbriate dal tasso, come fanno ch'io ora mi dibatta, e vada su e giú. O male vicine, liberate la mia gallina». Ponete in versi questi lamenti, non inventati certo da noi, ma presi dal vero, ma uditi mille volte, e farete una poesia che manca a Teocrito, a Virgilio ed a Gessner. La poesia è sorella della miseria, ed entrambe si trovano nel nostro popolo. Bisogna che l'una resti, e l'altra sparisca.

6 luglio 1864.




11 «In questo letto di panni ricamati c'è una barca con trecento antenne: è una ragazza di quattordici anni, calata dal ciclo venne in terra. Sia benedetta chi ti fu madre, e benedetta chi ti die' il seno, non mi guardare con occhi tiranni! Spogliati, bella mia, e andiamocene».



12 Letteralmente: «che io li veda andare raminghi per il mondo».



13 «È fiorito il ramo, non abbiamo piú paura. — A primavera il Signore apparecchia la tavola».



14 Antica misura del regno di Napoli corrispondente ad un ottavo di un tómolo.



15 «Andai a cercarmi», cioè a spidocchiarmi.



16 Una specie di panciotto.






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