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Vincenzo Padula Persone in Calabria IntraText CT - Lettura del testo |
La condizione dei bufalieri è simile a quella dei vaccari, se non che sono pochissimi, atteso che pochissimi siano gli armenti delle bufale, le quali piú per grandigia che per altro si tengono dai grossi proprietarii, e tra questi da quei soli che posseggono vaste tenute o presso il mare, e negl'ischieti dei grandi fiumi, o in contrade paludose, perché il bufalo, dall'occhio torbido e dall'aria stupida, che pare tra gli animali quel che l'etiope tra gli uomini bianchi, ama di voltolarsi nei motacci e negli acquitrini. Chi viaggiando muove lungo il Jonio ed il Crati lo vede tutto ad un tratto sollevarsi dall'acque sonanti degli stagni; e gli è mestiere di star sull'avviso e non avere sulla persona veruna stoffa tinta in vermiglio, perché egli sembra che il colore rosso metta in furia il bufalo, che gli si avventa contro con le corna abbassate. Quando le piogge iemali e le nevi disciolte gonfiano i nostri fiumi non cavalcati da ponti, i bufalieri trasportano il viaggiatore sull'altra riva con un carro tirato da bufali; e poco altro che questo è il profitto che cavano da siffatti animali, non adoprati nei lavori del campo, né in quelli dell'aia. Le bufale ci danno le provature, a cui per squisitezza concedono il primato tutti i latticini nostrani, e le mozzarelle, alle quali in quel di Roma dicono uova bufaline.
La classe dei vignaiuoli è venuta su non sono molti anni addietro.
Tra noi i terreni vignati sono a breve distanza del domestico; e, al primo verdeggiare che vi vegga innanzi dei pampani, il viaggiatore può dire: — Indi ad una, o due ore io sarò giunto nel paese, a cui vado —. Nessun genere di proprietà è cosí diviso e cosí comune quanto quello delle vigne: son piccole di estensione, ma appartengono a molti, ed una casa ed una vigna fanno che un uomo nostro si tolga al numero dei proletari ed entri in quello dei benestanti. Il proverbio che dice: Per la casa e per la vigna si marita la signa (scimia) ritrae a capello questa condizione di cose. L'ultimo del nostro popolo ha una casupola ed una fetta di terreno avvitito; l'una è una topaia, l'altra è sí meschina che, come diciam noi, un asino a voltolarvisi ne uscirebbe fuori con la coda e con le orecchie; ma è sempre un conforto pel nostro contadino il potere dare una dote alle figlie, che si maritano, dieci ceppi di vite. Le vigne non son divise da mura, ma da siepi di rogo, di ranno, di sambuco e di ginestra; spesso da un viottolo, e solo dal lato che toccano la strada maestra si cingono con muriccioli, non cosí alti però che il passaggiero non possa scavalcarli, e spingere oltre la mano e spiccarsi un grappolo. Le viti sono, come il piú delle donne calabresi, condannate al celibato, e non si maritano a pioppi, ad olmi, a cirieggi; ma si allevano nane, alte poco piú di tre palmi, legate con ritorte di ginestra e tútori di castagno, e a breve distanza tra loro. Solo quando la vigna è grande ed ha un bel palmento, le si fa un viale per lo mezzo, sul quale si ingraticolano pali a foggia di palco per ricevere le viti, che vi s'inerpicano. Ma questa sorta viti pergolane si educa meno per averne mosto, il quale, scorta la esperienza, riesce sempre di poco polso, che per ottenerne uve serbevoli e mangerecce di inverno.
Il pane al vino è malo vicino, dice un nostro proverbio, e però le vigne non si coltivano mai a grano, se non quando siano da guari tempo trasandate; e solo nel caso che il terreno sia fondato o panconoso, vi si piantano fave e piselli, e spesso lupini non per averne frutto, ma per farne sorvescio. Qua e là si vedono fichi, ciriegi, susini, melogranati, meli, peri, olivi, ma radi e lungo i fossati, dove non possano aduggiare troppo le viti. E il vario aspetto che ne nasce è veramente dilettevole, e piú dilettevole è la vista delle nostre donne di tutte le condizioni che vi si recano quale a diporto, e quale a raccorre le frutta con sporte e sportelle. E ciascuna visitando la sua fetta di vigna ha occasione di stendere le mani rapaci sulla vigna vicina; e tra per questo, e tra per l'amore che si ha naturalmente alle possessioni prossime all'abitato, ciò che in Calabria difficilmente si vende è appunto la vigna. Ma il frutto che se ne riceve è sempre scarso: si ruba l'agresto per farne insalata, si rubano le uve tosto che pigliano ad essere violate, ed oltre a non essere sicure dall'avidità dei vicini, ciascuno che può portare le armi si mette il moschetto in spalla, e sotto sembiante di condursi a caccia entra nelle vigne altrui, e ne pilucca le uve. Arroggi il guasto che vi fanno i cani, arroggi la rea consuetudine d'ogni vetturale e passeggero di scavalcarne agevolmente le chiudende, e vedrai che il loro frutto non risponde ai voti dei proprietarii.
In molti luoghi però è invalso l'uso di distinguere i terreni vignati in varie contrade, e deputarvi a custodia, finché non si vendemmii, parecchi guardiani, a cui ciascun padrone dà due lire. Ma i guardiani non sono sempre fedeli ed onesti: son dieci ladri pagati e messi nel luogo di cento, e che rubano quanto i cento; né possono pure impedire gli altrui furti, perché se gl'impediscono di giorno, non lo possono di notte. Vero è sí che sulle tre ore dopo il tramonto tirano un colpo di moschetto in aria per dire ai ladruncoli: «Noi vegliamo a veletta»; ma i ladruncoli la intendono altrimenti e rispondono — La è questa l'ora nostra; i guardiani vanno a dormire.
Dopo la vendemmia le vigne si abbandonano affatto: i poveri vi saltano dentro a raspollare; pastori, porcari, bovari vi immettono gli animali, e le viti si smozzicano, e gli arbuscelli si scalpicciano; poi viene inverno, e i poveri involano i tútori; poi sopraggiunge primavera, e gli animali nomadi, non ostante le grida dei padroni, rientrano nelle vigne ch'erbiscono; e cosí le piú belle appaiono a breve andare sciupate, spalate, scarmigliate. Questi mali non avvengono per le vigne che fan parte d'un podere, perché lí è un colono che le custodisce; ma questa sorte vigne è poca cosa tra noi: il piú sono, come dicemmo, isolate e a breve distanza dal paese. Egli è perciò che da non molti anni addietro le vigne si danno ai vignaiuoli. È il vignaiuolo un bracciante che non avendo bisogno per vivere di locare l'opera delle sue braccia mentre dura l'inverno, si prende dal proprietario la vigna a patto di coltivarla, e di avere metà del mosto. E la coltura procede cosí. Le viti si potano a marzo, antica consuetudine suggellata dalla canzone popolare che comincia: Chiangiunu l'uocchi mia chiu de li viti; Veni lu misi e marzu e li putati; e quest'opera viene sorvegliata dal padrone, perché il vignaiuolo non lasci piú di due occhi a ciascun capo. Parte della potagione è la stralciatura (sarmentari), e le donne chiamate a stralciare son pagate dal vignaiuolo, che divide col padrone le fascine dei sarmenti ad uso di fuoco. Immediatamente la vigna si zappa e questo lavoro procede con lentezza, perché si fa il piú volte dal solo vignaiuolo, ed interrottamente. A maggio si sarchia (s'ammaja) trattando leggermente con lo zappino il terreno per polirlo dall'erbe. Sull'ingresso di giugno si spollona (sbarbula, o spitigna), lasciandosi a ciascuna vite, secondo le sue forze, due o tre sarmenti; ed in luglio finalmente si lega. Quando il vignaiuolo è solerte, non solo con una stroppella di ginestra raccomanda le viti ai tútori, ma sopra una serie di piú pali ne mette uno a barbacane, e dà cosí alla vigna un aspetto grazioso. Appare divisa da cento viottole parallele per le quali si va senza l'impaccio dei pampani e dei tralci, che coi loro capreoli o cirri si attaccano ai pali verticali ed orizzontali; e quell'aspetto diviene piú grazioso, qualora il vignaiuolo abbia negli interstizii delle viti piantato zucche, cavoli, cocomeri, e frumentone, le cui pannocchie non si guardano a maturità, ma si spiccano mentre che sono in latte, e si mangiano arrostite o lessate.
È innegabile che la coltura delle vigne si sia vantaggiata per opera dei vignaiuoli. Il vignaiuolo avvitisce le poste vuote concando e propagginando la vite prossimana, o cacciandovi magliuoli, dei quali non si fa vivaio, ma che con la cruccia si piantano a dimora nei posticci, e non adoperando mai la propagazione a barbatelle, il cui metodo è da noi sconosciuto. Migliora le viti di mala stirpe innestandole tra due terre, e cacciando alle due estremità dello spacco due occhi, e ringiovanisce le vecchie saeppolandole, cioè tagliandole sopra il saeppolo o razzuolo, ch'è quel tralcio che vien su dal pedale della vite. Visita spesso la vigna; ladri e bestiami non vi entrano, i pali non si rubano, e le viti sempre piú di anno in anno spesseggiano; perché tra gli altri suoi patti col proprietario vi è quello di fare ciascuno a metà tante giornate di propagginatura in ogni anno. Ma è innegabile pure che dalle vigne date ai vignaiuoli non si ottengono i migliori vini. Quattro cose, dice il Calabrese, non si possono affidare a nessuno: la moglie, la vigna, la chitarra e la carabina. Il vignaiuolo guardando alla quantità, non alla qualità del mosto, sfiacca la vigna lasciando molti capi e molti occhi, e nell'opera della vendemmia trascura la pratica di quelle cose, che conducono alla bontà dei vini, come diremo in seguito.
La vendemmia poi non solo si fa malamente, ma meschinamente. Nella vigna senza vignaiuolo il padrone va quando vuole, e quanto di uva vuole tanto coglie; e il giorno della vendemmia è una vera festa. Tranne pochi paesi, in tutti per lo piú sono le donne che vengono invitate a far la vendemmia. S'invitano le vicine, e quelle che son trascurate se l'hanno a male; e poiché il padrone ha sempre un figlio giovanotto, questi procura di avere le ragazze piú belle e piú allegre; e tu le vedi sul rompere del mattino con un paniere infilato al braccio e con in capo sporte e sportelle avviarsi alla vigna. Siedono per terra sullo spianato che si allarga innanzi al palmento, e finché il sole che sorge asciuga le uve, fan colazione. Il padrone dà a ciascuna due pani ed un tocco o di formaggio,. o di lardone, o di pregiutto, o due acciughe salate; e mentr'esse mangiano allegramente ei fa raccogliere i fichi e le frutta, perché le vendemmiatrici non ci diano addosso. Poi si mettono all'opera; altre colgono le uve, altre le trasportano al palmento, e tutte dei grappoli che spiccano l'uno danno alla bocca, l'altro al paniere. Chi potrà dire le canzoni che cantano, i motti arguti che dicono, le spinte che danno e che ricevono?
L'allegria è cresciuta dall'altre vendemmiatrici delle vigne vicine, tra cui sorge disfida di canto, e dai giovani che vanno a quel tempo da vigna a vigna per scherzare e far gli occhi dolci, col pretesto di visitare i padroni, alle nostre popolane. A mezzo dí si sventra; siedono attorno un paiuolo dove il pane a fette è stato a lungo rimenato dentro una minestra di cavoli copiosamente oleata, e tutti insieme vi cacciano dentro le mani, e col tocco di carne fresca che ottengono par loro di essere a nozze. Il piú delle nostre vigne si vendemmiano in un giorno; e quando l'opera è terminata, la padrona dà a ciascuna quel che diè alla colazione del mattino, piú 25 centesimi, ed il paniere pieno di uva. E rientrano nel paese liete e festose come ne uscirono. Or tutte queste gioie non sono piú laddove è il vignaiuolo. Costui chiama le donne, costui le paga, e le segue con la coda dell'occhio perché non mangino un acino di uva; coglie le mangerecce e da serbo, e, ad opera finita, le divide col padrone; le donne non sventrano piú, le canzoni non trovano una gola, che le intuoni, e la vendemmia non è piú un diporto, ma un'opera malinconica.
Il prezzo elevato del mosto ha migliorato la condizione del vignaiuolo: quattro barili fanno una soma, e 88 libbre di mosto fanno un barile, ed una soma che prima della crittogama si vendeva per lire 12,75 ora si vende per 34 e quando il vignaiuolo prende a lavorare non una vigna ma piú vigne vicine, è già sicuro d'un bel guadagno.