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Vincenzo Padula
Persone in Calabria

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X. — I LINAIUOLI

Le classi delle persone, ch'abbiamo finora enumerate, s'incontrano in tutti i nostri paesi; ma quelle dei linaiuoli e dei concari, onde intendiamo far parola in questo e nell'articolo seguente, si trovano propriamente nei casali e nei villaggi della Sila. Tra noi il lino è di due fatte, e di due stagioni: il femminello, che si semina sull'ingresso di aprile, e si raccoglie a settembre, e il mascolino dal seme piú pingue e dal fusto piú grosso e piú alto, che di dicembre si consegna alla terra, e matura di maggio. Questo, il cui filo è meno pregiato ed entra nelle tele unicamente come trama, si coltiva scarsamente e solo nelle maremme, e nelle pianure valligiane; laddove dell'altro si fanno estesissime colture; e poiché esso ama terre lazze e polline, la sola Sila degnamente il riceve, la quale a questo modo si fa alla provincia sorgente inesausta di ricchezza. La Sila che in grandezza se la col Tavoliere di Puglia, ed in bellezza ed in amenità lo vantaggia, la Sila dalle sue pianure sfogate per ogni verso e che durano piú miglia, dove frequenti son le lame, frequentissime le ficcatoie, ha tale felice complessione di aere, e tale copia di polle e di ruscelli, che non è vero che altrove possano quanto colà provare meglio i lineti. Il reddito smodato, che ne hanno i proprietarii, senza le usurpazioni che ne fecero, e che durano tuttavia; e il non avere gl'innumerevoli abitanti dei casali altri luoghi che quelli per ottenerne segale, lino e fieno, fu ed è ancora cagione dell'odio e delle grida che si levano addosso gli usurpatori. Una tomolata, ossia 34 are di terreno si danno a fitto per altrettante lire; poi, spiccato che si è il lino a settembre, il linaiuolo le sementa a segala, e paga il terràtico tre tomoli, ossia un ettolitro e sessantasei litri; poi mietuta la segala, si aderbano spontanee a conto del proprietario. Ora la coltura del lino piglia sei mesi da aprile a settembre, quella della segala dieci da ottobre a luglio, e quella del fieno dodici da agosto al luglio seguente. Della segala poi i tre tomoli che si pagano per terràtico, costano nelle migliori annate L. 25,49; e non manco di mille manne (màttuli) di fieno, che fanno sul medesimo luogo 1. 63,73, cadono giú dalla bocca della falce sopra una tomolata di terreno. Cosí 34 are fruttano in ventotto mesi al proprietario ventinove docati, cioè 1. 123,21. E nondimeno i nostri contadini non si abbattono facilmente in tali, che le concedono a fitto; poiché affogato da una falange di miseri braccianti, che armati di zappa gridano e fanno spallucce, il proprietario dice loro: «Io non vi conosco: molti di voi son cattive dette, ed anche ad essere buone, a me non torna mendicare a spilluzzico e successivamente le prestazioni che mi si debbono. Ho cinquanta ettare di terreno: io le concedo a quel solo, della cui onestà non dubito; ei le compartirà agli altri, e voi pagherete a lui, ed egli a me». Questo grave contadino, che entra sotto agli obblighi altrui, e conscio della grandezza di sua impresa, la quale lo fa simile agli antichi duci, condottieri di colonie, si mena dietro un lungo seguito di braccianti, si chiama il Capozànzero.

Come le nevi si dissigillano, come le vette silane si sfagottano dalle nubi e dalle nebbie, e coronate di verzura sembrano sostenere il cielo fatto piú concavo, piú terso, e rinnovellato dal soffio di aprile, è mestiere cavalcare per l'agro silano, chi voglia vedersi innanzi rimesso lo spettacolo delle sacre primavere degl'itali antichi, quando ogni città era organata sul fare d'un apiario, e la nuova gioventú, chene sciamava, veniva sospinta alla ventura a ritrovare nuovi penati sopra terre rimote. Sono interi paesi che allora si sbarbano dalle valli e dagli sdruccioli delle nostre Alpi, e si trapiantano nelle vaste lande silane; sono uomini e donne, giovani, vecchi e fanciulli, asini, galline e porcelli che si accasano colà, e per sei mesi dell'anno si tolgono alla corruzione cittadina, alle leggi sociali, alle prediche del frate e del prete, all'autorità dei magistrati, alle paure delle guardie di pubblica sicurezza. Sospendendosi alla cintura la chiave di loro case rimaste raccomandate alla vecchia vicina, le donne portano in capo grandi cesti con dentro i polli ed i bambini; altri ragazzi piú adulti vengono a cavalluccio dei padri; gli asini someggiano casse, mantelli, coltri, ed i rustici arnesi; si rivedono con gioia gli antichi luoghi nelle medesime condizioni, in cui furono lasciati; i pagliai disfatti dall'inverno ma ritti ancora a metà; le pietre affumicate che scusarono il treppiede; le pozze a piè dei pini dove si veniva per acqua. Fanciulle e giovanetti, che nell'aprile precedente ingannando il vigile occhio dei vecchi, si giurarono amore sotto il ciglione dei capifossi, presso alla sorgente dove s'incontrarono a bere, e dietro l'ombra dei manelli si diedero il primo bacio, mentre si piegavano a nettare il terreno, sotto il cilestro tappeto che il lino spiegava loro sul capo, ora vi ritornano col nome di sposi, e si guatano e sottoridono alla vista dei luoghi segretarii dei loro amori. Empie l'ore dei primi giorni la cura di rifare i pagliai, frascati e capanne; e le si rizzano a gruppi secondo le famiglie ed i paesi, e l'uno visita l'altro, e l'amicizie ivi nate e poi dal verno interrotte si riannodano. Ed ogni gruppo ha il suo capozànzero, il quale sbracciato, spettorizzato, e con un vecchio cappello tirato bravamente sul viso, assegna i terreni, risolve i contrasti, concilia gli opposti desiderii. E poiché ogni paese in Calabria ha motti, scede e tradizioni ingiuriose al paese vicino, esse rivivono ancora nella Sila, e gli abitanti dei vari gruppi si danno la baia tra loro, e tu senti canzoni piacevoli, e proverbii mordaci (ditterii), che, mentre si lavora, partono da un colle e trovano nel colle dirimpetto altri proverbi ed altre canzoni, che le affrontano e le rimbeccano a mezzo della via. Cosí la vita primitiva, nomade e selvaggia coi vizi, le virtú, le gioie ed i dolori suoi si rinnovella per sei mesi in Calabria, e noi ricordiamo sospirando i bei tempi di nostra giovinezza, che ne fummo testimonii.

Facile e piacevole è la coltura dei lineti. Il terreno non si rompe con l'aratro, ma con la zappa, ed una sola volta. Attesa la copia dell'acque rompenti da ogni clivo, e che discorrono qui, fanno zane colà, e covano per tutto, il terreno è coverto di lotte (ciffe) infletrite, ammozzate; e il linaiuolo menando la zappa al largo le arrovescia, e dirompe. Dopo sulle lotte arrovesciate, e le piote (tif uni), che tra quelle inegualmente si sollevano, si sparge il linséme, ed ogni tomolata ne riceve quattro tomoli. Poi si occa; ma per occare il terreno scoticato, ragguagliarlo e spolverarlo non si adopra l'érpice, che ci è ignoto, bene lo strascino, che si fa da noi con un fascio di roghi, di ranno e di prun boccio. Il lino è sitibondo di acqua, ed i linaiuoli lo abbeverano copiosamente. Dal caleno alla metà di agosto si opera alla spiccatura (scippa): spiccato, si soleggia, poi si disfoglia, poi si lega a mane, poi si accovona; e quando, a percuoterne le testate, se n'è tratto giú il seme, si mette nel maceratoio (vúruga). Dopo otto giorni il linaiuolo lo visita, ne prende un fusto, gli una storta, lo stiglia, e quando si avvede ch'è cotto, lo toglie all'acqua e lo al sole. Rasciutto che si è per bene, viene sopra una pietra ammaccato con un picchiotto (mazzarella) per levarne le lische. Di questi lavori, tutti prendono parte, uomini e donne, giovani e vecchi; e tu vedi un tumulto gaio, un muoversi cosí bello di teste e di braccia, di cappelli e di veli, un lampeggiare di sguardi ora teneri, ora procaci, ora beffardi e odi scoppii di risa cosí schiette, e canzoni quali ciniche, quali anacreontiche, e quali elegiache, che il tuo cuore ne prova invidia, e ti cade in mente la certezza che in fondo alla miseria del nostro popolo Dio abbia nascosto alcune gioie, grandi, vere, durevoli, che non aleggiano mai sotto le dorate travi dei ricchi.

Con questo spettacolo innanzi agli occhi noi volemmo un giorno visitare le capanne dei linaiuoli. Erano tutti al lavoro, e le capanne erano diserte. Non vi trovammo chiudende, ed entrammo. Una cuccia di paglia; una sacchetta piena di pane cosí stantio da parere acciaio; una resta di cipolle; una cassa con dentro poche vecchie camicie, un agoraio, ed un gomitolo di accia; una padella sospesa ad un chiodo che teneva confitta alla parete una figura di S. Ippolito. Fuori, un asino scavezzato pasceva a suo bell'agio; il suo basto era a terra: sul basto stava cavalcioni un fanciullo, sotto al basto ve n'era un altro nascosto, che facendo capolino ad un tratto gli dava, quando gli venisse fatto, un pizzicotto. L'aria dei fanciulli era come quella dei selvaggi; non ebbero paura, né si mossero. Mi stavano di fronte le grandi lande della Sila, colli sovrapposti a colli, e nei loro intervalli i bianchi casini dei Signori; a sinistra, a grande lontananza, i linaiuoli, e le loro case di castori; a destra altra turba di gente, quale inteso a falciare il fieno, quale a farne maragnuole, e quale a venderlo ai mulattieri. Dappertutto poi vacche vaganti sotto l'occhio geloso e protettore del negro toro, immobile ed in disparte sotto una fratta di aceri, e pecore e cavalli, e muggire degli uni, e nitrire degli altri, e grida di vaccari, di giumentieri, di mietitori, di linaiuoli; e tra tanto baccano ed immensità di cielo e di terra io fermava lo sguardo malinconico sui due fanciulli, l'uno sopra, l'altro sotto del basto, senza paure, senza speranze, senza pensieri!

Col finire di settembre tutto questo tumulto finisce. I linaiuoli con le famiglie si ritirano nei loro paesi nativi; e, come entrano in paese, maciullano, e scapecchiano il lino, ne fanno pesi o faldelle, e si mettono in giro per tutti i paesi della provincia. Ogni peso o faldella (pisa) è di dieci libbre, e fa da cinque a sette lire e 54 centesimi. Un tómolo ossia 55 litri di linséme (linosa) fa nove lire e 33 centesimi, e seminato gitta venti faldelle di lino, ed un ettolitro, e 55 litri di seme. In appresso vedremo quale forza abbia sui nostri costumi questo modo di vivere dei linaiuoli.

20 agosto 1864.




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