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Vincenzo Padula
Persone in Calabria

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XI. — I CONCARI

La regolizia dal fusto liscio e dai fiori giallognoli viene spontanea in molti luoghi, finanche tra le macíe del castello di Cosenza; prova in ogni sorta terreni, piú nei bianchi, meno nei renischi e troppo asciutti; ed i frigidi ed i pollini, che ne sono i migliori recipienti, danno ventuno chilogramma di panellini per ogni ottantanove di radice. Il proprietario di terre acquitrinose vi pianta la radice a glabe d'una spanna, e due palmi profonda, le lascia vacare il primo anno, le pone a seme nei seguenti, guardandosi però dall'adoperare la zappa, ed al terzo anno ne cava la radice. E sui terreni che già si trovano divelti torna a sementare senza veruna spesa, sicché non vi ha caso che statino, né i cereali gli fruttano mai, che non gli frutti ancora ogni tre anni la regolizia. Fatta una volta che se ne abbia la piantagione non è mestieri che si rinnovelli, perché la vaga dell'umido sempre piú s'addentra sotterra, né viene mai meno, solo che si adopri, come dicemmo, l'aratro, e non la zappa, che facilmente la sfittona. Trentaquattro are gittano nelle buone annate intorno a 18 quintali di radice, e poiché 89 chilogrammi di essa fanno un prezzo oscillante tra le dieci e le quindici lire, è chiaro che, senza negligere l'altre colture, il proprietario può sicuramente guadagnare in ogni terzo anno da 18 a 270 lire sopra 34 are di terreno. Nondimeno la coltura della regolizia è trascurata, e pochi tra i nostri piú grandi proprietari se ne pigliano pensiero, e di ciò è causa il poco o nessun consumo che si fa tra noi dei panellini di liquerizia. Un panellino si via per due soldi dai merciaiuoli e dai venditori ambulanti e lo comprano i ragazzi per ghiottoneria, gl'infermi per espettorante, e sedici di essi fanno un rotolo nostro, cioè trentatré once. In digrosso si vendono allo straniero, e dieci anni sopra i nostri tempi 89 chilogrammi di bastoncelli facevano 110 lire; ma ora il prezzo n'è cresciuto a 127 e a 135.

Diciamo conci alle fabbriche della liquerizia, e concàri agli opranti, che assistono ai càccavi, dove si mette a bollire la radice. I conci sono pochi, e s'incontrano tutti nelle pianure valligiane e nelle maremme in aperta campagna e lontani dall'abitato. Dicesi zerna l'insieme di cinque quintali e trentaquattro chilogrammi di radice; e per ogni zerna bisogna un caccavo, e per ogni caccavo due concari. Il piú dei nostri conci sono di otto zerne ciascuno; vi si lavora e notte, vi s'adopra molta gente, e l'inumano governo che se ne fa persuade a chi visita un concio di trovarsi tra gli schiavi negri delle Antille. In ogni concio è un fattore, sedici concari, un capoconcaro, un trinciatore, sei molinari, un falegname, due acquaiuoli, un pesatore di legna, un fanciullo marchiatore, e sedici impastatrici. Accrescete a costoro i mulattieri che someggiano legna, i contadini che scavano la radice, e già un concio vi darà l'aspetto d'un piccolo paese, dove per sei mesi dell'anno, da decembre, a tutto maggio, traggono uomini e donne di tutti i nostri villaggi. Il capoconcaro tira 50 lire e 90 centesimi al mese; 59 e 48 il falegname; 29 e 74 ciascuno dei concari e dei molinari e 33 e 99 il pesatore e il trinciatore. Degli acquaiuoli poi l'uno tira 34 lire, l'altro 27 e 61 centesimo. Hanno oltracciò ciascuno quattro chilogrammi di olio al mese per lume e condimento, ed una mancia di sei chilogrammi di carne porcina al Carnevale. Altre mance (jussi) toccavano negli anni addietro; si rendeva solenne l'apertura del concio e il principio dei lavori con due barili di vino; a Natale ciascuno uomo toccava mezzo chilogramma di olio ed altrettanto di farina per far frittelle; a Capodanno una ricotta; a Carnevale una libbra di formaggio, e due maccheroni, e a Pasqua un chilogramma di carne di agnello; ma ora l'avarizia dei grandi signori è cresciuta, e tutte queste mance si sono tolte, tranne quella, che dicemmo, di Carnevale. Le impastatrici, e quelle che vengono chiamate sull'entrare di marzo a riasciacquare nell'acqua fresca e corrente i panellini di liquerizia già rasciutti sono in peggiore condizione. — Elleno col fanciullo marchiatore non tirano piú di 34 centesimi al giorno e non toccano nessuna mancia. Di queste donne alcune vengono nei conci coi mariti, altre coi padri, altre sono avventuriere.

Viaggiando una volta per le maremme fummo colti dal mal tempo. La pioggia ci aveva tutti fradicii, poi, come spiovve, una neve soffice e bioccoluta prese a caderci addosso, e pensammo di far notte in un concio, che ci appariva in distanza. Ci accozzammo per via con mulattieri, venuti colà da vari paesi per trovar lavoro per sei mesi all'anno. «Come vendete la legnachiedemmo loro. «Cento trentacinque chilogrammi ci si pagano una lira, e 70, e dobbiamo a nostro rischio tagliarle nei boschi comunali; e nondimeno il fattore che ce le pesa, le segna sempre nel suo libro al meno, e per poco che fiati in contrario ti del sagoma sul capo». Traversammo un campo esteso dove da venti braccianti cavavano la regolizia, e domandammo: «Quanto vi si paga la vostra giornata?». «Noi lavoriamo, — risposero, — non a giornata, ma a compito, e ci si una lira e 70 centesimi per ogni cento trentacinque chilogrammi di radice; e nondimeno il fattore che ce li pesa segna al meno nel suo libro, e per poco che fiati ti del sagoma sul capo».

Vedemmo fuori del concio vagare asini, gatti e galline, e chiedemmo: «Di chi sono quelle bestie?». Sono dei concari e delle loro donne, che emigrando dai paesi nativi, e lasciando chiuse a chiave le loro casette, portarono seco i gatti, i polli e quegli asini, che vacano. «E perché non i porcelli?». Perché i porcelli son banditi dai conci, atteso che il fattore pretenda per sé e gratuitamente tutta la crusca, che rimane ai concari ed alle loro donne dopo fatto il pane; e nell'anno passato, egli guadagnò in tal modo sessantasei ettolitri di crusca. «Ma questo è un furto». «Furto e peggio; ma che fare? Per poco che fiati ti tocca rasciugare una tempesta di legnate».

Sullo spianato che si allarga fuori dalla manifattura un vecchio con le carni accapponate dal freddo, e ritto d'innanzi ad un ceppo tagliuzzava la radice. Quell'uomo condannato a starsi le intere giornate allo scoverto ci mosse a pietà, ed entrammo nel concio. Vi era un silenzio di tomba interrotto solo dal rumore di un orologio a suono ed a sveglia confitto nel muro, e da quello dei lavori. Vi aveano otto conche; attorno a ciascuna due concari scalzi e con la camicia rimboccata sopra le gómita, ed armati di menatoi calzati da una gorbia di ferro, che finiva a penna (fravosce) rimestavano la radice che bolliva. Altrove la radice era cotta, e levandosi con una forca a quattro rebbii piegati si versava nei mastelli. I molinari, che meglio andrebbero detti trappetari, toglievano i mastelli e li vuotavano nelle gabbie. Queste si incastellavano sullo strettoio, e si premevano. Il sugo che ne grondava, si rimetteva in altre conche per condensarsi a lento fuoco. Il fattore, a cui è commesso il capo e l'indirizzo del concio, portava nel viso l'aguzzino: andava giú e su armato di un legno duro e broccoloso, ed aveva autorità di fare alto e basso su quei miseri. Alzò quel legno sopra un concaro, colpevole non sappiamo di che; il concaro non fe' motto, non si mosse: sorrise mostrando due filze di denti bianchi ed acuti come quelli della tigre. Il fattore abbassò il bastone, e buttò nel fuoco una lira, che si liquefece. Noi eravamo a sedere al focolare in mezzo ad altri concari che si riposavano, ingannando un po' di sonno, col capo ravvolto nel mantello per non essere offesi dal fumo, e stesi lunghi lunghi coi piedi nudi al fuoco; modo di dormire prediletto dai nostri villani calabresi, che dicono: Si vive cento anni a dormire col capo sulla neve e coi piedi alla fiamma.

Un solo era seduto al nostro fianco, che al vedere quella lira liquefarsi prese a fare il tentennino con le ginocchia. «Amico! — gli dicemmo, — che vuol dire quella lira,».Vuol dire che qui siamo trattati peggio che cani; vuol dire che qui un legno di piú che si metta nella fornace, un'oncia di brodo che vada giú a terra nel riversarlo nei mastelli, un minuto di tempo che un povero cristiano si alleni, si pagano con legnate e con multe. Il fattore gitta una e due lire nel fuoco, e nel suo registro le accende in debito al colpevole». «La è una infamia; ma poi siete pagati bene: sette docati al mese e cinque rotoli di olio, potete dirvi contenti». «Bah! A conto di quei sette docati il padrone ci grano e fave; e il grano è vigliatura pretta, è spazzatura di aia. Poi, i molini sono del padrone: il fattore ci scrive un biglietto al mugnaio; questi ci fa la macinata, e sopra 50 rotoli di farina ce ne froda sei. L'olio ci si a spilluzzico: ci tocca il primo del mese, e lo riceviamo dopo 15 giorni. Un rotolo è 33 once; egli ce ne pesa 24, e lo riscalda prima di misurarlo, perché abbia molto volume, e poco peso. A lui poi tocca un mezzo maiale; egli lo vuole intero, e per averlo intero froda noi, a qual piú, a qual meno, quel po' di carne che ci spetta al Carnevale. Galline poi non ce ne lascia una viva; la crusca se la piglia; insomma mena l'organo». «Che vuol dire che mena l'organo?». «Vuol dire che ruba; e cosí ci rompiamo le reni da mane a sera per vivere; e qual vivere! Fave e pane, pane e fave; e se ci bisogna tabacco, o sale, o sapone, o altro, diamo al mulattiere che va in paese il nostro pane, ed ei lo lascia al tabacchino ed al pizzicagnolo in cambio. Ah! un concio è un inferno! il lavoro è continuo; ci diamo la muta, è vero, ma nessuno può mai dormire il suo bisogno quell'orologio a dondolo ci governa, e il capo ci va su e giú come quella sua lente». «Mio buono amico, queste condizioni son dure; ma perché voi le pigliate?». «Perché voi le pigliate? E d'inverno che volete che facessimo di meglio noi miserabili braccianti? A non finire di fame e di freddo corriamo qui, e soffriamo corna e peggio, per non essere mandati via; perché noi siamo assai fratelli». «Hai dunque altri fratelli?». Il concaro rise come può ridere un lupo e rispose: «Fratello in lingua nostra significa povero; e dove son molti poveri, il proprietario paga gli opranti a suo senno, e se altri se ne va dal concio, non mancano i mille che preghino di entrare in suo luogo».

24 agosto 1864.




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