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Vincenzo Padula Persone in Calabria IntraText CT - Lettura del testo |
Venimmo in desiderio di vedere le impastatrici, ed entrammo in altra stanza a terreno. Le donne erano venti, tutte in fila con avanti un tavolello di noce, e ciascuna con un utello alla sua destra. Il capoconcaro scodellò nel mezzo del tagliere un pastone tuttavia bollente; le meschinelle si versarono sulle mani un filo di olio dall'utello, e con l'estreme dita spiccàrono della pasta scottante, facendo siffatti versi col volto che ci mossero il riso. Nessuna canzona, nessun motto arguto allegrava il lavoro; il fattore andava sossopra per ogni nonnulla, e punto che l'opera gli paresse abborracciata, e punto che una donna si disistancasse, egli era sempre lí a frugarle le spalle col suo maledetto legno. Quando la pasta fu mediocremente ammazzerata, le donne raddoppiarono il maneggio: i lombi, i polsi travagliarono con piú lentezza, ma con forza maggiore; il dorso delle mani si fe' turgido e livido, il sudore gocciò dalla fronte. Per ridurre allora la pasta piúobbediente ed arrendevole vi sputarono sopra, si sputarono sulle mani, il che facendoci stomaco bastò a toglierci da quel luogo. Traversammo un'altra stanza dove il falegname incassava i bastoncelli, incartocciandoli in frondi di lauro, e montando per una scaletta fummo nelle stanze a torre, dove, scèvere dagli uomini, sogliono dormire le donne. Vi trovammo inferma sopra un povero saccone una giovinetta da Longobucco. «Oh! le chiedemmo, siete dunque ammalata, buona donna?». «Ma nei conci si può star bene? — ci rispose. — Voi avete visto le mie compagne laggiú, e con quel lavoro lí non ci restano lombi, non ci restano polsi, si raccattano caldane, febbri, sbalordimenti di testa. Guardate». E levando da sotto la coltre le mani ce le mostrò piene di setole (serchie), con la pelle rotta, magagnata, ricoverta di croste.
E sfogliandosi quelle croste con 1'ugne, continuò: «Bisogna che la liquerizia si assodi a furia di sputarvi sopra, e di maneggiarla; bisogna che, come un pane biscottato, vada, cadendo a terra, in mille frantumi; e per condurla a tali termini si richieggono polsi di acciaio. Poi non vi è verso da far contento il fattore; quando i panellini non gli sembrano sodi a bastanza; gli disfà, e rimette nel caccavo, e liquefatti e bollenti vuole che si rimpastino. A non scottarci le mani le ungiamo di olio; e ne avessimo almeno a sufficienza! Spesso dobbiamo comprarlo di nostro. La mattina ci si accorda un po' di tregua, e ci mettiamo al lavoro con due ore di sole alzato; e spendiamo quel po' di tempo ora a fare il pane, ora a lavare, ed imbucatare i panni agli uomini nostri». «E se un concaro non ha moglie, chi gli fa il bucato?». «Una di noi, e, per tutti i sei mesi che dimoriamo qui, le dà 85 centesimi. Poi l'orologio ci chiama al tavolello, e tranne cinque minuti che ci accordano a mezzodí per mangiare, non ci togliamo dal tagliere prima che il pastone scodellato dal capoconcaro non sia ridotto a bastoncelli, E cosí lavoriamo a notte adulta, e spesso con la febbre addosso; perché il fattore è un cane, che non ci conta la giornata quando siamo malatelle». Questa parola le scappò con tanta grazia di bocca che noi la scriviamo quale l'udimmo. «Veggo qui, — le chiedemmo, — panieri, e ceste; ma non già il tamburello, ch'è l'arnese indispensabile di voi altre giovanette; e tu, che credo maritata, potresti con quello far bordone alla chitarra di tuo marito». «Qui non si soffrono, signore, né chitarre, né tamburelli: il concio è un lutto. Ed alle povere donne è vietato finanche il riso, perché tra noi non manca alcuna, a cui il fattore dà di brúscolo, ed ella, superba di essersi messa nella grazia di lui, ci fa la fattoressa addosso, né si può dirle: — Fatti in là —. Io poi son maritata, ma come nol fossi; qui le mogli si dividono barbaramente dai mariti, e questi per vederle alla macchia pagano una multa. Sí, mio buon signore. Quando il sole è caduto, la manifattura si chiude; e chi si trova fuori resta fuori sia che piova, sia che nevichi. E quando alla dimani rientra nella fabbrica, paga 85 centesimi di multa. Or mie marito per vedermi, finge, quando il sole è presso al tramonto, di fare un po' di corpo, ed esce. La fabbrica si chiude, ei vi rientra alla dimani, e paga la multa. E cosí il nostro meschino guadagno di sei mesi se ne va tra multe, spese di medicine, e di elemosine». «Oh! ma voi cosí povere come potete fare l'elemosina?». La malatella sorrise, e rispose: «La limosina non si fa da noi, ma dal padrone, e si paga da noi: e nell'anno passato vi ebbe un tremuoto, e il padrone ci fe' sapere che avendo dovuto soccorrere ai danneggiati del tremuoto, intendeva ritenersi tre lire dall'avere di ogni concaro e d'ogni impastatrice». A queste parole lasciammo pieni d'indignazione la malatella, e tornammo al focolare. «Cantate qualche cosa, -— dicemmo ai concari, — e vi daremo il vino». «Nel carcere si canta, ma non nel concio», ne risposero. Ci sedemmo al fuoco, ma i nostri occhi erano su quei poverelli. Dopo un tratto vollero contentarci, e maneggiando mestamente le fravosce intuonarono in quilio la seguente canzone:
Povara vita mia, chi campi a fari
Mo chi si chiusa dintra a quattru mura?
De mani e piedi mi fici ligari
A na nívura (nera) fossa funna (fonda) e scura,
Sula a speranza nun mi fa schiattare,
E tu, rilogiu, chi mi cunti l'uri:
Tannu mi criju (allora credo) de mi liberari
Quannu mi dici: Su' vintiquattr'uri.
Un'infinita malinconia governava quel canto. Il concaro si dipingeva legato nelle mani e nei piedi, in fondo ad un abisso tenebroso, con gli occhi rivolti non al Cielo, non a Dio, ma all'orologio che gli conta il tempo. Ci segnammo nella memoria la canzone, e volgemmo l'occhio alle persone che ci stavano attorno. Il numero n'era cresciuto. Braccianti, mulattieri, pastori, e viandanti di tutti i paesi erano convenuti colà a passarvi la notte. Non mai vedemmo cere piú sinistre, non mai udimmo piú scellerati discorsi. Nelle loro conversazioni si metteano in ballo i disegni piú sanguinosi: si raccontavano imprese di briganti, audacie di carcerati; si narravano i vizii, e le abitudini dei nostri piú ricchi signori, e discutevansi le insidie tese a loro dai briganti per sequestrarli. A noi tardava un secolo di potere uscire da quel conciliabolo di gente famelica, che affrettava coi voti il ritorno della bella stagione per pigliare il mestiero del brigante, o del manutengolo; e quando fu giorno ci rimettemmo in viaggio. Fuori della manifattura alcune donne sfornavano il pane, ed una di quelle allungandosi piú che potesse sulla punta dei piedi stendeva la mano ad un finestrino cancellato della fabbrica. «Che fate, buona donna?». «Non posso entrare per l'uscio, e porgo per di qui al mio povero marito un mezzo pane caldo condito con un poco di olio». E noi spronando il cavallo dicemmo nel nostro cuore: «Proseguite pure, miei bei signori Calabresi, a far cosí inumano governo della povera gente; e poi gridate, ché ne avete ben d'onde, che vi siano briganti i quali vi sequestrino».