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Vincenzo Padula
Persone in Calabria

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XIII. — PASSATORI E PESCATORI

L'Appennino che piú si accosta al Tirreno, e meno al Jonio, fa che le due nostre maremme abbiano indole e faccia differente. In quella a levante tu trovi vaste, e fertili pianure, ed i fiumi vi sono numerosi e ricchi, stante che avendo maggiore corso accolgano per via il tributo di molte acque, e siano in sabbia il piú. Il Tirreno al contrario riceve fiumi piú macri, e tutti quasi in ghiaia, laddove quelli dei paesi pianigiani muovono sopra un fondo limaccioso. Pochi sono i vivi, gli altri muoiono in està; e chi cammina di luglio la valle di nostra provincia, piú che dall'afa e dalla polvere, è contristato dall'aspetto di ampie morte, ingombre di sterile arena, di massi immani, e di alberi intraversati, le cui ceppaie scalzate dall'acqua mostrano l'aride barbe, e le annerite radici. Salvo pochi, ed in pochi punti, tutti i nostri fiumi non sono cavalcati da ponti, il qual difetto se non noia di està, quando le acque sono macre, ed agevolmente si guazzano saltando dall'una all'altra delle pietre, che ne interrompono l'alveo, riesce non che molesto, pericoloso d'inverno. Come i tempi si corrompono a pioggia, come principiano le dirotte d'Ognissanti, le nevate di dicembre e gennaio, e il loro sdiacciamento, i fiumi temporanei s'ingrossano, mille altri se ne formano, ed i rivi, che ne ricevono le torbide, esondano, scialano oltre i loro vivagni, e non solo per piú mesi dell'anno tolgono il commercio tra i paesi, ma recano danni incalcolabili. Poiché, tranne i pochi punti dove le piagge sono a spalla, i nostri fiumi non scorrono incassati; ignorano gli argini, ignorano i condotti, ignorano l'inalveazione; sicché slagano facilmente, formando ad ogni piena nuove lunate, per le quali i terreni superiori smottano, le strade in costa si avvallano e franano, e vasti poderi si tolgono a Cerere, a Bacco, al moro sapiente, e si concedono al greto. Ed i nostri greti (praje) pigliano moltissime miglia, crescendo via via ad ogni anno; e se quel loro terreno imposticcio, fertile per sostanze animali e vegetabili si ritornasse a coltura, le ricchezze di nostra provincia se ne vantaggerebbero d'un terzo. Ma vizio di noi calabresi è il vivere, che ognuno fa, pensoso unicamente di se stesso, ed i proprietari di terre rivali, invece di accordarsi e, conducendo a spese comuni quei lavori che l'idrauliche scienze han da guari tempo proposto, ritogliere ai fiumi i fondi rapiti, si contentano agli scarsi e temporanei provvedimenti di viminate e di palafitte: il che, oltre al farsi seme di liti anniversarie tra chi possiede sopra e chi possiede sotto, non ripara gran fatto alla rovina dei fiumi, i quali, quando sono in piena, abbattono con la loro fiumara quei deboli ritegni di ghiaia e di stipa, creando danni maggiori. In alcuni luoghi si è pensato ad imboschire le rive con olmi, ontani, frangole e gàttici; e quindi veramente è venuta grande bellezza ai fiumi, e chi viaggia di està per la nostra valle sentesi chiamato a far sosta sotto quell'umide ombre, e godere di smarrirsi per poco nei loro laberinti, beato se non intoppi in qualche brigante accovacciato sottesso i cespugli.

Quando, dopo esultato oltre le rive, i fiumi rientrano nel letto, lasciano per lungo tratto d'intorno motacci e loie, dove uomini e bestie impantanano: al qual pericolo accostando quello che si porta nel loro passaggio, ognuno vede quanti ostacoli abbia d'inverno il commercio tra noi. Vadosi, dicemmo, sono tutti: ma in quelli in ghiaia i ratti son frequenti, e quando in tempo di piena le torbide ora bionde, ora sanguigne devolvono, come cranii bianchi, enormi sassi, e ciottoli che fischiano e vanno quali saette, il passaggiero si ferma ad udire quel sublime fracasso, né si assicura a tentare l'acque minacciose. In quelli poi in sabbia ed in fango, gli scanni di arena, ed i gorghi sotto l'onda che su vi scorre ora scarsa, ora ricca, ma sempre quieta, taciturna ed insidiosa nascondono pericoli maggiori. Si ricorre in questi casi a bufali e buoi, che si aggiogano ad un carro; ma il non trovarsi sempre a mano e per tutto cosiffatti espedienti ha fatto che si formasse appo noi una classe di uomini, a cui diciamo Passatori. E' poco numerosa, molto misera, ed accoglie le persone oziose, le quali o avverse o inette ai lavori dei campi si piacciono a vivere con la pipa in bocca, inerti e meditabondi sulle rive dell'acque, e facendosi pagliai presso al vado, o nei boccelli, o isolette che, quando i fiumi si diramano, restano chiuse tra le loro corna. I passaggieri ed i vetturali che sul cammino che intendono tenere sanno di non trovare il vado, sono costretti a torcere via, con molta perdita di ore, e muovere sponda sponda finché il trovino. Si un fischio, e dalla bassa portella dei pagliai escono ignudi nati e curvando il capo i nostri selvaggi passatori. Quella cinica nudità è spesso schifosa, scandalosa sempre; e noi sappiamo d'un giudice che avendo a condurre oltre il nostro Crati la moglie, della quale vivea soverchiamente geloso, attese a farlo che fosse luglio. I piú arditi, quando discreta sia l'altezza dell'acque, le guadano a cavallo, a meno che le loro bestie non siano o novizie o agostàriche; e diconsi agostàraci da noi quei cavalli che si fanno nati di agosto perché hanno il vezzo di voltolarsi nelle acque, come dentro un renacchio. Ma quando il fiume è grosso, i passatori tragittano prima le bestie guidandole a mano, e poi dando volta si tolgono a cavalluccio il passaggiero, e se costui sia o troppo pesante, o troppo timido, due di loro s'intrecciano le braccia al collo, vi prendono in mezzo a sedere il loro uomo, e questi tenendosi con le mani alle loro gavigne chiude gli occhi, e quando meno se '1 pensa si trova all'altra riva. Le nostre montanine, ardite e vispe che sono, parte per quel pudore che mancò a Deianira, parte per non potere pagare il nolo, sdegnano di credersi al collo di quegl'ignudi Nessi, e dieci e venti di quelle prendendosi per mano si rimboccano la gonna alla vita, e lasciando andare giú la sola camicia, si ficcano nella corrente, guazzandovi non altrimente che schiera di bianche papare, e cantando e motteggiando toccano l'altra ripa. Il porto ordinariamente è venticinque centesimi ma quando chi passa sia galantuomo, e il fiume sia alto, non bastano le cinque e le otto lire; e per averne piú i passatori ingrandiscono le difficoltà, tentennando lungamente; ed ora l'uno entra nell'acqua e finge al terzo passo di affondarvi, ed ora l'altro guazza dove daddovero le acque sono profonde. Ma in tempi rotti il pericolo è reale, ed essendo il fiume in piena, non vi è verso che valga a persuaderli perché il tragittino: ti bisogna fare in due il viaggio d'un giorno, ti bisogna pernottare nelle capanne o casine, che s'incontrano nei pressi, e solo al dimani quando l'orizzonte sia spazzato, e il tempo scarico, i passatori si risolvono a tragittarli, non senza aver prima tentato il fiume, esplorato i mulinelli, e piantato una serie di biffe, che mostrino i punti dove il guado è sicuro.

La vita dei passatori è meschinissima quando l'inverno va asciutto, e il bisogno che hanno di rendere lunga e necessaria l'opera loro ha cagionato, e segue a cagionare continui guasti ai poderi rivali. Poiché quando il fiume sia soverchiamente grosso, lo diramano; e quando si spanda da sé in piccole corna, eglino le accecano per inalveare tutte le acque in un solo punto: cosí sul greto restano affossamenti e canali, dove alla piú lieve spruzzaglia i fiumi crescono ed irrompono. Venuta està, pochi di loro pigliano i lavori campestri: il piú restano ad oziare lungo i poveri fiumi, e campano la vita con diventare pescatori. Pescano anguille e trote, granchi e ranocchi, cefali e reali. A due e tre miglia dal mare, quando i pesci salgono nell'acque dolci, si adoprano in molti luoghi il cannaio e le gabbie; l'uso delle rezze è assai poco, comune quello delle lenze. La trota, che, come dicono in Calabria, deve, perché abbia buon sapore, mangiarsi con tre effe, cioè fresca, fritta e franca, è oltremodo ricercata. Si pesca di giorno con la lenza, e con la fiocina, onde i pescatori le danno sopra come la veggano a guizzare: di sera poi armano; e dicesi che armino quando adoprano il filaccione, uno dei due capi si raccomanda al terreno, e l'altro lungo a modo di lenza con amo aescato da un lombrico o da un lumacone si lascia tutta notte a nuotare nell'acqua.

Dopo armato, i pescatori vanno a dormire, pascendosi della speranza di trovare buona presa al mattino; ma nelle serene nottolate non dormono, ma col frugnuolo in una mano, e la pettinella nell'altra siedono sulla sponda, dando sopra alla trota che stupida coi suoi grandi occhi si ferma a contemplare il lume, che l'abbaglia. Ai mesi estivi, massime nei luoghi alpini, il cielo sereno si volta tutto ad un tratto a nembo (trupia). I nembi sono spesso di gragnuola secca, piú spesso di acqua dirotta; pigliano poco paese, vengono per lo piú al pomeriggio, e tengono, un'ora, o meno. Ma il danno che cagionano ai colti, ed alle vigne è grande; e mentre ne gemono i proprietarii, la povera gente ed i pescatori ne godono. L'una corre ai fiumi a raccogliere le legna fluitate, e gli altri a pescare, poiché come il nembo giú, il fiume non tarda a coricarsi nel suo letto, ma l'acque dilagate non trovando sfogo rimpozzano, ed appunto in quelle pozze si pescano a mano, e senza aiuto di lenze, anguille, trote, e ranocchi. Le pescate ottenute in questi modi son sempre meschine, e quando si vuole una pescata davvero buona, le acque s'intassano. E il nostro intassare suona avvelenare, e le acque avvelenano a versarvi dentro grandi sacca di calce vergine. Le onde allora si intorbidano, fumano, bollono; le trote s'inebriano, si dibattono, vengono a galla imbalordite, e mentre mostrano il ventre bianco, ed i fianchi stellati, i pescatori che vanno giú e su per le rive con pertiche armate in punta da panieri, abbassano le pertiche, e le cappano. Ranocchi e reali si vendono a reste, tre soldi l'una; son cibo prezioso per i convalescenti, massime le reali pel loro sangue amarognolo. Le anguille e le trote non si portano a mercato, che raramente; perché per lo piú si pescano per commissione. Le bizoche, i clienti, i debitori, ne fanno inchiesta per stimare il confessore, il medico, l'avvocato, il galantuomo; ed è notabile che stimare in Calabria è sinonimo di regalare, perché presso noi si crede che la stima in che altri si tiene non gli si possa addimostrare altrimenti che con donativi. Ma quando si vendono, le trote e le anguille fanno una lira ed 84 centesimi il chilogramma.

Finalmente altro capo di guadagno pei nostri pescatori è la pesca delle mignatte: ne sono pieni gl'ischieti del Crati, ma dacché Napoli prese a mandarci le sue a mitissimi prezzi, quest'industria è mancata tra noi, benché le nostre mignatte, risentendosi del genio calabrese, fossero piú grosse, piú fiere, piú ardite, si attaccassero presto, e tardi si spiccassero.

7 settembre 1864.




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