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Vincenzo Padula Persone in Calabria IntraText CT - Lettura del testo |
Calandrelle nei piú, e scarpe in pochi: calze di ruvida lana bianca o nera senza ghette di sopra, o ghette senza calze di sotto; brache a toppino tenute su con larga correggia di cuoio, fascia, o passamano che si allaccia di dietro, ed egualmente che le ghette il corpetto e la giacca, di panno nero e nostrale; camicia col colletto ritto, cappello di feltro, conico, e con le tese arricciate; una scure sospesa alla correggia che tien su le brache, ed una mazza noderuta in mano, sono tuttociò che voi vedete addosso agli uomini del nostro popolo, quando nei giorni festivi si raccolgono sul sagrato delle chiese. Ma ecco che in mezzo a loro voi scorgete altri, del popolo ancor essi, ma giovani bene impastati, bene fazionati, e ben vestiti, che nel volto ricoperto di peli hanno il brigante, che attaccano un giuraddio ad ogni momento, e che gli occhi sopra, se gli avvicini, ti pongono a stracciasacco. Il cappello è di feltro e conico, ma le tese ne sono piú larghe ed arrovesciate per di giú; e lo portano alla scrocca godendo di farsi ondeggiare su gli omeri l'estremità pendenti dei nastri di velluto, che ne corrono tutta la fascia dalla piega al cocuzzolo. La camicia è di bucato, e il largo colletto o se ne arrovescia sul bavero della giacca, o si lega con golettone di colori smaglianti, i cui estremi frangiati, dopo fatto nodo alla gola, si mandano oltre le spalle. Indossano ora una cacciatora, ora una giacchetta con sul dorso un cuoricino, ed alle gomita due aquile di altra stoffa. La giacca ed il corpetto, i cui petti si soprappongono, hanno doppia bottoniera di ottone, se non in questo si preferiscono bottoni, anche di ottone, ma a globetti, e somiglianti a sonagli. Quando la brache sono a toppino le ghette giungono al poplite, lasciando tra sé e le brache un intervallo che si cinge con larga fettuccia, non sí però che nasconda la calza bianca. Quando poi i pantaloni sono a sparato, le ghette giungono con grande bottoniera all'inforcata; e sí le brache, e sí i pantaloni son tenuti su da bertelle. Le finte delle tasche dei calzoni e del corpetto, il sopragirello dei toppini e la monopola della giacca son sempre d'altra stoffa, e di altro colore, verde nei piú. Accrescete a questo scarperotti di cuoio grosso e bianco imbullettati fino alla punta, fazzoletto di seta con un gherone pendente fuori della tasca della giacchetta; una pipa con camminetto di legno, lavoro dei carcerati, ed intagliato bizzarramente, la quale si affibbia agli ucchielli di quella con catenuzza di ottone; una pistola che mostra il suo calcio nella tasca in petto (mariola) un pugnale, di cui si vede il manico, nella tasca dei calzoni, ed un fucile a due canne che si porta a spalla, sospeso sotto il braccio, e con la bocca in basso, e voi avrete il ritratto dei bravi che nei giorni festivi passeggiano pettoruti ed affilettati tra il nostro popolo, che li guarda con occhio rispettoso.
Questi bravi sono le guardie, o, come diciamo noi, i guardiani dei galantuomini proprietarii, e la classe n'è numerosa. È loro impiego il sorvegliare i campi e le opere o lavori, e le industrie campestri, unirsi in troiata dietro il padrone quando si conduce in contado, e farlo dentro il paese formidabile ai cittadini, e fuori formidabile ai briganti; e poiché il cane che ci difende dal lupo somiglia al lupo, il guardiano che ci difende dal brigante, somiglia al brigante, e non solo nelle vesti che sono le medesime, salvo che costui le ha di pannolano piú fine, con mostre rosse, e con bottoniere di piastre di argento o di marenghi forati; ma nei costumi eziandio e nell'indole. Ad essere guardiano non basta il volerlo; si richiede un uomo che sia celibe, un uomo fatto alla traversa, che non rimanga paziente all'ingiurie, un uomo di sangue e di corrucci, che abbia piú volte dato briga alla giustizia, espiato una pena nelle prigioni, vissuto furfantando nel paese nativo, da cui poi sia stato costretto a spatriare. E i nostri galantuomini, onde i piú sono di onesti e temperati costumi, gemono di sentirsi costretti per la paura dei briganti di adoperare ai loro servigi cosiffatte persone. I briganti o sono evasi dalle carceri, o quasi tutti nativi dei villaggi albanesi e silani; e poiché le vaste lande della Sila sono il loro ricovero, il galantuomo stima fare il suo pro' assoldando guardiani anche albanesi e casalini, i quali li conoscano per essere stati un tempo loro concittadini, e compagni nelle carceri, nelle manifatture della regolizia, e nei lavori campestri: il che è tanto vero che i signori della provincia vicina alla nostra, che hanno terre ed industrie tra noi, seguono il medesimo stile, e mettendo indietro i loro conterranei conducono ai loro stipendii i piú tristi dei nostri. Or vediamo come i guardiani adempiano il loro officio. Chi ne ha molti, e possiede poderi in monte ed in marina, può dormire tra due guanciali; ché il brigante si lascerà innanzi morire di fame che toccare la piú rognosa delle pecore, perché egli sa che se d'inverno scende alle maremme, e di està sale alle montagne silane troverà da per tutto le guardie, alle quali al proprietario non costa piú che una parola che dica per averne al giorno appresso il capo reciso. E ciò è vangelo, e finora a noi manca l'esempio di grandi signori sequestrati o danneggiati dai briganti; briganti che vengano dalle provincie vicine, briganti che si fermino tra noi un giorno per andare oltre il dimani possono molestarli, e li molestarono piú volte; ma i nostri li rispettano, e li rispettarono sempre per paura.
La pasqua dei guardiani è tutte le volte che vi hanno briganti in campagna, e seguono dei sequestri. Ognuno allora li carezza, e le famiglie dei sequestrati ne implorano la protezione per avere piú arrendevoli i briganti. I padroni stessi se ne impaurano, e molti ne udimmo lamentarsi di loro miserabile condizione, che li costringeva a far buon viso, allargare le mani, e chiudere gli occhi, e dar subito e volentieri ciò che il guardiano chiedesse, il quale spesso finge di venirgli innanzi a nome dei briganti afforzando le inchieste con mille minacce. E non può farsi altrimente, ché parecchi padroni furono negli anni addietro catturati per tradimento e complicità dei medesimi guardiani, che ingrati e nemici, come tutti coloro che servono, non aborrono dal mordere la mano, che dà loro il pane.
Il guardiano per lo piú è celibe, e spesa una drudetta che per l'innanzi appartenne al suo padrone. Nei giorni festivi gira armato pel paese, dimora armato innanzi al palazzo del padrone, e lo straniero che visita le nostre terre alla vista di tanti armati dentro l'abitato crede di trovarsi in pericolo di vita. Di qui l'invito agli altri di armarsi, invito dell'armi a provocazioni temerarie, e passaggio dalle provocazioni a percosse, ferite ed omicidii, delle quali tre cose una non manca mai nei dí festivi in ogni paese di Calabria. Le consuetudini e le pretensioni feudali sono, dove piú dove meno, in vigore; i proprietarii che vogliono esercitarle son pochi; ma, pochi o molti che sieno, i guardiani son quelli, con le cui spalle si consumano gli abusi piú iniqui. Mi si è detta un'ingiuria, una cattiva parola; alla mia fantesca giunta tardi alla fontana pubblica altri tolse che lo preoccupasse nell'attingere acqua, al mio servo ito al mercato altri del pari contese il dritto d'essere servito prima? Non importa; ne fo cenno al mio guardiano, e costui corre al fonte, e rompe gli orciuoli della povera gente, corre al mercato e manda per aria il cestone del pescivendolo. Dico cosí per esempio; e delle busse toccate non si fa motto perché il passato governo persuase i poverelli, che per loro giustizia non ve n'è. Questo vezzo di farsi ragione con la forza ha imbrutito il nostro popolo, ed ha nociuto e nuoce al pubblico costume, ed alla pace domestica dei medesimi proprietarii. Uno di costoro, edotto dalla sperienza, dall'età, e dagli studi, mi diceva sospirando che i primi incitamenti al mal fare gli erano venuti dai guardiani di suo padre. «Fino a diciotto anni io mi ero scasato dal paese nativo; non avevo né libri, né maestri, ma i cani, il cavallo, ed i guardiani che mi servivano. Nacquero le passioni, e le secondai senz'ostacoli. Il mio guardiano arnesato di moschetto, di pistola e di coltello assediava la popolana, su cui avessi io posto l'occhio: dàlle oggi e dàlle domani, la fanciulla cadeva; si percoteva il padre, si minacciava il fratello. Egli spesso entrava a parte dei doni, che le mandavo, facea un po' di agresto sulle mie spese e (questo s'intende da sé) godeva pure dei suoi favori. Entrai in comunella con altri giovani miei coetanei, ed i miei ed i loro guardiani ci servirono in imprese, onde al presente arrossisco. Si scalavano finestre di notte, si faceva il birro, e il miglior nostro divertimento era lo sbarro». «E che s'intende per sbarro?» domandavamo noi; e il brav'uomo: «Sei calabrese, ci rispondeva,— ed ignori che sia lo sbarro? Si sbarra una vigna, un marroneto, un terreno qualunque quando, dopo la raccolta, si fa abilità a tutti di entrarvi col gregge; e quando noi eravamo stufi e stracchi o in dispetto di una nostra donna, la sbarravamo, concedendola invano reluttante al simultaneo e disonesto assalto di tutti i nostri guardiani, e loro amici».
Il guardiano sorveglia i poderi del padrone e l'opere campestri, e se fa gl'interessi di lui fa meglio gli interessi proprii. La popolana entra nel mio fondo a farvi un fastello di legna; il guardiano la percuote, le fa a brandelli il fazzoletto; le leva pegno (spigna) il corpetto, e lo porta a me. Il bifolco vi entra con i suoi buoi; il guardiano se li caccia innanzi, e li mena a me nel paese. Il porcarello vi s'introduce con la sua macilente scrofa, il guardiano gli corre addosso, il meschinello trema, e gli dice allibito: — Prenditi pegno la mia scure, e lasciami la scrofa —; e il guardiano si riceve la scure e la porta a me. Or che avviene? Viene la popolana, ed io le dico: — Se vuoi restituito il corpetto dammi due lire —; viene il bifolco ed io gli dico:— Se vuoi i bovi dammi cinque lire —; viene il porcarello ed io gli dico:— Se vuoi la scure dammi sei lire —. Il danno da me sofferto nel fondo è forse un nonnulla; ma il bifolco vedesi i cari buoi digiuni, assetati, a cielo aperto innanzi al palazzo mio, e per toglierli da quel travaglio paga anche un occhio. La popolana e il porcarello pagano pure, perché io ho un pegno in mano, e se non pagano quel ch'io voglio, porto al Giudice di mandamento il corpetto, e la scure, e domando una perizia. E alla parola perizia il nostro povero popolo cangia colore, perché ognuno ricorda la storia d'un cavolo pagato ottanta lire. La storia si racconta cosí. Un guardiano formidabile otteneva a titolo di mancia da un pecoraio ora caci, ora ricotte; il pecoraio stanco del tributo una volta rifiutò. «Ebbene, — gli disse l'altro, — se porrai piede nei fondi del mio padrone ti concerò per il dí delle feste». «Non mi coglierai», rispose il pecoraio, — e per un mese il poverello era tutt'occhi nel ritirarsi la sera perché le sue capre costeggiando quei fondi non ne saltassero le siepi. Il guardiano indispettito si appiatta dietro la siepe, spia l'istante che passano le capre, ne tira una su, e la libera nel podere. La capra si mangia un cavolo. «Oh il cavolo! il cavolo! ti ho colto alfine, lasciami il pegno». «Ti pagherò il cavolo, e questi son due soldi». «Due soldi? hai da contarmi cinque lire». Il pecoraio rimane trasognato, l'altro gli leva pegno la scure, la porta al padrone, e questi chiede una perizia. Che ne seguí? Il danno era innegabile, era di due soldi ma innegabile; ma per spese d'indennità di via al giudice, al cancelliere, ai testimoni, e per spedizione di sentenza il malarrivato sborsò ottanta lire!
Questi ed altrettali fatti sono comuni in Calabria, e noi gli scriviamo non per credere che li facessimo ignorati, ma perché scritti e letti stimiamo che debbano generare una nobile vergogna, che ne impedisca il rinnovellamento; e domandiamo con l'animo commosso, se il nostro popolo può avere animo gentile, corretti costumi, ed istinti umani quando vegga, non dico ogni giorno, ma una sola volta in dieci anni, un solo esempio di sbarro, di cui freme la natura, e di cavolo pagato 80 lire, di cui freme la giustizia!
Il guardiano tocca al mese dal suo padrone o trenta carlini e un tòmolo di grano, o sei ducati; e di piú un pezzo di terreno, di cui non paga né fitto, né terràtico. La provvisione par poca, ma non è cosí. Stante il timore, che ne ricevono i conservi, il massaro gli maggesa e semina il terreno gratuitamente, il pecoraio lo accomoda di formaggi, di caciocavalli il vaccaro, senza mettere a somma gl'illeciti guadagni che egli fa ad insaputa del padrone.