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Vincenzo Padula Persone in Calabria IntraText CT - Lettura del testo |
La nostra provincia è bagnata da due mari: il Jonio ha coste basse ed aperte, poca insenatura, rari li scogli, frequenti le piane, e la grava è coperta da ricolmi. È per natura importuoso, ed ove si volesse contrastare alla natura le risacche non tarderebbero ad interrare i porti che vi si costruissero, ed esempio ne sono quelli di Cotrone e di Brindisi. Il Tirreno, al contrario, è scopuloso, con spiagge sottili; s'ingolfa maggiormente, ed ha calanche in tutti i punti, in modo che le rive dell'uno se possono ricevere la ferrovia, quelle dell'altro son tali da porger luogo ad un gran numero di porti. Coloro che di luglio vanno a bagnarsi nel Jonio son costretti a tenersi con le mani ad un cavo amarrato ad una pertica, che si conficca sulla riva, laddove nel Tirreno chi si bagna siede comodamente su li scogli, e passa e nuota dall'uno all'altro al di là d'un miglio. Vi hanno però fondi segatori, dove, a gittarvi l'ancora, vi restano tagliate le gomene, e quando serrata dal vento la nave arripa, né può bordeggiare, si corre pericolo. Sono entrambi abbondantemente pescosi: vache (vacca), calamai, seppie, zígoli (zirri), triglie, storioni, spade, scombri, (scurmi) sarde, rondini, sogliole (pataje), orate (sauri), spillancole, (sputacumpani), pelamide (palàmati), sfirene (guglie) raje, cefali, centrine (canicelli) dentici, gronghi, coracini (corbielli), lecce (ricciole), merluzzi, murene, occhiate, palombi, sarpe, scròfani, pagri, aliuste (raguste), polipi, cernie (mostelle?), lucerte, acciughe, sono frutti comuni e copiosi dei nostri mari. Nel Tirreno abbondano i testacci ed i zoofiti, il riccio, la penna, la fravola, e l'infinita generazione dei nicchi; ed i bagnanti non hanno che a portar seco un coltelluccio per staccare dai grebani e dai scogli, su cui siedono ignudi, incredibile quantità di patelle. Nel Jonio al contrario son rari, ed i nativi di quelle maremme conoscono poco altro che le nacchere (cozze) colà navigate dalle barche di Taranto. Nondimeno non abbiamo porti, le pescate sono scarse, il nostro barchereccio una miseria, le barche pessimamente attrezzate; e la cagione è da recarsene all'essere i nostri paesi piú grossi e popolati quasi tutti mediterranei. Il Jonio possiede barche che pescano, non barche che navigano, il Tirreno l'une e l'altre; perché i proprietarii delle marine di levante hanno grano, hanno olio, hanno tutte le agricole ricchezze, e trascurano il mare, laddove del Tirreno dice un nostro proverbio: Marine di ponente pane niente, e la popolazione vive con la pesca e il commercio. Le navicelle da pesca nell'uno e nell'altro versante di nostra provincia di poco oltrepassano le cento.
Si costruiscono da noi, e buoni squeraroli non mancano; se non che questa sorta artefici non s'incontra per tutto, ma forma per cosí dire una casta ridotta in pochi luoghi, come all'Intavolato, al capo di Bonifati ed Acquappesa. Il gelso moro dà il corbame, ossia l'ossatura, l'abete i maieri, il faggio i banchi, i remi, e gli scalmi; e il gozzo (guzzo) o sciatta, che n'esce, non costa attrezzata che un dugento dodici lire, o in quel torno. Sono suoi attrezzi un trinchetto, un'ancoretta, un cavo di canape, un libano, ed una libanetta, che sono manovre di sparto, erba da noi nominata la tonnara, e le taglie o bozzelli, cazzando la cui fune, la barchetta viene accostata alla terra. Vi montano da cinque o sei marinai, il nocchiero (nachiere), ed un mozzo. Danno la palmata al proprietario il dí 24 giugno, festa di S. Giovanni, e ne ricevono la caparra, ed il mestiere. Dicesi cosí in loro lingua l'insieme delle reti, quanto serve al governo e raddobbo della barca, e le legna, la caldaia e la porporina. È la porporina, se non andiamo errati, un miscuglio di argento vivo e stagno in foglia incorporati per opera del fuoco allo zolfo ed all'ammoniaca; nella loro favella le dicono zappino, la sciolgono nell'acqua bollente della caldaia, e vi tuffano le reti per colorirle in rosso, renderne forti e durevoli gli spaghi, e capaci di resistere ai sali roditori del mare. Tutte le loro reti sono rivali; la rezzola o sciàbica, la tartana, la manàide (minàita) e la palamitara (palancastru) non pigliano l'alto piú d'un chilometro; lo sciabichello poi rade la spiaggia. Ignorano il ghiaccio, le nasse, la sagena, le vangaiuole, che si calano in alto mare, e la draia che rade i fondi piú bassi, e che, adoperata nell'acque nostre, ci pescherebbe un popolo infinito di conchiglie. E quello che non sappiamo, né facciamo noi è vergogna che facciano i Sorrentini, che vengono nel nostro Jonio di mezz'ottobre or con quattro, or con cinque paranze e ventotto marinari, e se ne vanno nel maggio. Ai Sorrentini noi dobbiamo il piacere di gustare la spinola, il coracino, il dentice, il pescespada, la leccia, la mostella, il boccadoro, e il tonno; laddove i nostri, di tanta ricchezza di mare, non ci dànno che il pesciume minuto e littorale, e poco piú che frattaglia. E le scarse e vili pesche inducono i nostri pescatori ad usare metodi e modi, che sfruttano il mare. Lo sciabichello, per esempio, a tenore d'una antica nostra legge non debbe avere le maglie cosí fitte da ricusare il libero passaggio ad una mezza lira d'argento; ma l'antica legge confidata alla sorveglianza dei guardaboschi, che usano nella Sila, e non, come andrebbe fatto, delle guardie doganali, è tuttodí violata; e il parazzo, gentile e sottilissima figliatura delle sarde, ed i pesciolini uguannotti, che per curiosità e per bisogno cercano nell'alghe e nei bassi fondi della spiaggia asilo, cibo, e sicurezza, vengono tolti ai loro primi giochi infantili dall'implacabile sciabichello. Oltracciò spiasi il fregolo, il luogo, vale a dire, dove i pesci. di latte (i maschi) vanno a fregarsi su pei sassi dopo che i pesci d'uova vi hanno deposto il loro peso; e se ne levano retate enormi di latterini (rosa marina), carnume minutissimo, embrione Dio sa di quanti pesci, e che si vende un soldo il chilogramma!
La pesca avviene in varie ore, e vari tempi. Della manàide si fanno tre calate, al tramonto, a mezzanotte, e presso al mattino. La sciàbica, lo sciabichetto, e la tartana si calano di giorno; la palamitara di giorno e di notte. La sciàbica fa presa piú svariata e piú ricca; la corda piombata l'affonda in mare, il navicello la caluma lentamente nell'alto; tu non vedi altro che una serie di sugheri galleggianti, poi dopo un tratto i due capi della spilorcia si alano da terra, e la sciàbica scarica sul lido pesci d'ogni fatta. Perciò nel nostro dialetto si dice sciàbica si: alla madre famiglia, che sia massaia diligente, e si alla donna ridotta allo stradino; e sciabicaro all'uomo che ne faccia di tutte le taglie, delle buone e delle belle, delle piccole e delle grosse. Tutte queste pesche son dilettevoli, massime nel Tirreno. È di mattino? Monta in barchetta con un buon lanciatore: l'alte ripe, le scogliere, le cime frastagliate dei monti, onde s'incoronano i villaggi di quelle marine, spezzano il Sole nascente, e tu che muovi piaggiando vedi sull'onde mille forme di ombre, mille colori, mille iridi, e la stessa acqua ti sembra ora bruna, ora verde, ora rossa, ora turchina, ora perlata. Il lanciatore vi versa un'ampollina di olio; un milione di gocce scintillano immediatamente al sole; sembrano pupille aperte e nuotanti, finestre che s'aprano all'improvviso nel palazzo di cristallo, dove abita il vecchio Nettuno; il mare rivela il suo fondo, e tu impaziente gridi al lanciatore: «Ecco un pesce, ecco un pesce!» Il lanciatore sorride; ciò che ti sembra pesce è l'ombra guizzante d'una fune che pende dalla barchetta; ma il pesce vi è, vi vibra la fiocina ed una delle varie specie delle ferracce viene col suo ventre largo, piatto e bianco a palpitarti d'avanti i piedi. È di meriggio? Monta pure la barchetta: lega una seppia, che tu abbia comprata, ad una funicella, e cammina. Amore è Dio, Amore è per tutto, ed Amore spinge il tòtano, il calamaio, il marito vale a dire della seppia, a seguirla ed abbracciarla. Issione strinse tra le braccia una nuvola, il nostro tòtano stringe un cadavere. I Cartaginesi che posero tra i supplizii quello di legare un vivo ad un morto dovettero conoscere questa pesca; tiri la funicella e l'improvvido amatore viene a morirti tra le mani.
È di sera? fermati sul lido ed ammira: l'ombra delle nubi infosca il mare; ma per un lungo squarcio delle nubi, la luna manda il suo lume e disegna sull'onde una strada di argento. tutto ad un tratto una figura nera vi appare in mezzo: è la navicella, del pescatore, la quale lascia dietro a sé una scia luminosa, e scivola sull'acqua, e va e viene come anima che si affacci dal mare della vita cercando una culla, dove possa introdursi. Il pescatore tende allora la trave, lunga fune a cui s'annodano molte funicelle piú corte, dette bracciuoli, ed armate di forti ami con esca.
Il contratto tra il proprietario della barca ed i marinari è simile a quello tra il padrone ed i pecorai, perché pecorai della stirpe di Proteo sono i nostri pescatori. Il proprietario dà loro il morto, e dicesi morto un'anticipazione di 50 a 63 lire, con le quali lo riscatta. Riscattare appo noi significa riacquistare una cosa che siasi venduta. Il marinaio è un uomo venduto, perché è debitore di Tizio; io gli dò il morto, io gli pago i debiti, lo riscatto, e lo prendo ai servigi della mia barca. Il linguaggio è il segretario di tutte le miserie del popolo; e le predette parole mostrano che in Calabria contadini e pescatori vivono del pari a furia di debiti, e muoiono senza averli pagati. Nella pesca della manàida il proprietario tocca la metà del pesce pescato; della palamitara, a cui fornisce la esca, anche la metà; ma dello sciabichello un terzo, e della tartana due quote. Ciò che avanza si divide egualmente tra la ciurma; senonché il nocchiero, che attende al timone (palella), governa la manovra, e conosce ed indica le tese, ha un quarto piú degli altri. E ciò nel Tirreno: nel Ionio han condizioni migliori. Il proprietario tocca il terzo dei profitti, ed una mancia di pesce nei mercoledí e venerdí, ma gli corre l'obbligo di fare alla ciurma ogni ragionevole avanzo in denaro e derrate, salvo a rifarsene alla fine dell'anno; il che mostra, come dicemmo, che nel Jonio i marinari sono pochi. Ma si nell'uno e si nell'altro mare la loro vita è miserabile, meno però nel secondo. Da aprile a tutto giugno si va bene nel Tirreno la pesca dell'acciughe, e delle sarde, nel Jonio di queste e degli scormi è abbondante; i marinari guardano il rozzo, guardano, vale a dire, quel bagliore che diffondendosi pel mare accompagna ed annunzia il passaggio delle sarde, e ne pescano a iosa; e si vendono sul luogo da quattro a dieci soldi il chilogramma. S'insalano senza scaparle; perché il capo d'una alice e d'una sarda salata si chiama da noi sucarola, e il Calabrese dice che a succiarsela si mangia quattro pani. Si stivano in tinozzi con finocchi e peperoncini, e si danno via a ventiquattro docati il cantaio. Da luglio a tutto settembre si pesca nel Tirreno con la tartana: partono alle tre antimeridiane,e ritornano alle undici con non piú che sei o sette chilogrammi di triglie, pescatrici, seppie, e poche raie, che si vendono ai servitori dei galantuomini sul lido medesimo ad una lira il chilogramma; laddove nel Jonio la cosa procede meglio, e le triglie, i merluzzi,e le raggiate sono in quei mesi copiose, e si vendono a mezza lira. Negli altri mesi la pesca scarseggia sempre piú nel Tirreno, dove null'amano tanto quanto il maestrale, e nulla temono quanto il greco. — I loro proverbii dicono: A sarda e l'alice vo forano e maistrali; e lu grecali leva lu pisce da lu panaru. Ora il greco vi domina, ed in dicembre, gennaro e febbraio i marinari di colà mettono da un canto le reti e per non morire d'inedia pigliano il mestiere del facchino e del corriere privato da paese a paese. Ma il Jonio non è povero mai; in quei mesi piú freddi manda i merluzzi piú grossi, le raie ed i palombi piú grandi; e, quando di marzo si fa la fascinata sul lido, la pesca delle seppie è veramente meravigliosa; né il prezzo di questi ed altri pesci va oltre i 77 centesimi.
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Le persone, di cui ci siamo finora occupati, andrebbero meglio detti, come gli appella il volgo nostro, sciabacari e tiratori, e non già marinari, volendo riserbare questo nome a coloro che montano navi da commercio. Queste navi per nostra vergogna sono poche. Attesa la nessuna importanza che finora hanno avuto per noi le coste dalmate e greche, attesa la ricchezza agricola e pastorizia del versante orientale, e l'ozio beato in cui vivono i ricchissimi signori di quei luoghi, nel Jonio non esiste nessuno nostro bastimento. Le importazioni e l'esportazioni vi si fanno non con barchereccio paesano, ma con legni di Taranto, di Sorrento, e dei paesi nostri posti sul Tirreno. Marine di ponente pane niente, e gli scarsi redditi territoriali da una parte, e la vicinanza di Sicilia, Napoli e sue coste dall'altra han creato nel nostro occidente il commercio e la navigazione, poca cosa all'avvenante di quanto potrebbero essere, ma molta, chi guardi le nostre condizioni sociali al presente, e politiche al passato; e tu vi trovi ora da dodici a quindici legni di cabotaggio, tra marcignane (martingale), tartane e trabacchi. Sono su per giú della portata di sei a cinquantasei tonnellate, vale a dire che il loro carico è di diciotto a centosessantottomila libbre. Di questi i legni piú grossi si fabbricano in Castellamare di Stabia, e montano un ottomila e cinquecento lire ciascuno, e colà si riconducono per raddobbarsi, o in Messina, o nel Pizzo, paese della media Calabria, non avendo noi, a dir vero, né cantieri, né squeri coperti, né sapendo i nostri squeraroli condurvi attorno altro lavoro che quello di calafatarli quando spuntano le stoppe, ed impeciarne, ed insegarne i commenti. Ma i piú piccoli escono dall'ascia, e si racconciano per opera dei nostri, ai quali una giornata di lavoro si paga due lire e 54 centesimi. Essi legni son tutti montati da ciurma e da padrone calabrese; la ciurma è di nove uomini, e son brava e ardita gente di esperti marini che, sebbene esercitino il cabotaggio movendo da capo a capo lungo i paesi costieri, non è però che non sappiano o non osino navigare a golfo lanciato, poiché non solo vanno difilati a Palermo, ma dopo i luttuosi casi del 1848 piú d'un reo politico fu da loro salvato e condotto nell'isole Jonie, e nella Grecia. Caricano a caccia la balla, colleggiando le merci dai paeselli limitrofi, ed esigendo sottosopra il nolo di una lira e 70 centesimi da ogni quintale: esportano fichi, vini, biade, olio, bozzoli, e formaggi, fanno scala nei paesi littorali di entrambi i nostri mari, velano per Sicilia, ne caricano i vini per sbarcarli in Napoli, e di ritorno importano da Salerno ferro, acciaio, canape, lino, granturco, e generi coloniali. Finita la traversata, si levano i conti, e, sbattute dai profitti le avarie e le spese di stallia e di razione, di ciò che avanza netto si danno due metà: l'una si dà al proprietario o parzionarii del legno, e l'altra si divide cosí: al Capitano una parte e mezzo, allo scrivano una parte ed un quarto, ed ai marinari ed al mozzo una parte per ciascuno. Ma un nostro proverbio dice: A varca è de chi a cavarca (cavalca), e il noleggio del carico morto profitta interamente ai marinari.
Marinari e sciabacari hanno medesimezza di abitudini e di vesti: sono vigorosi, spericolati, e grandi mangiatori. Gli angoli degli occhi han coverti di rughe; parlandoti, levano la punta del naso in aria, ed arricciano le nari e il labbro superiore. L'uso di camminare sempre scalzi sull'arena acquista ai loro piedi una forma larga e piatta, come quella dei palmipedi. Iracondi, bociatori, maledici, tempestosi, incontentabili, bestemmiatori solenni. Prima di varare si segnano dicendo: Sant'Andrea di Amalfi, mandami bene. Sant'Andrea pescatore è venerato in Amalfi, e quest'invocarne il nome che si fa in tutte le nostre coste mostra che Amalfi, come diede le leggi Romane, diede pure l'arte marinaresca a tutti gl'italici paesi, il vocabolario della quale è l'unica parte di nostra lingua, che sia comune. Ma la loro devozione non va oltre Sant'Andrea, e punto che si adirino levansi di testa il berretto, vi gesticolano sopra, e se lo cacciano sotto i piedi. Il qual atto singolare si spiega cosí. Eglino gittano dentro al berretto i nomi di tutti i Santi, di cui pronunziano la litania o mentalmente o con le labbra, poi chiudono il berretto, e pigiandolo credono di rompere il naso a S. Pietro, l'occhio a Sant'Antonio, un braccio a S. Bartolomeo; e quando hanno a creder loro calpestato tutto il Paradiso gridano: «Santo diavolo!» Quest'empietà, o superstizioni, o brutalità che vogliano dirsi, son consigliate dall'ignoranza, e dalla miseria in cui vivono, miseria che non è tanto altrove spaventevole quanto nelle nostre marine di ponente. Eppure hanno ingegno, e sul quadrante stellato del Cielo san leggere i minuti; eppure hanno cuore, e le canzoni composte chi sa da quale dei loro padri, e cantate al presente, mostrano tesori di affetto. Ben è vero che ripetono, per quel nostro vezzo di credere da piú le cose forestiere, l'ariette sicule e napolitane: ma le native canzoni sono mille volte piú belle; né ci vuole molto ingegno a sceverare l'une dall'altre. Questa per esempio:
Pescaturi, che pischi cu l'ingannu
Tu ti cridi ch'a morti nun ci è?
A morti ci è, ma nun si sape quannu
Ci cogli all'improvviso e nun ha fè.
non è certo canzone calabrese e nostrale. Quel sape per sa è napoletano pretto;. all'improvviso non è parola della nostra lingua, che dice invece all'intrasatta. E poi quel fè! Al contrario le qui sotto canzoni vanno per le bocche di tutti, e furono certo invenzioni dei nostri marinari.
Sia benedittu chi fici lu munnu!
Sia benedittu chi tu seppi fari!
Fici lu cielo cu lu giru tunnu
Fici li stilli pe' ci accumpagnari,
Fici lu mari, e pua ci fici l'unna,
Fici la varca pe' ci navicari,
E pua facetti a tia, janca palumma,
Chi puorti i carti de lu navicari.
Al marinaro in mezzo all'onde il Cielo pare tondo, e cosí è. Benedice Dio di aver creato le stelle, che lo accompagnano, e la barca su cui si trova. La fantasia gli presenta la sua Bella nella sembianza di bianca colomba; e Noè, il primo marinaro, ebbe pure la colomba; e conchiude che la sua bella ha la carta della navigazione. Questo concetto è oltremodo vago. Egli dunque per evitare gli scogli, le secche, le calme morte, e le terribili scionate non governa il cammino secondo la carta: per lui la carta vera ed infallibile è la sua Donna, che gli corre d'innanzi sui flutti, che gli addita la rotta, e gli mostra nella spuma il petto, nell'alghe i capelli, nelle valve aperte del murice le labbra rubiconde.
Il marinaro rientra in paese, mette in tuono la chitarra, e di notte innanzi all'uscio della Bella le canta cosí:
Iu cumu aciellu m'aju misu l'ali
Pe' venire a trovari sa bellizza,
Mi pari ne filuca 'n mienz'u (in mezzo al) mari.
Quali Diu ti ha datu tant'artizza? (altezza)
Navicu sopra l'unni cu destrizza;
E tannu sulu appunto e (smetto di) navicari
Quannu 'n manu mi viegnunu si trizzi.
La poesia di questa canzone è negli ultimi due versi. Egli è valente marinaro, e naviga bene sull'onde, ma solo allora cesserà di passare da flutto a flutto, quando gli verranno in mano le trecce della sua Donna! La sua donna è dunque una Nereide, una ninfa ignuda che vive sotto acqua in una foresta di coralli, ed egli vuol darle la caccia come la dà con la fiocina ad un'occhiata, ad una orata, ad una seppia; afferrarla per una treccia, ripigliarla se gli sguscia; e tenerla abbracciata tra le tempeste. E qui è la poesia; e bello è pure quel paragonarla ad una feluca. Il nostro popolo dice varca alla donna robusta, e filuchella alla vergine, che sia alta, svelta, e poca nei fianchi.
Ma il marinaro è costretto a dividersi dalla sua filuchella. Credete che parta senza dirle addio? Le torna sotto la finestra e canta:
O Bella, è fattu juornu, e l'arba è chiara,
De la partenza mia venuta è l'ura (l'ora).
Mo su benutu a mi licenziari,
Pe fari ssa spartenza amara e crura (cruda)
A varca de lu puortu si prepara;
Chi sa stasira, o Díu! duvi mi scura!
Si la nívura (nera) morti nun mi spara,
A mia venuta è tarda, ma sicura.
Che affettuosa malinconia non governa quel verso: Chi sa, o mio Dio, dove mi farà notte stasera! L'immagine della sera si offre naturalmente a chi si divide da un oggetto amato; finché si viaggia, il dolore tace, la perdita fatta par poca, par sopportabile, ma quando la sera ci troviam soli, in luoghi nuovi, né sentiamo la voce solita a dirne buona notte, oh, allora ci bisogna che non si abbia cuore per non piangere. E il nostro marinaro cammina e piange. La notte lo coglie in mezzo mare, e cullandosi sulla sommità dei flutti egli canta questa canzone, a cui prego tutti i poeti accademici a far di cappello:
Tu si' luntana, né mi pu' (puoi) vidiri,
Ma fatti na finestra all'orienti.
Si mina bientu, su' li mia suspiri;
E si fa caudu, è lu mia fuocu ardenti.
Si l'acqua de lu mari vidi usciri,
Su' li lacrimi mia jumi (fiumi) currenti;
Si sienti 'ncuna vuci all'aria jiri,
Sugnu iu, bella, chi chiamu e tu nun sienti.
Quanto affetto! Prega la Donna che apra nelle mura di sua casa una finestra rivolta ad oriente, e le dice: — Guarda verso il mare: se spira vento, sappi che quel vento è il mio sospiro; se un'aura calda ti batte il viso, quell'aura nasce dalle fiamme di amore che mi bruciano: se vedi il mare irrompere oltre la riva, sappi che il mare è cresciuto per le mie lacrime; e s'odi una voce nell'aria, oh quella voce è la mia, che chiama il tuo nome, e che tu non distingui. Tante bellezze di poesia contrastano è vero con la miserabile vita e l'indole stizzosa dei nostri marinari; ma se la società manca al suo debito, la è forse questa una ragione perché la natura manchi al suo?