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Vincenzo Padula
Persone in Calabria

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XVIII. — MOLINI E MUGNAI

Noi non abbiamo molini né a mano, né a bestia, né a vapore, né a vento: ma terragni ed a doccia: si costruiscono a mezzo il declive del terreno, che sdrucciola presso i fiumi vicini all'abitato, e la strada che vi va è sempre un piacevole passeggio. Nelle belle giornate, oltre un monte di popolane e di artigianelle che vanno e vengono con in capo la sacca del grano e della farina, tu vedi sulle sponde del prossimo fiume le nostre lavandaie, qual bollire, qual lavorare, qual tendere, e quale stendere il bucato; e il suono allegro delle loro canzoni, e il rumore delle cateratte e delle ruote; e il fiume che piglia nel seno l'immagine del cielo, delle donne e del molino, ti riempiono l'occhio e l'orecchio d'innocente diletto; e quando tra quella gente cosí mobile e cosí lieta ti abbatti a vedere una povera vecchia immota sopra un pietrone filare e starsi li avvisata sopra il suo sacchetto di lupini messi a rinvenire nell'acqua arrandellata in umida polvere dalle ruote, tu entri nel desiderio di essere pittore per ritrarre quella scena. Vecchi e pochi sono i nostri mulini, perché già appartenendo agli antichi baroni, che soli aveano il diritto di costruirne, questi occuparono lungo i fiumi tutte le piazze da ciò; ed ora quando anche per altrui si trovasse un punto buono ad edificarvi, i proprietario dei vecchi molini gliene caverebbero di presente la voglia, avviluppandolo in litigi interminabili, o lo costringerebbero a spingersi su verso il capo delle acque per trovarvi una piazza cosí remota dall'abitato, che, come mostra l'esperienza, non gli torna gran fatto conto l'edificarvi. A questa gelosia dei proprietaria fanno ragione i grassi e facili profitti, che vengono loro dai molini. Una stanzaccia piantata sopra un altro terreno, bassa, cieca, ora a volta, od a travi, è ciò che presso noi si dice molino.

Il vaso a terreno (catoja e l'acqua) ha sul davanti una o due aperture arcate, secondo che il molino,è ad uno o due palmenti, le quali danno l'esito all'acqua; ha nel di dietro le docce che la ricevono, ed ha dentro di sé l'ordigno che mette in moto le due macini collocate nel vaso superiore. L'ordigno è semplicissimo: una ruota orizzontale ed a pale, di cui il mozzo dicesi miuolo, ed alape o palomelle le ali, riceve per suo asse il palo (fuso), il quale è una massiccia e verticale asta di legno. L'estremità inferiore del palo è di ferro acciaiato, dicesi rospo, e termina in punta rotonda. La punta rotonda del rospo gira nella broncina, ch'è pure di ferro acciaiato e dicesi rànula. La rànula è inchiodata sopra il ponte, ch'è una trave orizzontale, e dicesi staccia. Il ponte appoggia le due testate a due spallicciuole, ossia a due travi messe di traverso. La spallicciuola di fondo è fermata nel muro e dicesi il dormente; la spallicciuola d'avanti ha le estremità libere, e nel suo mezzo riceve la temperatoia (pede), stanga verticale di legno. L'estremità superiore o la nottola del palo è di ferro acciaiato: passa a traverso il bossolo (vuòscita), cilindro di legno dolce incassato nel centro della macina di fondo, e va ad incastrarsi nel centro della macina di coperchio. Quando le due macini vogliono scostarsi, per uscirne men trita la farina, il mugnaio solleva la temperatoia. Di questa la estremità superiore riesce alquanto sul pavimento, dove sono le macini, attraversata da una gruccia. Sotto la gruccia il mugnaio caccia a colpi di mazza delle biette; e la temperatoia si sollalza. Sollalzandosi solleva seco la spallicciuola a cui sta di sotto inchiodata; e la spallicciuola sollevandosi spinge seco in alto il ponte con la bronzina; la bronzina spinge il palo, e questo la macine di coperchio.

La presa dell'acqua è dove piú, dove meno lontana: si fa la pescaia ('ntripelàla) con fascine e con roste inzaffate di terra; l'acqua deviata si caccia lungo una gora (gorgia, acquaru); trova alle spalle del molino la cateratta (saitta) di muro in pochi paesi, di legno in tutti; vi cade fragorosamente, s'insinua nella doccia (cannella) lunga una spanna, e larga all'avvenante, nelle pale della ruota, e il molino bello bello si mette, come dicono i nostri mugnai, in farina. La costruzione, come si vede, è semplicissima, e ci viene senza alcuna arruota, dagli antichi latini; voci latine e bellissime sono ranula ed alapa rimaste tuttora vive nel nostro dialetto. Veramente le pale della ruota pare che schiaffeggino l'acqua che vi fa impeto sopra, e loro sta bene il nome di alapa, che significava schiaffo, e la bronzina poi pel suo starsi sott'acqua, per le sue quattro branche conficcate sul ponte, pel suo dorso aggobbito ed incavato, non potea chiamarsi per nome piú proprio che per quello di rànula, ossia piccola ranocchia. Per chiamar poi rospo l'infima ed estrema rotondità del palo, che si gira e si frega in corpo alla ranocchia, il mugnaio calabrese ha certo avuto le sue belle ragioni; e cosí il dabben uomo quando giacendo rivelto, e turandosi il viso col cappello piglia un sonno sospeso, crede nel rumore dell'acque che cade e delle ruote che girano di distinguere il gracidamento delle rane, il fischio dei rospi, e il frullo che fanno l'ali delle palombelle.

A questi attrezzi, che per essere sotto il pavimento del molino si tolgono all'altrui sguardo, bisogna aggiungere quelli che si trovano nella stanza delle macini. Le macini, larga ciascuna quattro palmi ed un quarto, ed alta quattordici once, si tagliano nei grossi macigni di fiumi, e costano trainate nel molino da centodue a centoventisette lire. Posano l'una sull'altra sopra un sodo di mattoni messi per coltello, e tra quattro panconi (antuni) inchiodati di sopra contro i travi del tetto. Una cassa (tina) di stecche cerchiate le piglia dentro di sé, perché la farina non venga lanciata via, ma esca dalla sola parte, dove la sponda circolare della cassa è interrotta, e cada giú nel matraro. I sacchi si posano sboccati sulla tramoggia: la tramoggia sostenuta dai panconi ha in fondo la cassetta (fiscella), da cui con le estremità libere pende sulla macine la bàttola (mattariello); e le continue scosse di questa fanno che il grano cada a poco a poco dalla cassetta nel foro della macine. Son questi tutti gli attrezzi del molino; costano a dir molto un quattrocento lire; e nondimeno con si tenue capitale il proprietario si assicura il reddito annuale di trenta a sessanta ettolitri di biade o di seicento a milleduecento lire quando il molino sia a due palmenti.

29 giugno 1865.


 




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