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Enrico Castelnuovo Il fallo d'una donna onesta IntraText CT - Lettura del testo |
XI.
Ella non dormì quella notte; giacque immobile sul suo letto, con gli occhi aperti, con le membra infrante, oppressa da un incubo penoso. Quando la luce dell'alba penetrò nella sua camera - Ecco - ella disse fra sè - è l'ora della partenza del Colombo... Forse egli guarderà verso la mia casa, forse mi cercherà alla finestra... - Pur non tentò nemmeno di alzarsi; le pareva che le sarebbe stato impossibile di far qualsiasi movimento... Nè, come usava, sonò il campanello alle otto... Venne la cameriera, alquanto più tardi, venne spontanea, in punta di piedi, a veder se la signora dormiva.
- Che ore sono? - chiese la Teresa.
- Quasi le nove.
- Oh, diamine!... Apri, apri... Lascia entrar il sole.
- Non c'è sole questa mattina.
- Non c'è sole - ripetè macchinalmente la Teresa.
- Vuole il caffè?
- No, no, lo beverò subito alzata.
E con uno sforzo si levò a sedere sul letto.
- È arrivata la posta... Desidera che le porti, le lettere e i giornali?
- Sì, e porta anche i vestiti spolverati.... Dopo mi vestirò da me.
La posta era più ricca del solito. C'erano quattro lettere, tra cui una del suo giardiniere, un'altra, col bollo dell'Aia, di Mario Vergalli. Questa la Teresa, arrossendo, la mise da parte. Un profumo acuto, particolare, le rivelò la mittente della terza lettera che le capitò fra le dita. - Che cosa può volere la Giulia Orfei? - ella pensò aprendo la busta con una stecca sottile d'avorio.
La Giulia Orfei non voleva nulla; anzi, per esser sinceri, non diceva nulla di concludente. Otto paginette d'una calligrafia lunga, fine, aristocratica, erano consacrate per metà alla stagione estiva di Aix-les-Bains, ove la Giulia aveva passato un mese, e per metà ai piccoli pettegolezzi che in quell'autunno rompevano la monotonia delle villeggiature sui colli Berici: amori, fidanzamenti, rotture, paci; il tutto raccontato con una festività priva di cattiveria, perchè la Orfei non era cattiva, e appunto per la bontà del suo animo si faceva perdonare dalla Teresa Valdengo la leggerezza della sua condotta. Ciò non toglie che quella lettera avesse il suo poscrittino con una punta di malizia. «E dei casi tuoi che mi narri? O quanto aspetti ad andar in campagna quest'anno? Dicono che hai la villa in ristauro, ma dicono anche... se tu sapessi quello che dicono gli sfaccendati!... Del resto, sei libera come l'aria e avresti un gran torto a non approfittarne.... Mandami una riga, bella misteriosa!»
Stringendosi nelle spalle, la Teresa ripose il foglietto profumato nella busta.
E prese l'epistola del suo giardiniere. Vi si parlava della casa ch'era ormai in ordine, tranne due stanze non ancora perfettamente asciutte; del giardino che, favorito dalla mitezza della stagione, era tutto in fiore. Voleva ella ch'egli le spedisse l'ultime rose, o non sarebbe venuta piuttosto a spiccarle con le sue mani? Si poteva giurare che il bel tempo sarebbe durato per tutta questa luna, fin dopo San Martino.
- Sì, andrò in campagna fino alla metà di novembre - borbottò fra sè la Teresa. - È il meglio che mi rimanga da fare.
Indi, proseguendo nello spoglio della sua corrispondenza, aperse con curiosità una lettera che veniva da Milano e di cui ella non aveva riconosciuto la calligrafia.
Era della sua sarta, madama Vollini, che due volte all'anno faceva un giro nel Veneto per raccogliere le commissioni delle sue clienti, ma che quest'autunno doveva rinunziare al suo viaggio per cagione di salute. Un parto precoce l'aveva ridotta in fin di vita, e il suo dottore, il celebre ostetrico Boni, che l'aveva salvata per miracolo, le imponeva per qualche mese ancora i maggiori riguardi. Siccome però non l'era proibito d'occuparsi del suo laboratorio, ella si raccomandava alle signore le quali l'onoravano del loro patrocinio, affinchè volessero farle avere a Milano i loro ordini ch'ell'avrebbe eseguiti con puntualità ed esattezza. Annunziava l'invio di un pacco di campioni coi prezzi ristretti, e con gli ultimi figurini di Parigi.
- Vedremo - disse la Valdengo con indifferenza.
E si decise a leggere la lettera del conte Mario. Chi sa! Forse qualche indiscrezione l'aveva raggiunto laggiù; forse egli era già informato di tutto.
No, non era così, o almeno non appariva così, benchè la lettera avesse un'intonazione più grave, più malinconica del solito. Era in Olanda adesso, il conte Mario, e prolungava di poco la sua assenza per visitare un paese che non conosceva ancora. Ma chi gli spiegava la strana contraddizione? Non aveva provato mai come questa volta il senso doloroso della nostalgia, e mai come questa volta s'era indugiato lungo il cammino. Il cuore lo richiamava indietro e una incomprensibile forza d'inerzia lo spingeva avanti. Era il presentimento che fosse quello l'ultimo viaggio di qualche importanza ch'egli avrebbe fatto? Era la sciocca, singolare pretesa di ricever dall'amica un biglietto, un dispaccio che gli dicesse: - «Affrettate il vostro ritorno. Ho bisogno di voi»? - E perchè doveva ella aver bisogno di lui, ella che sapeva così bene regolarsi da sè? A ogni modo, circa al 20 di novembre egli sarebbe stato in Italia, e l'avrebbe vista a Venezia o nella sua villa di Mogliano. Non erano ancora terminati i ristauri della villa? E il suo raccomandato non era ancora partito?... Vergalli concludeva, secondo il suo costume: - «Ricordatevi che sono sempre a vostra disposizione, sempre alla portata di un telegramma».
- Povero amico! - sospirò la Teresa ripiegando il foglio e posandolo sul comodino.
Si alzò, si vestì, si pettinò da sola. Avvicinandosi alla finestra, sollevò alquanto la tenda, e guardò nel bacino della laguna, a sinistra, dalla parte dov'era ancorato il Colombo. Un vapore mercantile inglese ne aveva preso il posto. Uno sciame di gabbiani, segno di cattivo tempo, svolazzava, stridendo, sull'acqua.
- Eran proprio l'ultime belle giornate d'autunno - pensò la Teresa. E soggiunse, pure fra sè: - Com'eran gli ultimi lampi della mia giovinezza.
- Domani si va a Mogliano - ella disse.
- Anche se piove? - chiese la cameriera.
- Sì... Staremo poco... Basterà il baule piccolo... Manda tu una cartolina al giardiniere per avvisarlo, e falla impostare prima delle undici... Così la riceverà oggi stesso.
- Con quella delle 10.15.
Ella non partiva già per un desiderio intenso che avesse di goder la campagna; nè quella era più la stagione propizia, nè le condizioni dell'animo suo erano tali da goderne; non partiva neanche con l'idea d'avere una maggiore libertà; chè anzi, in quel periodo dell'anno, coi villeggianti che c'erano tuttora, le sarebbe stato difficile esimersi dal veder qualcheduno; partiva per mutar luoghi e abitudini, per mettere un intervallo di pochi giorni fra la sua vita turbinosa delle ultime settimane e la vita quieta, onesta, raccolta ch'ella sperava ricominciare più tardi. Ora, nemmeno volendo, avrebbe potuto. La sua disgraziata intimità con Guido di Reana, pur non togliendole mai la netta visione dell'abisso in cui ella precipitava, l'aveva assorbita tutta quanta, e il suo tempo era stato diviso fra il desiderare o temere il suo amante, il maledire al destino che lo aveva posto sulla sua via, e il meravigliarsi dolorosamente della propria debolezza. E adesso, prima ancora di provarvisi, ella sentiva che avrebbe fatto opera vana a tentar di riprender le sue letture, la sua musica, i suoi ricami al punto in cui li aveva interrotti. Meglio occuparsi de' suoi fiori, delle sue galline, de' pesci d'oro che guizzavano nel laghetto della sua villa... Sì, sì, meglio recarsi a Mogliano, anche a costo di dover ricevere e ricambiare una mezza dozzina di visite uggiose.
Di questa sua tarda andata in campagna, la Teresa avvisò il giorno stesso Vergalli, senza però dirgliene le ragioni intime. Avrebbe passato alla villa un paio di settimane al massimo; sarebbe arrivata in città probabilmente prima di lui. E si faceva una festa all'idea di rivederlo e di sentirsi raccontare il suo viaggio. Dell'intonazione malinconica che c'era nella lettera dell'amico ella finse di non accorgersi; circa a di Reana, dopo aver molto studiato la frase, si limitò a dire ch'era partito. Risoluta ad un'ampia confessione quando Vergalli fosse a Venezia, aveva una ripugnanza invincibile a fermarsi per iscritto sullo scabroso argomento. Ond'ella, per solito così piena d'abbandono nella sua corrispondenza col conte Mario, fu questa volta breve e guardinga, e n'ebbe dispetto per sè e dolore per lui. Ma non c'era modo di fare altrimenti.
La giornata le trascorse più rapida ch'ella non avesse creduto. Prima di pranzo venne a trovarla, in compagnia con la madre, una ragazza di ristrette fortune a cui ella pagava le lezioni di pianoforte di un professore di grido affinchè potesse svolgere le sue rare attitudini musicali.
Sempre cortese, specie con gli umili, ella accolse benissimo le due donne.
- Quanto tempo che non vi vedo!
- Ma... - rispose un po' impacciata la madre - veramente... eravamo state ancora... Lei non c'era... Non glielo hanno riferito?
- Sì, sì... mi ricordo... Potevate ripassare.
- Si temeva di disturbare - soggiunse l'altra. E si morse il labbro, pentita d'aver detto troppo.
La Teresa arrossì lievemente e si rivolse alla ragazza: - Dunque, Marcella, come va questa musica?
- Così... Il professore non è scontento..
La mamma, loquace, inframmettente, giudicò eccessiva la modestia della figliuola.
- Eh via, con la signora alla quale si deve tanto non c'è ragione di nasconder la verità... Arcicontento è il professore...
- Sicuro... E spera che la Marcella possa prodursi quest'inverno in uno dei concerti del Liceo.
- Verremo a batterti le mani - esclamò la Valdengo.
- Oh... signora... - balbettò la Marcella colorandosi in viso. - Non so mica se avrò il coraggio di espormi al pubblico.
- Bisogna provare - insistè la madre.
- Già - soggiunse la Teresa. - E cosa studi adesso, cara?
- Brava!... Quando sarò tornata dalla campagna... vado in campagna domani per pochi giorni... verrai qui qualche sera, mi farai sentire i tuoi progressi.
- Grazie - disse la giovinetta i cui occhi luccicavano per la contentezza.
- Eh, se non c'era lei! - riprese la madre profondendosi in espressioni di riconoscenza.
- Zitta, zitta - interruppe la Teresa. - È stato un gran piacere per me il secondar le inclinazioni della Marcella, e poichè ella riesce così bene io son compensata ad usura del poco che ho fatto.
Un'altra visita ricevette la Teresa quella sera mentr'era ancora a tavola, la visita di un altro beneficato suo, un giovine studente di matematica, poverissimo, ch'ella e Vergalli mantenevano all'Università. Egli veniva a salutarla prima d'andare a Padova e le portava in dono una sua memoria di geometria superiore sugli spazi a quattro dimensioni, pubblicata negli Atti dell'Istituto Veneto.
- È arabo per me... E c'è anche la dedica?
- È il primo lavoro che stampo... Dovevo offrirglielo... Lo accetta?
- Ma figurati... Lo accetto con gratitudine e con quella deferenza umile che si ha per le cose che non si capiscono... Ma perchè stai ritto?... Accomodati, via.
Massimo Scilla (era il nome del giovine) sedette timidamente sull'orlo di un divano, nell'ombra, in fondo alla stanza.
- Non laggiù... ti vedo appena... Qui, accanto alla tavola, su quella sedia.
Massimo ubbidì. Era goffo, impacciato, di persona esile, di lineamenti irregolari; solo gli occhi piccoli e neri brillavano a tratti d'una luce intensa.
La Teresa lo inanimiva a parlare.
- Nessuna... Il babbo sempre infermo... la mamma lavora... lavora...
- E le tue sorelline?
- La grande è in pratica presso una sarta; la mezzana farà gli esami di telegrafista; le due piccole frequentano la scuola...
- E tu studi giorno e notte, senza una distrazione al mondo?
- Oh lo studio mi diverte... Do anche delle ripetizioni... Guai se non aiutassi la famiglia...
- Sei così giovine!
- Non tanto... Si ricorderà forse che da ragazzo ero malato ogni momento... Ho perduto del tempo per questo... Oh ce ne sono di assai più giovani di me nella mia classe.
- Ma quanti anni hai?
- Ventidue.
- Prenderò la laurea nell'autunno prossimo.
- Vedi che non hai rimorsi... E poi concorrerai a una cattedra...
- Il meglio sarebbe avere un posto d'assistente all'Università... Riesce allora più facile di entrar nell'insegnamento superiore... Ma... bisognerà invece contentarsi d'insegnare in un ginnasio o in una scuola tecnica... chi sa dove... Se fosse in una grande città, pazienza; lì ci sono i mezzi da studiare...
Discorrendo di studi, Massimo Scilla si riscaldava, diventava eloquente...
- Ha ventidue anni - pensava la Teresa - l'età di Guido di Reana. E sembra quasi un fanciullo, e lo tratto come un fanciullo, e gli do del tu, ed egli mi parla come parlerebbe a sua madre, e non gli vien neanche l'idea di poter parlarmi altrimenti... Che sorriso beffardo avrebbe Guido sul labbro se fosse qui adesso, se vedesse Scilla seduto al posto ch'egli occupava iersera; con che aria di superiorità guarderebbe lo studentino povero, brutto, inelegante, condannato a lottare per vivere; egli per cui la vita è una festa, egli bello, e nobile, e ricco! Eppure, chi dei due vale di più? Chi ha maggior probabilità che il suo nome sia rammentato un giorno con riverenza e con simpatia?
Massimo Scilla si alzò per accommiatarsi. Ma prima chiese alla Teresa l'indirizzo del conte Mario.
- Per una settimana all'Aia, ferma in posta - ella rispose. - Vuoi spedirgli la tua memoria?
- Appunto.
- Gli farai un piacere... Egli s'interessa a te...
- È così buono.
- Molto buono... E lui la capisce la matematica?
- Altro che capirla!... Capisce tutto.
- Non c'è dubbio, è un brav'uomo - soggiunse la Valdengo. - Addio dunque, Massimo. E arrivederci... Non far così il prezioso... torna presto... Fra qualche settimana sarà a Venezia anche il conte... Spesso è da me la sera... Tu già non sei mica a Padova sempre...
- La festa son qui... per la mamma.
- E poi ci son tante vacanze!... Siamo intesi allora. Arrivederci...
Gli stese la mano ch'egli baciò.
Rimasta sola, ell'accarezzò per un istante la speranza di obliare e di far obliare il suo fallo circondandosi di creature semplici e buone che accettassero i suoi benefizi.