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Enrico Castelnuovo
Il fallo d'una donna onesta

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XXVII.

 

- È stato il conte - disse la cameriera dal pianerottolo.

- Quando?

- Mezz'ora fa, e si mostrò molto dispiacente di non averla trovata.

- Ha lasciato detto nulla?

- Che tornerà verso il tocco.

- Bene. Badate che, tranne il conte, non ricevo altri in tutta la giornata.

- Nemmeno suo zio, se venisse...?

- Nemmeno. Parlo chiaro. Nessuno.... E che non accada come ieri.

- La contessa Orfei volle a tutti i costi....

- Non avrebbe già sforzato la porta.... Del resto, è inutile tornar sulle cose vecchie.... C'è posta?

- Un giornale e una lettera.... di là, sulla scrivania.

Quantunque i vestiti le dessero noia ed ella non vedesse l'ora di mettersi un po' in libertà, la Teresa entrò nel suo salottino senza neanche levarsi il cappello. La lettera era lì, sopra il giornale. Portava il bollo di Porto Said.

- Ha bisogno di me? - chiese la Luisa che aveva seguito la sua padrona.

- No, chiamerò.

Quella lettera doveva arrivare. Pur non confessandolo, la Teresa l'aspettava; non per mutare o raffermare la sua determinazione ch'era ormai incrollabile, ma perchè il silenzio di Guido di Reana, dopo i rapporti esistiti tra loro, le sarebbe parso tale un oltraggio da avvelenarle gli ultimi istanti.

Quella lettera doveva arrivare, e la Teresa l'aspettava. Tuttavia nel vederla sul suo tavolino, il sangue le dette un tuffo. Sentì come una voce che le dicesse: - Se ciò che attendevi è giunto, quali ragioni d'indugio avrai più?

Ella ruppe la busta civettuola chiusa da un elegante monogramma, spiegò il foglio profumato di muschio. E s'accinse a leggere, turbata sì, ma non tanto che non le riuscisse di analizzare il suo turbamento, e di non trovarvi, meravigliata, neanche un briciolo d'amore. C'era la vergogna del fallo commesso, c'era la pietà del proprio destino, c'era l'indulgenza, il perdono per chi l'aveva tratta a rovina; amore non ce n'era. Non un palpito del cuore, non una vibrazione dei sensi; nulla. Così lontano le pareva quel tempo e non erano trascorse che poche settimane!

Nè la lettura di ciò che di Reana le scriveva sprigionò una favilla dalle ceneri spente.

Ella si ricordava di alcune parole di lui. - Ti scriverò un fascicolo da Porto Said. - Non erano invece che quattro paginette d'una intonazione sbagliata da cima a fondo. Qua e là una frase inopportuna, un'allusione sguaiata, e, in mezzo all'espressioni sentimentali, romantiche, qualche spiritosità di cattiva lega, qualche motto francese riportato con ortografia malsicura. Non aveva saputo, Guido di Reana, trasfondere nella sua epistola artificiosa nulla della grazia spontanea e dell'ardor giovanile a cui egli era andato debitore dell'insperato trionfo. Anche il tu confidenziale ch'egli doveva pur credersi in diritto d'usare, anche quel tu offendeva la Teresa. Ella pensava alle lettere ch'era avvezza a ricevere da Mario Vergalli, tenere e rispettose ad un tempo, rivelanti un'anima alta e leale, un cuore pieno di gentilezza, un ingegno robusto, nudrito di studi, atto a intender tutte le manifestazioni del bello. Che confronto, Dio buono, che confronto!

Del resto, Guido adduceva due scuse del non scriver più a lungo: le esigenze del servizio che gli avevano impedito di prender la penna in mano durante tutto il viaggio e il desiderio di punir la mammina cattiva che a Porto Said non gli aveva fatto trovar nemmeno una riga. Ora la mammina (due volte Guido ripeteva la parola malaugurata) doveva affrettarsi a inviargli sue notizie a Massaua, ove il Colombo si sarebbe trattenuto circa un mese. Da Massaua naturalmente avrebbe riscritto anch'egli per dir la sua impressione sulla nostra colonia e sulle donne abissine per le quali i suoi compagni mostravano una curiosità indiscreta ed incomprensibile. In quanto a lui aveva troppo impresse nella memoria certe donne bianche per sentir la tentazione delle negre. Di Reana finiva ringraziando la Teresa d'avergli dato una felicità di cui egli non era degno e che non avrebbe dimenticato giammai, e rievocando le memorie dell'ultimo giorno passato insieme. Egli sentiva che, avesse pur vissuto cent'anni, non si sarebbe più rinnovato per lui un giorno simile a quello.

La Teresa ripose silenziosamente la lettera nella busta. L'idea che, nel corso di quella notte, aveva un istante attraversato il suo spirito la faceva sorridere d'un sorriso amaro. Bene in verità ella si sarebbe rivolta a questo ragazzo leggero, sensuale, avido di piaceri, per dirgli: - Bada, caro, la nostra relazione ha avuto conseguenze che tu non t'immaginavi; prendine anche tu la tua parte. - Bene si sarebbe rivolta; bene avrebbe provvisto all'avvenire della creatura che portava in grembo!

Ah no, nemmeno gli avrebbe scritto. Nel suo cassetto, insieme con gli altri ricordi ch'ella lasciava a conoscenti ed amici ce n'era uno per lui, un anello di zaffiro ch'egli aveva ammirato. Era in una piccola scatola suggellata, con l'indirizzo di pugno della Teresa: «Al signor conte Guido di Reana, sottotenente di vascello, a bordo del Cristoforo Colombo.» Mario Vergalli avrebbe avuto la bontà di recapitarlo. Tanti sacrifizi ella aveva chiesto a Mario che osava chiedergliene uno di più.

E ora, infilata ch'ebbe la sua vestaglia e fatto il suo simulacro di colazione, ella stette ad aspettarlo con un'ansietà maggiore dell'usato. Perchè aveva egli quella mattina anticipata la visita quotidiana? Che aveva saputo? Che aveva supposto?


 

 

 




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