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Enrico Castelnuovo
Il fallo d'una donna onesta

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XXIX.

 

Erano le nove di sera. Nonostante le prove fisiche e morali della giornata, nonostante l'imminenza della catastrofe, la Teresa era calma, padrona di sè. Della tempesta, che aveva agitato così fieramente la sua anima nella notte scorsa, non rimaneva la minima traccia; gli ultimi tenui fili che la univano alla vita s'erano spezzati dopo la scena dolorosa con Mario. Non ch'ella gli serbasse rancore; ma nella passione senile di lui ella trovava una ragione di più per morire. Adesso, già da un'ora, ella stava scrivendogli, e vinte le difficoltà dell'esordio la sua penna correva sicura sopra la carta. Quell'esordio diceva così:

 

«Avrei voluto che solo da questa lettera voi apprendeste ciò che non ho ardito confessarvi a voce; avrei voluto che foste l'unico depositario di questa parte del mio segreto; vedo pur troppo che il mio desiderio fu vano; sento che avete indovinato tutto. Me lo dice la vostra improvvisa scomparsa dopo il mio breve malessere d'oggi (e vi ringrazio d'aver mandato a prendere mie notizie); me lo dice il linguaggio pieno di reticenze delle mie donne; le quali, ormai ne son certa, avevano indovinato prima di voi. Ebbene, amico mio, se sapete tutto, avrete già compreso e perdonato il rifiuto che opposi alla vostra offerta. Potevo forse accettare?»

 

Dopo questa introduzione, la Teresa veniva a spiegare i punti della sua condotta che, per forza di cose, erano dovuti rimanere oscuri, e si diffondeva a parlare della sua gita a Milano che prima ell'aveva cercato di nascondere e di cui poi aveva dissimulato il motivo reale. Ah sì, aveva accumulato artifizi e bugie ripugnanti all'indole  sua, e ora, in procinto di abbandonar per sempre la terra, la sua anima cedeva a un bisogno prepotente di verità e di sincerità. Nè si contentava di chiarire i fatti, ma scendeva con spietata analisi dentro sè stessa, studiando le deficienze del suo organismo morale ch'ella aveva avuto il torto di creder sano ed equilibrato. Sana ed equilibrata lei, ch'era caduta quasi senza lotta, nè dopo la dedizione repentina e umiliante aveva trovato l'energia di rialzarsi! Sana ed equilibrata lei che, per quanto avesse scrutato nel proprio cuore, non vi aveva mai scoperto quella fiamma divoratrice che avrebbe potuto attenuar la sua colpa; che oggi, pensando al suo seduttore, non provava nè amore, nè odio, nessuno di quei sentimenti che nelle nature logiche e vigorose sopravvivono alle grandi passioni? Ah, se il caso fosse toccato ad un'altra, quanto volentieri ne avrebbe parlato con lui, col suo sereno filosofo!... Ma ora ella capiva la vanità dei nostri giudizi. Come giudicare senza conoscere, e come pretendere di conoscer gli altri, se ognuno di noi riserba a sè medesimo così strane sorprese? Ecco, anche oggi, guardandosi intorno, le pareva di vedere una corruzione molto maggior della sua, le pareva ingiustizia suprema l'essere schiacciata sotto il peso d'un unico fallo, mentre il vizio cinico e impudente correva le piazze e trionfava nei salotti eleganti. Pur la fiera protesta le si spegneva sul labbro nell'incertezza delle leggi che regolano le azioni umane e del grado di responsabilità che incombe a ciascuno. Solo una cosa ella credeva di aver imparato, oimè troppo tardi. La donna scelga la sua via. Se ha scelto quella dell'onestà, sappia che deve percorrerla sino in fondo, senza un'esitazione, senza una titubanza. Al suo primo scappuccio non s'aspetti misericordia. È lei, la donna onesta, che sarà chiamata a pagare anche per quelle che non sono tali.

Proseguendo nella sua lettera, la Teresa esponeva le ragioni che la spingevano a morire. Vergalli non l'avrebbe condannata, egli che tante volte aveva compatito con lei ad altri suicidi, egli che aveva mostrato comprendere come vi possano esser momenti in cui al più coraggioso degli uomini manchi la forza di vivere. Ed ella diceva che sarebbe morta prima, appena inteso il verdetto del medico milanese, se non avesse voluto metter ordine alle sue faccende e riveder l'amico buono e fidato ch'ella aveva offeso e che meritava di ricevere il suo atto supremo di contrizione. Indi, accennando ai loro recenti colloqui, ella ricercava le cause che avevono impedito la pienezza delle sue confidenze. Piccole cause che non avrebbero dovuto farla deviare dal suo cammino; ma basta sì poco a gelar talvolta una parola sul labbro, ad arrestare uno slancio del cuore! Ed ella gliene chiedeva perdono; gli chiedeva perdono dei malintesi che una sua maggiore franchezza avrebbe certo evitati. Tanto le premeva di non offendere, di non ferir Mario Vergalli che quasi accusava sè della scena penosa d'oggi! Nè gli disse, troppo egli ne avrebbe sofferto, che s'egli fosse tornato da lei come amico e non altro, egli forse, egli solo avrebbe potuto salvarla....

Non glielo disse; nell'ultima parte della lettera riassunse, completò, illustrò il suo testamento, specificando quelle disposizioni che ella desiderava rimanessero segrete fra loro due, scusandosi di non averlo esonerato nemmeno dall'incarico,  che doveva riuscirgli sì grave, di far pervenire un suo ricordo a Guido di Reana. E la Teresa conchiudeva in questi termini:

 

«Addio, Mario. Non vi dico di dimenticarmi. Nonostante il male che vi ho fatto, vi dico piuttosto: Ricordatemi senz'amarezza. Pensate a me come a una povera donna a cui è mancato qualche cosa per esser felice e per render felici le persone che amava. E non vi lasciate abbattere nè dalla memoria dei torti patiti, nè dal dolore che vi darà la mia morte. Non siete giovine più, ma le abitudini austere hanno conservato intatta la vigoria del vostro corpo e del vostro spirito; il libro della vita non ha svolto per voi tutte le sue pagine; potete chiederne e sperarne altre consolazioni; dallo studio, dal lavoro.... forse dalla famiglia.... forse da nuovi affetti....

Addio, Mario. Confido, che se pur avete deciso di partire, domattina sarete ancora a Venezia, e la mia lettera potrà esservi recapitata prontamente.... Consacratemi poche ore.... le ultime.... Difendete il mio cadavere dalle curiosità indiscrete.... Procurate ch'io sia sepolta nella veste che ho addosso; cercate di ottenere dai giornali, se non il silenzio circa al mio suicidio, almeno un riserbo pietoso circa ai motivi che lo hanno determinato; cercate (e non vi strappi un sorriso di compassione la mia debolezza) che la mia bara non sia respinta dalla chiesa della mia parrocchia.... Grazie, Mario.... E addio.... e perdonatemi.

 

Teresa.»

 

Poich'ebbe riletto il foglio da capo a fondo, lo piegò e lo chiuse entro una busta. Ma mentre stava scrivendone l'indirizzo, la scosse una scampanellata alla porta di strada. Ell'aveva dato ordini precisi, assoluti; non riceveva nessuno: nè lo zio Venosti, nè il conte Vergalli, nè la Giulia Orfei, nessuno insomma; ed era naturale che quegli ordini, dati il giorno, dovessero aver maggiore efficacia la sera; tanto più che alle sette e mezzo, nel congedar la Luisa, ell'aveva soggiunto che sarebbe andata a letto presto, da sola, secondo la sua consuetudine. Checchè le fosse occorso, avrebbe chiamato.

Tuttavia, alla scampanellata, la Teresa nascose rapidamente la lettera nella cartella ove c'era anche il testamento, e riparò nella sua camera come in un rifugio più intimo ed inviolabile. Ivi, posata la candela sul comodino, tese l'orecchio e stette in ascolto.

Certo qualcheduno aveva salito la scala, era di là, in conferenza con la Luisa. Chi poteva essere? Il servitore di Mario che per la terza volta veniva a informarsi della sua salute? O Mario stesso, portato da una forza irresistibile alla casa dell'amica? O era invece un'ambasciata indifferente di cui ell'avrebbe riso domani, se il domani fosse esistito per lei?

In quella sospensione dell'animo, la Teresa provava una specie d'impazienza nervosa contro l'ignoto, chiunque fosse e fosse pur Mario, che turbava la quiete di quegl'istanti solenni.

Senonchè, ad un tratto, i suoni fino allora piuttosto indovinati che percepiti si fecero chiari e distinti; ella sentì veramente dei passi, delle voci rattenute e sommesse, sentì picchiare all'uscio del salottino verde. Con una decisione subitanea ella spense la candela e si gettò sul letto.

Una persona era entrata nel salottino e s'avvicinava guardinga; una mano girò adagio adagio la gruccia nell'uscio. Irrigidita in uno sforzo supremo, la Teresa non gridò, non si mosse, e riuscendo con la volontà a disciplinar perfino i battiti tumultuosi del cuore parve respirar come uno che dorme.

- Dorme - disse in fatti una voce. Era quella della Luisa, e sembrava rivolta ad uno che fosse lì ad attendere risposta. I battenti dell'uscio,  come s'erano aperti pian piano, pian piano si riaccostarono. Ma un'altra voce, una voce d'uomo cognita e cara, giunse all'orecchio della Teresa. - Se dorme, lasciatela tranquilla.... Pur che domattina, appena si sveglia, abbia questo biglietto.

- Non dubiti, signor conte - rispondeva la cameriera. - Glielo porterò io stessa.

- Va bene. Lo metto qui sulla scrivania.

I passi, lievi lievi, si allontanarono; gli usci si chiusero; si chiuse, di lì a pochi secondi, la porta di strada. Allorchè tutto fu tornato nel silenzio, la Teresa riaccese il lume e balzò dal letto. Le gambe le tremavano, un sudor freddo le gocciolava giù per la fronte; ella potè nondimeno trascinarsi nel suo salottino. Sotto un calcafogli, sulla cartella ov'ella aveva pur dianzi riposta la sua lettera, c'era il bigliettino di Mario Vergalli. Che voleva egli ancora da lei?


 

 

 




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