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Giovanni Battista Casti
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CANTO VIGESIMOSECONDO

 

TRONO VACANTE E FUNERALI DI LION SECONDO

 

Voi, che ascoltate i bellici furori,

la crudel guerra e le battaglie strane

di cui prime cagioni e instigatori

la Lionessa fur, la Volpe e il Cane,

onde le bestie dell'età vetuste

van di gloria immortal superbe e onuste;

 

voi, valorosi eroi dei nostri tempi,

che grande avete in sen l'anima e il core,

non sentite infiammarvi a tali esempi

di nobil, generoso, emulo ardore,

la brutal gloria ad oscurar con belle

inclite geste, e anche maggior di quelle?

 

Non vi sovvien con qual valore il brando

in altri tempi strinsero e la lancia

Mandricardo, Ruggier, Rinaldo, Orlando

e gli altri savi paladin di Francia?

Non ebber per model quei gran campioni

le tigri, le pantere ed i Lioni?

 

Coraggio dunque, o prodi, il campo è aperto;

pur troppo avete occasion frequenti

d'acquistar lode eterna, eterno merto,

al par di quei brutali combattenti:

sempre in sì belle imprese i vostri sdegni

titoli avran forti egualmente e degni.

 

E quai? chiedete; audace questione!

Di tai cose l'esame a voi non spetta;

colla giustizia a voi, colla ragione

la communicazion resta interdetta:

esse son del dispota ai veri servi

chimere, biliorse ed ircocervi.

 

Poichè d'esaminar credersi in dritto

imperscrutabil sacro ordine regio,

egli è di lesa maestà delitto;

il grande degli eroi, l'unico pregio

è di prestar, del despota alla voce,

mutola servitù, cieca e feroce.

 

Sieno vostri prototipi e modelli

le antiche bestie: voi pur anche avete

Lioni, Lionesse e Lioncelli,

can, Tigri, Volpi a cui servir dovete;

gli stessi ognor spettacoli di gloria

offre l'umana e la brutale istoria.

 

E perchè ad infiammarvi ancor più vaglia

l'esempio delle animalesche armate,

vo' ricondurvi al campo di battaglia;

poichè so ben che voi saper bramate

l'esito di quell'orrida contesa

che poc'anzi lasciammo ancor sospesa.

 

Poichè ebbe del Tapir saputo il caso,

vien l'Elefante sull'infausto loco;

le lacrime parean giù pel gran naso

cascatelle di Tivoli, a dir poco;

e sparando un sospir sì violento

da far andar anche un molino a vento:

 

O mio Tap... cominciò per ben due volte;

e per dolor non potea dir Tapiro:

tutte avendo le forze alfin raccolte,

e dato al suo cordoglio alcun respiro:

O mio Tapiro, o mio Tapiro esclama

odi, o Tapir, l'amico tuo ti chiama.

 

Deh, rispondi... ah perchè squallida e floscia

veggio cotesta tua già fresca guancia?

Chi fu colui che ti sgraffiò la coscia?

Chi fu il crudel che ti squarciò la pancia?

Parla, o Tapir, per quanto amor ti porto:

saresti tu per avventura morto?

 

Ah se morto tu sei, dillo, e vedrai

qual vendetta farò del tuo nemico:

parlarne anche nell'erebo udirai,

sì, te lo giura il tuo fedel amico,

s'egli del Gran Cucù fosse anche in braccio,

trarnel saprò; ciò che dich'io, lo faccio.

 

Così col morto delirando gia:

poscia in mezzo all'esercito si getta;

di qua e di là il trombon mena per via

per far la memorabile vendetta;

ma da ogni parte lo circonda un grosso

stuol nemico, gridando: addosso, addosso.

 

E l'Elefante intrepido sul campo

agilità con gagliardia compensa;

nè schermo lascia all'inimico, o scampo

dai colpi orrendi e dalla forza immensa;

e bestie schiaccia e stritola a migliaia,

come biade il villan trebbia sull'aja.

 

Tutta conficca all'Orso bianco, mentre

sotto gli vien per ischivar la tromba,

la zanna irresistibile nel ventre;

indi sul nero Lupo a un tratto piomba,

e alto colla proboscide l'inalza,

poi lungi quattro pertiche lo sbalza.

 

Stavasi a riguardar la gran battaglia

il Lioncino in eminente loco,

e l'Elefante in osservar che scaglia

la tromba sua, credè che fosse un gioco;

necessario è per lui ch'egli discenda

più d'appresso a osservar quella faccenda.

 

Il Bufalo e il Caval dissuaderlo

tentaron dall'esporsi a quel periglio,

ma possibil non fu di ritenerlo,

e ragioni non valsero o consiglio;

più facilmente un masso od una roccia

smuover potrai, che un re quando s'incoccia.

 

E quando alfin l'ora fatale è giunta,

forza, ingegno non val, non vaglion preghi;

contro il destin la non si vince e spunta,

e tutto sotto lui forza è che pieghi:

e ben lo seppe il Lioncin per prova,

ch'esser matto o esser re nulla gli giova.

 

Ma l'ostinata volontà dei regi,

che spesso fa perir tanti e poi tanti,

e par che si compiaccia e che si pregi

moltiplicar calamitadi e pianti,

giust'è che quella volontà talora

castigo sia pei regi stessi ancora.

 

Il Lioncin, benchè sbilenco e zoppo,

scende dal colle capitombolando,

e per mezzo ai guerrier va di galoppo;

Ferma, i custodi lo seguian gridando,

fermati, principino, ah tu non sai,

misero principino, ove tu vai!

 

E seguian: principino, principino;

ma quei non bada e alle lor voci è sordo,

e corre ove lo tragge il suo destino;

e il Bufalo e il Caval furon d'accordo

che, per quanto s'adopri arte ed ingegno,

aver pazzi in custodia è un arduo impegno.

 

Quando fra lor lo videro venire,

i combattenti suoi preser coraggio,

alzaro un grido e raddoppiar l'ardire,

ed ebbero un momento di vantaggio;

non bada ei, nè s'arresta in fin ch'in faccia

non fu di quella antireal bestiaccia.

 

Stupido allor di quel bestione informe

l'immensa contemplò massa di carne,

e scagliar la gran tromba, e strage enorme

vede far di sue bestie, e altre schiacciarne,

altre in aria balzar o gettar lunge,

e far gran piazza ove a percuoter giunge.

 

Di lui non s'era l'Elefante avvisto;

ma se ne avvide ben allor che correre

il Bufalo e il Cavallo e un stuol ha visto

lo sconsigliato principe a soccorrere;

e il decisivo far gran colpo volle,

pria che altri venga a tor di là quel folle.

 

La promessa vendetta allor rammenta,

e il suo Tapir, l'amico suo perduto:

Questa illustre dicea che or si presenta

vittima volontaria, a cui d'ajuto

esser più non potrà chirurgo o medico,

a te, o Tapiro, a te consacro e dedico.

 

La tromba, in questo dir, contro gli slancia

rapida sì, che previen fuga o salto;

e con essa ghermendolo alla pancia,

lo trasse a se, poi lo balzò tant'alto,

che l'armata reale e l'avversaria

videro entrambe il principino in aria.

 

Crepa, al suol ricadendo, e si sfracella

al fiero colpo il regio bestiuolino,

e gli schizzano fuori le budella;

e non fu che un trastullo, un giuocolino,

di quel gran vol, di quel gran tonfo a fronte,

d'Icaro la caduta e di Fetonte.

 

A terra cadde il principino appena,

che l'Elefante ver colà s'è mosso;

e tor d'in sulla sanguinosa arena,

ed agli accampamenti ei vuol sul dosso

quell'insigne portar trofeo di gloria,

in testimon dell'immortal vittoria.

 

Ma di là trasportar ei non potrallo

impunemente, e senza grave impegno,

poichè gli vieta il Bufalo e il Cavallo

di dar facile effetto al suo disegno;

e di fere a uno stuol che corser pronte,

unissi il capitan Rinoceronte.

 

Questi fagli col corno in corpo un buco,

per l'orecchia un robusto Orso l'attacca,

un Cinghial per metà lo rende eunuco,

il Cavallo con calci il cul gli ammacca;

e un gran cozzo del Bufalo in quel mentre

gli sprofonda tre costole nel ventre.

 

Quel bestion contro la turba infesta

qua e là mena la tromba poderosa,

e altri fere, altri uccide, altri calpesta;

pur alla lunga ella è difficil cosa,

malgrado il gran coraggio e la gran possa,

che contro tanti un sol resister possa.

 

Ma per ventura sua venne in aiuto

il Gran Mammut, ed altre bestie grosse

di genere da noi non conosciuto;

onde, quantunque pei gran colpi ha l'osse

indolenzite e peste, alfin poteo

rapir e via portarsi il gran trofeo.

 

Urli allora innalzar le armate entrambe,

chi di vittoria in segno, e chi di lutto;

l'esercito real diessela a gambe

per lo spavento, e sbaragliossi tutto;

e abbandonando di battaglia il campo,

sol colla fuga ricercò lo scampo.

 

Accorre la Pantera, che da lunge

vede la schiera sua che si sparpaglia;

ma d'altra parte a un tempo stesso giunge

la Tigre, e la rival sfida a battaglia,

che giunto erale già l'infausto avviso

che da colei fu l'Ippelafo ucciso.

 

Eran nemiche, eran d'amor rivali,

ambe avide di sangue e di vendetta,

ambe per grado e per orgoglio eguali;

il fiero invito la Pantera accetta,

corronsi incontro, e con insulti ed onte

trovansi già le due rivali a fronte.

 

Ad ambe per furor fuman le nari,

e scintillando arde negli occhi il foco:

l'ignobil truppa ed i guerrier gregari

son spinti indietro, ed ampiamente il loco

sgombra la folla intorno, e all'urto cesse,

e diè il campo alle due Generalesse.

 

Quell'atroce conflitto e furibondo

descriver non potria coi carmi suoi

Omero stesso, se tornasse al mondo,

e quanti furon vati e prima e poi:

i sgraffi, i morsi ed i superbi sdegni,

di sì grandi eroine eran ben degni.

 

Ma dagli spettator fu preveduto

che, se ancor quel duello iva alla lunga,

soccomber la Pantera avria dovuto;

che se una volta ad afferrar la giunga

la Tigre, e l'unghia addosso poi le mette,

è sbrigato l'affar: ne fa polpette.

 

Perciò il Gran Rocco, augel straordinario,

la Pantera salvar da quel periglio

volle, come alleato ed ausiliario;

aleggia e ronza; e or mena il forte artiglio,

or col robusto rostro un morso appicca,

finchè fra i combattenti alfin si ficca.

 

E il parapetto ognor dell'ampie penne

opponendo a color, quel memorando

fiero conflitto a separar pervenne;

mentre spinta, ondeggiante, urtata, urtando,

dentro il torrente suo la folta schiera

trasse seco la Tigre e la Pantera.

 

Volgesi a inferocir la Tigre altrove,

e la giornata a suo favor decide:

altro allor che scompiglio in ogni dove,

altro che strage e orror più non si vide;

e la vittoria alfin, di sangue sporca,

sull'oste antireal posa e si corca.

 

Maraviglie quel dì fece la Tigre;

la Giraffa per lei rimase estinta;

le più ostinate schiere e a fuggir pigre

sbranò, distrusse; e se abbattuta e vinta

la Pantera non fu nel gran duello,

sol lo dovette all'alleato uccello.

 

Rotta l'oste real fugge e si spande

per la campagna e per li boschi attorno;

l'insegue e incalza inferocito, e grande

eccidio fanne il vincitor; ma il giorno

già cade, e già su quelle stragi orrende

il tenebroso vel la notte stende.

 

Quanto duce può far savio e valente,

fe' la Pantera ed il Rinoceronte:

ma chi può ritenere ampio torrente

che rapido precipita dal monte,

tumido d'acqua, e rompe argine e sponda

e impetuosamente i campi inonda?

 

Pur, come in casi tai possibil era,

i resti dell'esercito raccolsero,

e a caso rammassatane una schiera,

verso la reggia i passi lor rivolsero:

pei rumor vaghi era la reggia afflitta

colà precorsi della gran sconfitta.

 

Quantunque notte fosse, e notte oscura,

la regina, inquieta e sospettosa

che accaduta non sia qualche sventura

che a lei forse tener vogliasi ascosa,

fuor della reggia con furor si scaglia,

l'esito per saper della battaglia.

 

E un calpestio non lungi, e un tafferuglio,

e di confuse voci un suono udiva,

che fra l'ombre facea quel rimasuglio

dell'armata battuta e fuggitiva.

S'avanza alquanto, e un par di bestie vede

che un drappello in disordine precede.

 

Era il Rinoceronte, il qual s'appressa

colla Pantera ad informar del fatto

sua brutal maestà la Lionessa;

qualmente, oltre l'esercito disfatto

degli animali Eroi, passò all'Eliso

l'ombra real del principino ucciso.

 

Nè ad arida materia combustibile

rapida mai così fiamma s'apprese,

come quella real fera terribile

di rabbia a un tratto e di furor s'accese;

volse uno sguardo torbido alla Volpe,

e tutte a lei ne attribuì le colpe.

 

Contro se le avventò per isbranarla,

e in lei la morte vendicar del figlio;

ma tutti allora accorsi per sottrarla

da quell'imminentissimo periglio,

l'infuriata fera a forza e a stenti

ricondusser ne' regj appartamenti.

 

L'afflitta madre intanto il figlio chiama

con querele da gemiti interrotte:

Oh Lioncino! oh Lioncino! esclama;

e, nell'orror di quella tetra notte,

d'urli, di strida e di querele tronche

le regie rimbombar cupe spelonche.

 

Molti ingegnosi ed utili animali

nella terribilissima battaglia

vittime fur di quei furor brutali,

ma del destino lor non v'è cui caglia;

sol l'adorabil Lioncino infranto

il gemito comun riscuote e il pianto.

 

I vari casi delle bestie morte

s'udian però con stoica freddezza;

parlarsene solea sovente in Corte,

che per tai cose a non turbarsi è avvezza,

come in oggi parliam di qualche usanza

di cuocere e condire una pietanza.

 

Si dicea per esempio che la Iena,

morsa dal Boachira, a un tratto avea

contratto la mortifera cancrena:

E si sa ben, un altro soggiungea,

che opera quel velen su questo gusto,

e in caso tal, ch'ella crepasse è giusto.

 

Per altro della Iena la sventura

non molto in general fu deplorata,

poichè passò per bestia rozza e dura,

e, su tutto, malissimo educata;

ch'era ferocia sol tutto il suo buono,

nè mai di Corte appreso avea il buon tuono.

 

In quanto al maggiordom, dal Boa schiacciato,

il caso suo facea morir di risa;

Ben volentieri io mi sarei trovato

a vederlo schiacciar in simil guisa

dicea talun; un maggiordom rimaso

sotto strettojo tal, certo è un bel caso!

 

Perito era il Castor, regio architetto,

che, d'industre meccanica fornito,

qual quartier mastro ed ingegner perfetto,

l'esercito reale avea seguito;

talento raro, a cui l'egual non trovi

fra i meccanici ingegni antichi e nuovi.

 

Ma perchè appunto egli riposto venne

nella classe dei dotti e degli artisti,

appena alcun di lui si risovvenne;

non v'è ch'il pianga, o chi di lui s'attristi,

quasi altier cortigian si degradasse

compiangendo animal di quella classe.

 

Della Giraffa pur talun si duole

che nella pugna estinta sia, non mica

per merti suoi, ma per la sua gran mole;

che in quella Corte, d'apparenze amica,

animal cortigian non conta e scerne

ch'esterni pregi e qualitadi esterne.

 

Del Lioncin parlava sol la Corte,

e con lugubre gemito uniforme

ne compiangea la dolorosa sorte;

pur egli era un bestiuol sciocco e deforme,

sicchè qualunque trivial plebea

bestia assai più del principin valea.

 

Ma le bestie d'allor ogni gran pregio

che di Corte non sia, con vilipendio

use a guardar, credean che un ente regio

d'ogni perfezion fosse il compendio;

e che aborto perfin di real seme

valesse più che tutti i merti insieme.

 

Sì luminose e sì sublimi idee

passar di bestia in bestia infino a noi,

e fralle nazioni Europee

s'adottaron dal volgo e dagli eroi;

onde la nostra età su sì gran punto

alle bestie d'allor non cede punto.

 

E sappiam che un cert'acido sottile

sublima nei gran principi e depura

qualunque qualità più bassa e vile,

o virulenta infezion impura,

che insinuata per malor si fosse

o nel sangue dei principi, o nell'osse.

 

Quindi, chiunque un'oncia ha di giudizio,

chiaro comprende la ragion per cui

virtù è nel prence ciò che in altri è vizio;

e ogni bruttura, ogni sporcizia in lui

pura divien, come il vapor, che ascende

alla sfera degli astri, astro si rende.

 

Pur taluni fra se dicean bel bello:

Prence che spinger può per suo sollazzo

gli amatissimi sudditi al macello,

s'espon se stesso, esser non può che un pazzo;

chi va fra gli uccisor, se ucciso viene,

non ha di che lagnarsi, e gli sta bene.

 

Le bestie anch'esse del partito opposto

negli antri s'intanar con muso afflitto,

che la vittoria a troppo caro costo

avean comprata in quel fatal conflitto;

troppe di lor restar ferite e uccise;

onde se Affrica pianse, Asia non rise.

 

Pur da entrambe le parti al Gran Cucù,

di grazie in rendimento, a pieno coro

per tai casi usual cantato fu

cert'inno famosissimo tra loro,

che se a memoria ben me lo richiamo,

incominciò: Te, Gran Cucù, lodiamo.

 

Poichè pei fori delle regie grotte

incominciò la luce a comparire

e a dissipar la tenebrosa notte,

fe' la regina a se l'Asin venire;

sul muso un guardo tenero gli fisse,

e in tuon compassionevole gli disse:

 

O dolce amico, o mio fedel Somaro,

che fra li fidi miei fosti e sarai

(Chi altro esserlo potria?) sempre a me caro,

la dolorosa perdita tu sai

che feci del diletto, unico figlio,

nè tant'uopo ebbi mai del tuo consiglio.

 

Un pensier tetro ed una smania immensa

di terror m'empie, che fra lor rimasto

quel corpicino, ad esecrabil mensa,

orrenda idea! non serva lor di pasto.

Non vano è il mio spavento: ah son cagnazzi;

e beon sangue color, mangian ragazzi.

 

Qui di passaggio ad osservar v'invito

che la Regina in guisa tal s'espresse

per inspirar contro il rival partito

odio ed orror, non già perchè il credesse;

ma la gran moltitudine il credea,

che nè pensar, nè ragionar solea.

 

Finchè colei seguia fra gl'inimici

riman l'amata spoglia, io non ho requie;

a ogni patto i lugubri estremi offici

renderle io vo' con onorate esequie,

se andar dovessi, semplice e sommessa,

a domandarla al vincitore io stessa.

 

E come, o maestà l'Asin rispose

di tal'idea l'assurdità non scerni?

Vuoi tu di vincitrici ed orgogliose

bestie agl'insulti esporti ed agli scherni?

Ed in mezzo al dolor che ti tapina

dimenticasti già d'esser Regina?

 

Ed ella: E dunque vuoi, vuoi dunque ch'io

dei rubelli in balia lasci un augusto

germe di regal seme, un parto mio?

No l'Asino riprese egli è ben giusto

che si redima il prezioso pegno,

ma in convenevol modo e di te degno.

 

L'inspettor di Police in pompa invia

col Gran Cerimoniero all'Elefante;

copia a colui di doni offerta sia,

e renda il corpo dell'estinto infante;

bella regina, in questo mondo i doni

vagliono più che i prieghi e le ragioni.

 

Approvato dell'Asino il parere,

con treno di Cammelli e Dromedari,

fur l'Inspettor e il Gran Cerimoniere

di comestibili esquisiti e rari

scelti a recar, della regina a nome,

a quel gran bestion dodici some.

 

Dei sovrani comandi esecutori

si fer dunque partir la Scimmia e il Gatto,

come straordinari ambasciadori;

traversar denno il campo ove il gran fatto

accadde, per passar di là dal poggio,

ove dell'Elefante era l'alloggio.

 

Erano al tristo loco omai vicini,

quando il cor riempì d'alto spavento

a quei funerei ambasciador becchini

un gemito lugubre ed un lamento,

ed indistinti flebili ululati

di guerrier che traean gli ultimi fiati.

 

Poi giunti sopra alla spietata valle,

vider di bestie lacerate e uccise

e zampe e crani e code e teste e spalle

sparse sul suol dai tronchi lor divise,

e tutta la vallata e la collina

coperta di crudel carnificina.

 

Inorridiro ed arrestaro i passi

a vista di spettacolo sì atroce,

e immobili restaron come sassi,

e parean non più aver moto nè voce;

e sul furor di marte empio e frenetico

più d'un riflesso fer grave e patetico.

 

Oh! se stato foss'io bestia in quei tempi,

e Volpe e Lionessa avrei costrette

a forza di venir su quegli scempi;

e pel collo afferratele ben strette,

spingendo fuor dall'infuocato petto

la fulminante voce, avrei lor detto:

 

Mirate, anime ree, di quanti orrori,

di quante atroci iniquità, di quanti

eccidi siete gli abborriti autori!

e il muso sui cadaveri fumanti

calcando lor, di sangue intriso ed unto,

con rimproveri acerbi avrei soggiunto:

 

Tu che tanta di stragi avesti fame,

tu, che del duol, del pianto altrui godevi,

or di stragi ti pasci, o razza infame;

di sangue avida fosti, e sangue or bevi.

E di Mezenzio imitando il costume,

soffocate le avrei dentro il marciume.

 

Se man potente anche oggi fosse in terra,

che simil trattamento usar potesse

a ciaschedun provocator di guerra,

calamità quanto men gravi e spesse,

ed oh quanto minor massa di mali

opprimerebbe i miseri mortali!

 

Benchè una morte sola, e sia pur dura,

sia tormentosa pur, lieve castigo

fora a chi tante atrocità procura,

piccola pena a gran reato esigo;

poichè supplizio, che di lui sia degno,

non ha d'Averno lo spietato regno.

 

Quindi l'entusiastico Alighiero

giù fra i dannati delle inferne bolge

pon quei che sangue a fiumi scorrer fero,

ove dentro i suoi vortici gl'involge

fiume di sangue, e lungo la riviera

va in ronda di Centauri orrenda schiera;

 

e se talun fuori dell'onda rossa

per bocca il sangue e per le nari sbuffa,

lo stuolo arcier nell'esecrata fossa

a colpi di saette lo rituffa;

nè a fin sì giusto mai da zel più puro

le imaginose idee dirette furo.

 

Poichè la mesta ambasceria rinvenne

dallo spavento e dal pensier profondo

che alcuni istanti estatica la tenne,

entrò nel campo d'atro sangue immondo;

e giunta dove il regio animaletto

crepò, traea caldi sospir dal petto.

 

Qui forse da talun che vuol criterio

ed ingegno mostrar critico e scaltro,

s'opporrà che in un vasto cimiterio,

ove sparsi e confusi un sopra l'altro

i cadaveri son, dir non si può:

qui cadde un tal, là un altro tal crepò.

 

Ma odorato color fine ed egregio,

e fiuto avean sì penetrante e aguzzo,

che distinguean gli effluvi e l'odor regio

in mezzo al general plebejo puzzo;

Ma chi non ha sì sensitivo naso,

esser non può di giudicarne in caso.

 

Oh ch'ella saria pur la bella cosa

se virtù vera esser potesse al fiuto,

senza timor di finzion dolosa,

e il vizio di ciascun riconosciuto!

So che d'idee chimeriche mi pasco;

ma nel dolce delirio ognor ricasco.

 

Di là l'ambasceria dolente e mesta

proseguì taciturna il suo cammino,

e valle traversò, poggio e foresta,

ed alfin giunse all'antro Elefantino:

saputa la ragion che la condusse,

l'annunziò la guardia, e l'introdusse.

 

Il Lionfante stavasi sdraiato

sovra elevato, ampio sofà di paglia,

dai colpi indolenzito e sconquassato

che ricevuti avea nella battaglia:

quattro caritatevoli animali

l'assistean, come è stil negli ospedali.

 

Molcea colla proboscide lo squarcio

che fatto del Cinghial la zanna aveva,

e che già divenia putrido e marcio.

Pur, da quei sostenuto, in piè si leva;

ed alla testa allor dell'ambasciata

la Scimia incominciò la sua parlata.

 

Parlò del caos, dei turbini, dei venti,

parlò del mar, del cielo e della terra,

del freddo, del calor, degli elementi,

e parlò di politica e di guerra;

e questi avendo, ed altri e altri trascorso

temi in quel suo preliminar discorso:

 

Questi doni a te disse offre la grande

quadrupede Regina: i doni prendi,

e, in compenso di cibi e di vivande,

a lei del figlio estinto il corpo rendi.

E alfin conchiude: I doni ch'io ti porto

prendi, che vaglion più d'un corpo morto.

 

E quegli allor: doni io non curo o cerco;

riprendili e riportali pur teco:

i trofei del valor non vendo o merco;

sentimenti sì fatti a onor mi reco;

la carcassa, per cui gran pena darti

tu sembri, eccola là: prendila e parti.

 

E imparate da ciò quanto di voi,

che sì orgogliosi e intolleranti siete,

più generosi e nobili siam noi,

noi, che rubelli e rei chiamar solete,

e d'ogni social qualità privi,

che beviam sangue e divoriamo i vivi.

 

In oscuro canton della spelonca

sotto foglie giacea la salma ancora

del prence estinto sfracellata e cionca;

pronti i quattro assistenti a un cenno allora

dell'Elefante la dissotterraro,

ed agli ambasciador la consegnaro.

 

La consegna accettar gli ambasciadori,

e legalmente rogito ne fero;

poi l'asperser di balsami e d'odori,

e la copriron con un drappo nero;

e come in alto catafalco, addosso

fu posta ad un Cammel robusto e grosso.

 

E mentre il Gran Cerimonier facea

vari lazzi al cadavere d'intorno,

il Gatto col zampin gli occhi tergea;

ed alla reggia poi feron ritorno,

gli offerti doni riportando indietro

col Lioncino estinto in sul feretro.

 

Attorno a cui, per via, divote e pie

mormoravan monotone parole,

che una specie parean di litanie,

come dai nostri monaci si suole:

Cucù, già fu, Cucù, Cucù, chi non è più;

Cucù, salvalo tu, Cucù, Cucù!....

 

Or qui, lettori miei, se il permettete,

alcune far riflession vogl'io;

e s'esse giuste son giudicherete.

certo qualch'esemplar del testo mio,

certo, se non m'inganna il mio pensiero,

dio sa come, pervenne in man d'Omero.

 

Ciò che narra d'Ettor quel gran Cantore,

che dall'asta di Achille ucciso venne,

e del cadaver suo, che il genitore

poscia per prieghi, e più con doni ottenne,

a quanto or vi dicea simile è affatto;

nè dubbio v'è che dal mio testo è tratto.

 

Toglie ad Ettor la vita Achille invitto

per vendicar di Patroclo la morte,

come pel suo Tapir nel gran conflitto

provar fe' al Lioncin la stessa sorte

il crucciato Elefante; e non è questo

tratto ancor dal medesimo mio testo?

 

Ma quei sfigura ed altera le cose:

la dignità real Priamo obblia,

e scende a viltà indegne e vergognose;

la Lionessa un'ambasciata invia

per consiglio dell'Asino; sostiene

l'onor del rango, e in sul decor si tiene.

 

Veggio Achille infierir contro l'estinto,

ma l'Elefante odia la vil vendetta:

in prezzo del cadavere del vinto

doni il mio Eroe ricusa, e il suo gli accetta.

Or qui vi domand'io: di questi duo

qual'è il più grande eroe, il mio o il suo?

 

Vi prego inoltre meco ad osservare

(Perdon, se in ciò gli dei d'Omero ingiurio)

quanto l'Asino fosse in quell'affare

più nobile di Giove e di Mercurio;

questi indusser quel prence a una viltà,

e l'Asin consigliò la dignità.

 

Ma in quelle brutali epoche, a dir vero,

s'avea dei regi idea più grande assai

che se ne avesse all'epoca d'Omero,

quando bifolchi, cuochi e macellai

erano i regi, e i loro eroi guerrieri

simili affatto ai nostri flibustieri.

 

Ma detto sia de' nostri tempi a onore:

la dignità real poscia ha ripreso

il naturale suo primier splendore;

e alfine, grazie al cielo, or se l'è reso

lo stesso culto, anzi più grande ancora

di quel che le rendean le bestie allora.

 

Procede intanto il funebre corteo;

già si vede apparir sulla collina;

già sen ode da lungi il piagnisteo;

all'albergo real già s'avvicina.

la guardia che si stava alle vedette,

avviso alla regina allor ne dette.

 

Colei, col sacro Allocco e tren solenne,

Reggente e madre omai non più, nè moglie,

al cadaver piangendo incontro venne;

tosto d'in sul Cammel l'Allocco il toglie;

e quattro prime cariche sul tergo

sel recano, e il portaro al regio albergo.

 

D'aridi salci in convenevol loco

rogo fatto innalzar la madre aveva,

poservi il corpo sopra e gli dier foco:

chiarissima la fiamma alto s'eleva,

e spettacol offria grande e novello;

onde tutti esclamaro: oh bello! oh bello!

 

Il cener prezioso, in cui ridotta

fu la real Bestiuola, in un bel vaso

posto e rinchiuso fu d'argilla cotta,

assai sotterra ritrovato a caso;

e da tutta la Corte accompagnata,

l'urna nel gran salon fu collocata.

 

E portando di prieghi un zibaldone,

l'Allocco comparì fra due bidelli

che tenean fra le zampe un fiaccolone:

aprì, lesse e cantò: Oriam, fratelli:

del Lioncin per l'animuccia oriamo,

per lei, fratelli, il Gran Cucù preghiamo.

 

Quindi fe' gli assistenti all'urna avante

prostrar, tre volte allor su quella dava

un gran colpo di becco, ed altrettante

ad alta voce il Lioncin chiamava,

poi tant'ei che la Corte taciturna,

fer tre mistici giri intorno all'urna.

 

E a ciascun giro l'aspergea con torba

acqua lustral del limaccioso immondo

fosso, che mena per via cupa ed orba

del Gran Cucù al tumulo profondo:

onde, sebben fetido odor lo spruzzo

spanda, sacra è quell'acqua, e sacro il puzzo.

 

L'Asin, prosontuoso e parolajo,

credendosi perciò grande oratore,

in qualità d'institutore e d'ajo,

del principino estinto a gloria e onore

s'accinse a far con umide palpebre

estemporanea orazion funebre.

 

Onde sopra una specie di tribuna

la Reggente montò colle sue dame,

e, giusta il grado e il rango lor ciascuna

bestia di tutto il cortigian bestiame

conveniente posto ai lati prese,

e sul pulpito allor l'Asino ascese.

 

e fatto ch'ebbe, in giro un grave e dolce

saluto agli uditor, drizza l'orecchie,

il muso col zampin blandisce e molce,

poi raschia e spurga, e con smorfie parecchie

imitar le maniere e l'impostura

dei reverendi arringator procura.

 

Silenzio! con modestia e verecondia

ai gravi offici, alla lugubre pompa

s'assista, o donne, e l'asinil facondia

cigolio femminil non interrompa

con cicaleccio ed importuna ciarla;

silenzio, ascoltator! l'Asino parla.

 

Quantunque, ei disse, la più gran sventura

che accader possa a un vivo è d'esser morto,

del Lioncin la sprigionata e pura

animuccia talor per suo diporto

invisibile e muta osservatrice,

viene ad udir ciò che di lei si dice.

 

Parmi vederla in questo tristo giorno,

che le geste a esaltarne io m'apparecchio,

qual lieve moscerin ronzarmi intorno;

zufolar me la sento in un orecchio;

non ne udite anche voi la sinfonia?

Se non l'udite, non è colpa mia.

 

Ma tu vieni, dolcissima animella,

sì, vieni a zufolarmi ove tu vuoi;

l'Ajo tuo tenerissimo t'appella,

appressati ad udir gli elogi tuoi;

non il tuo loderò mimico pregio,

non l'appetito veramente regio;

 

non l'abilità rara, onde nel mondo

non v'ebbe più gentil scorticatore;

o se per vezzo o per umor giocondo

fea di sgraffiarli ai Scimmiottin l'onore;

onde sulle lor groppe eran quei sgraffi

del sovrano favor tanti epitaffi.

 

Ma sopra ogni altro tuo distinto vanto

esalterò la nobile ignoranza,

qualità da' tuoi pari amata tanto,

che della filosofica arroganza

dal magistral imperioso tuono

emancipa color che son sul trono.

 

Ah! ch'io massime tali avea spremute

in quel suo cervellin, che le più grosse

regio-brutali qualità vedute

avremmo in lui, se all'età giunto ei fosse

in cui divien l'animalin minore

(Animal sempre) un animal maggiore.

 

Meco immedesimato avrei l'istinto

suo natural, e inasinito l'estro;

e in breve più non si saria distinto

qual fosse lo scolar, qual il maestro:

nè alcun capito avria se ambo eravamo

due rami e un tronco, ovver due tronchi e un ramo.

 

Ma di sì nobil pianta i primaticci

frutti a un tratto appassì destino osceno;

e se agl'insolentissimi capricci

di codesto destin non ponsi un freno,

riverito uditorio, io lo preveggio,

le cose sempre andran di male in peggio.

 

Or, siccome la morte, s'io non fallo,

è nella vita come una parentesi,

per cui ciascun frappone un intervallo

ai lunghi error, di cui s'annoja o pentesi;

onde ogni anima grande in questo pecca,

che a star sempre in un fodero si secca;

 

stanco perciò del mondo e d'esser vivo,

il Lioncin del ciel prese il cammino;

ma vedendol per aria e fuggitivo,

richiamollo la Terra: o Lioncino,

cosa diavolo fai? dove vai tu?

Non mi far delle tue, ritorna giù.

 

Ed ei, che docil era e compiacente

per la cura ch'io n'ebbi assidua e molta,

giù capitombolando immantinente:

Vengo, vengo, rispose, e diè di volta;

e a piombo e a perpendicolò cascò,

e gloriosamente allor crepò.

 

Sì, casca e crepa l'erouccio invitto,

e inaffia il suol di principesco sangue;

casca e non ha timor, crepa e sta zitto,

non brontola, non mugola, non langue;

di mie lodi il compendio è corto corto:

se vivo il prendi è bestia, eroe, se morto.

 

Onde per sì gran vol, per sì bel tonfo,

nelle future età sui re crepati

del Lioncin si canterà il trionfo

dalla brutal posterità dei vati:

e in paragon di questo i più bei temi

saran quai funghi di sostanza scemi.

 

Ma sicuro son io che il Gran Cucù

per l'orecchia trarrà quell'animetta

nella sua tomba, per passar laggiù

deliziosamente qualche oretta

con quell'amabilissima bestiuola

formata già nell'asinina scuola.

 

Ivi, cred'io, del figlio e del papà

l'ombre s'incontreran, si bacieranno:

non baci passeggier si dan colà,

ma ciascun bacio dura almeno un anno;

ivi quegl'immortali, or morti re,

sicuramente parleran di me.

 

E son tutti i teologi d'accordo

che quando il Gran Cucù risorgerà,

(Il dì preciso non me lo ricordo)

codin, zampin, musin riprenderà.

E il Lioncin vedrassi allor di nuovo

regnar col Gran Cucù nel mondo nuovo.

 

Pur se propizia, o ascoltator divoti,

quell'animuccia rendervi bramate,

non sol del Gran Cucù coi sacerdoti

cortesi sempre e generosi siate,

ma coll'Asino ancor, col suo diletto

Ajo e fedel panegirista; ho detto.

 

Così l'Asin parlò: ma voi che avete

esperienza e pratica di mondo,

stupiti, a creder mio, non vi sarete

del bel sermon che per Lion Secondo

Fè l'Asino orator, ben persuasi

che ognor lo stesso avviene in tali casi.

 

Se chiude i lumi ai rai del dì chi giacque

nell'ozio immerso e nell'impura venere,

chi per l'altrui calamità sol nacque,

chi fu obbrobrio e flagel dell'uman genere;

tosto templi e licei risuonar odi

di gonfi encomi e di pompose lodi.

 

Ma s'estinto è talun che fra innocenti

cure ha la via delle virtù seguita

e, pien di merti e d'utili talenti,

trasse fra i studi placidi la vita,

malgrado i pregi suoi, le sue bell'opre,

silenzio e obblio il nome suo ricopre.

 

Che le cose, i vocaboli e l'idee

panegirista menzogner confonde;

e quell'omaggio che a virtù si dee

ai professor d'iniquità profonde;

e il ver storpiando ed alterando ognora,

di splendida vernice il falso indora.

 

Vennero allor con panierini al collo

damme, Cervette, Cavriuole e Lepri

spargendo ramerin, menta e serpollo

e bacche d'odoriferi ginepri;

poi, strette in gruppo e con susurro sordo,

si danno il tuono e mettonsi d'accordo.

 

Indi cantan poetico strambotto

sul lugubre elafà con piano e forte,

composto in su due piè da un Gazzerotto

che in quel tempo poeta era di Corte;

fanno da bassi, e con i lor vocioni

l'intercalar ripeton sei Caproni.

 

Oh Lioncin dicean le cavriuole

e le Damme e le Lepri e le Cervette

moristi, o Lioncin, nè più del sole

l'alma luce goder ti si permette;

ahi crudo inesorabile destino!

E i bassi ripetean: oh Lioncino!

 

Oh Lioncin quelle seguian, la cruda

morte, che tutto stermina e scombuja,

a noi ti tolse, e or l'animetta nuda

erra per region ignota e buja,

d'onde non tornò mai niun principino.

E i Becchi ripetean: oh Lioncino!

 

Oh Lioncino, nell'età più acerba

il fil dei giorni tuoi troncò la Parca,

e la speme comun recise in erba;

e intanto d'Acheronte il fiume varca

l'ombra del nostro regio animalino.

E i Capron ripetean: oh Lioncino!

 

Si disposero poscia in ordinanza,

e al suon di melanconici strumenti

dieron principio a una funerea danza

da moti accompagnata e atteggiamenti,

e formavan bellissimi tablò

miglior di quei de' Vestri e de' Pitrò.

 

Quella funebre danza o pantomima

l'Orso ideò, compositor de' balli,

e la prova ne fe' poche ore prima;

le attrici instrusse e ne corresse i falli;

ed ei stesso, allorchè la riferita

pantomima fu in pubblico eseguita,

 

in un angolo standosi assistente,

a tempo dirigea le ballerine:

onde la cosa andò felicemente;

e poichè lo spettacolo ebbe fine,

con applausi ed unanimi clamori

l'esequie rallegrar gli spettatori.

 

Seguita allor dal cortigian suo gregge,

dalla tribuna la Reggente scese,

e col giakè che la coda le regge,

al domestico suo quartier si rese;

là congedò tutto il seguace stuolo,

e mesta e sola abbandonossi al duolo.

 

Dentro una nicchia poi fu collocata

l'urna in profonda sotterranea cava;

e avanti a quelle ceneri scannata

bestia presa al nemico, e fatta schiava,

vittima cadde, e in guisa tal compiti

furo i lugubri, sanguinari riti.

 

Fer di cipressi un folto circuito,

che il sotterraneo racchiudea nel centro,

acciò animal non sia sì incauto e ardito,

che osi il piede profan por colà dentro,

ma riverente taciturno abbassi

la testa avanti al sacro loco, e passi.

 

Onde quegli animai religiosi

prestavangli una specie di dulia,

e farne fin volean l'apoteosi;

e degli Allocchi l'inspirata e pia

casta persuadeva al popol basso

che da principe a Nume è un breve passo.

 

 

 




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