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Giovanni Battista Casti Animali parlanti IntraText CT - Lettura del testo |
Poichè per procellosi, ignoti mari
spinse ardito nocchier la nave incerta,
se, dopo casi perigliosi e vari
quei che sta sulla gabbia alla scoperta
vede da lungi e lieto annunzia il lido,
alzan di gioja i marinari il grido;
ma se ricopre l'orizzonte, e il giorno
asconde allor nebbia improvvisa e folta,
attonito il nocchier si volge attorno,
che d'ogni oggetto a lui la vista è tolta;
e il timonier riman confuso, e ignora
ove diriga la smarrita prora.
così, poichè le torbide vicende
delle parlanti bestie io vi narrai,
gli odj, gl'intrighi e le battaglie orrende,
e al desiato fin giunger sperai,
folto bujo m'arresta; e, quel ch'è peggio,
tutte svanir le mie speranze io veggio.
Ella è ben dura e dispiacevol cosa;
ma qui della mia storia il testo termina,
nè di quella brutal dieta famosa
il resultato e l'esito determina:
non so... Ma forse s'è perduto il resto;
comunque sia, certo mancante è il testo.
Se si dee giudicar da quel ch'io scrivo
e dai discorsi fatti in quel congresso,
e' par che per un re constitutivo
un partito vi fosse in quel consesso,
e che dei lor filosofi una classe
la moderata monarchia bramasse.
Nè credo che fra loro esser potesse
che qualche falso ed intrigante e astuto
furbo animal che profittar volesse
d'un governo arbitrario ed assoluto;
ma delle oneste bestie il savio stuolo
bramava il ben di tutti e non d'un solo.
E invero il capriccioso arbitrio altrui
soggettar moltitudine infinita,
e abbandonar interamente a lui
onor, tranquillità, sostanza e vita,
il voler, l'esistenza... idea sì fatta
aver non può che qualche bestia matta.
Nè occorre dir che tutto il mondo è pieno
d'autorità dispotiche, oppressive
cui mai non si pensò di porre un freno,
eppur il mondo esiste, eppur si vive.
Chiedo perdon, se alcun di me si lagna;
ma questo è un ragionar colle calcagna.
Lo schiavo e il galeotto in tal maniera
s'accostuma a soffrir con pazienza
il baston, l'aguzzino e la galera;
ma da questo dedur la conseguenza
si dovrà forse che sian cose buone
l'aguzzin, la galera ed il bastone?
Se quei cui confidavansi i governi
avesser nei costumi e nei talenti
rassomigliato ai principi moderni,
e savi stati fossero e prudenti,
d'animo retto e di gran cor dotati,
per la comun felicità sol nati,
l'affar stato saria diverso assai,
tutti potuto avrian viver sicuri;
ma l'età scorse non l'ottenner mai,
nè l'otterranno i secoli futuri;
poichè egli è un esclusivo privilegio
del bel secolo in cui viver mi pregio.
Vantarci ancor possiam che la politica,
di cui quel savio ambasciador Cavallo
udiste far sì velenosa critica,
ai tempi nostri, (e il mondo inter ben sallo)
fu ne' limiti suoi dall'incorrotta
integrità ministerial ridotta.
Anzi come in april zeffiro lieve
col benefico soffio l'orizzonte
ripurga da vapor torbido e greve,
così ella ha ognor le vie sicure e pronte
per dissipar il cruccio e le nascenti
ire dei bruschi regi e dei potenti.
Non appieno convinti e persuasi
di questa incontrastabil veritate
voi supporre io non vo'; ma in tutti i casi
date una volta, in cortesia, deh, date
un'occhiatina ai gabinetti d'oggi,
vedrete quanta probità v'alloggi.
Ma il dispotico allor regio potere,
non depurato ancor, come fu poi,
freno non conoscea, legge o dovere,
e in trionfo portava i vizi suoi;
e gran tempo vi volle pria che al punto
di perfezion giungesse, ov'è poi giunto.
Molti perciò, che in libertà consistere
facean l'oggetto della causa pubblica,
al Can s'uniro e non mancar d'insistere
con impegno e vigor per la repubblica,
poichè quella credean più che altre forme
alla giustizia e alla ragion conforme.
E poichè niuno al naturale istinto
di libertà rinunziar mai puote,
e qualor sotto il giogo oppresso e avvinto
forza lo tien, tosto ch'ei può, lo scuote;
perciò il numer maggior dell'assemblea
propenso alla repubblica parea.
Bestie a queste s'unir che far fortuna,
o ambian private esercitar vendette,
quelle che a legge o potestà veruna
voluto non avrian restar soggette,
a cui sistema mai fisso non piacque,
e cercavan pescar in torbide acque.
Gl'inquieti, intriganti parlatori,
quei che aveano o credeansi aver talenti
alli talenti altrui superiori,
e tutti in generale i malcontenti
le massime adottar repubblicane,
e il partito ingrossavano del Cane.
Tutti il parere loro a maraviglia
sostenean con politiche ragioni,
similissime a un liquido che piglia
la figura del vaso in cui lo poni;
prontissimi però di sentimento
sempre a cangiar, quai banderuole al vento.
Ma chi nel giudicar più fermo e sano
e intimamente da ragion convinto,
al governo aderia repubblicano,
sol del pubblico ben da zelo spinto,
e non da passion o da interesse,
di buona fede il suo parere espresse;
e sostenne repubblica perfetta
ente esser non chimerico ed astratto,
arduo sì; che smentita e contradetta
mai giusta teoria non è dal fatto;
e che giusta non è la teoria,
qualor in fatto impraticabil sia;
che se in pratica poi par difettosa,
quelli che son d'esecuzion difetti
attribuir non debbonsi alla cosa;
ch'esser questi dovrian tolti o corretti;
questo esser ciò che il ben pubblico esige,
ma che più si trascura e si neglige.
ch'ei non sapea per qual fatal ragione,
(sia colpa, sia destin) tuttor avviene
che da se stessa al mal si sottopone
degli animali la maggior massa, e il bene
vuol dalla società piuttosto escluso
che toglierne o correggerne l'abuso.
Ma non pochi vi fur che disgustati
s'eran di libertà, perchè gl'intrusi
malvagi, i posti primi e i magistrati
occupando, ne aveano i buoni esclusi;
e scission ostile e pertinace
l'ordin disciolse allor, bandì la pace.
Onde quei che ne fur sostenitori,
di libertà la causa abbandonaro,
di tanta indegnità contro gli autori
di nobil sdegno accesi; e ne mostraro
le violenze, i furti e i vituperi,
ch'eran per gran malor pur troppo veri.
Che giova a noi dicean color d'un mero
titol gioir, realità se manca,
D'un ben colla lusinga un male vero
chi sofferir dee sempre, alfin si stanca;
se libertà tranquillità non reca,
che ne restin gli elogi in biblioteca.
Ma voi, che il più bel don della natura,
voi, che perfin la libertade istessa
render potete insopportabil dura,
per voi dell'alma è l'energia compressa,
che dal dritto sentier per voi devia,
e nel cieco ricade error di pria.
Oh come in simular periti e destri
d'ingenuità darvi sapete il vanto,
e d'impostura e finzion maestri,
di probità, di libertà col manto
d'ambizion l'indomito desire,
e la rapace avidità coprire!
Simili oh quanto al cacciator voi siete,
che li semplici chiama incauti augelli,
col sibilo imitante, entro la rete;
o l'esca insidiosa offrendo a quelli,
nella pania gli attira, e poi gli uccide,
e della lor credulità si ride.
Voi la divina ambrosia e il prezioso
nettar spargete di letal veleno;
voi, di morbo crudel, contagioso
non men nocivi e non funesti meno,
voi rendete pestifere e mortali
l'istesse che spiriamo aure vitali.
V'era pertanto un intrigante e forte
partito aristocratico-reale
alla Volpe addettissimo e alle Corte,
che di tutti li mali il più gran male
esser la libertà spargean fra il volgo,
da cui neppur certe gran bestie io tolgo.
Nè pochi ritraea, nè indifferenti
vantaggi da sì fatte opinioni,
onde certi anti-logici argomenti
spacciando gian, che intitolar ragioni.
Tutti costor formavano una schiera
che da sprezzarsi, a vero dir, non era.
Eranvi gl'indolenti e gli egoisti,
quei che in servir ponean tutto il lor vanto,
quei che diceansi puri realisti,
animali di Corte e che cotanto
figurato v'aveano infin allora,
e che speravan figurarvi ancora.
Inoltre quei che si pascean di fumo,
che il lusso e il vizio amavan sol, non buoni
che bastante per mille a far consumo,
inetti ed orgogliosi bestioni,
in cui 'l volgo credea gran merto fosse,
perchè classe facean di bestie grosse.
Tutti costor volean la monarchia,
ma nel modo eran vari e discrepanti:
chi volea dei Lion la dinastia,
e chi la dinastia degli Elefanti;
come il massimo affar sia che un padrone
Elefante si chiami ovver Lione.
Dal Cavallo un sovran, ma definiti
e divisi voleansi i poteri;
e il congresso pendea di quei partiti
fra i discordi moltiplici pareri:
inoltre far d'altri animai s'intese
più d'una mozion, cui non s'attese.
Crudele, per esempio, e sanguinario
governo ambia la rettile caterva;
vago gli amfibi, indefinito e vario;
e gli augei libertà senza riserva;
e ciascun, non badando al buono o al giusto,
proponea cose analoghe al suo gusto.
Poichè sempre abitudine e natura
fissò l'idee ed i giudizi nostri
come l'esperienza l'assicura,
senza cercar ragion che cel dimostri;
chiedi a talun qual sia fra gli elementi
il soggiorno miglior per li viventi:
quel, dirà, dov'ei vive e dov'ei nacque.
chiedine all'uom, dirà: sopra la terra.
chiedine al pesce, ei ti dirà: nell'acque.
chiedine al verme, ei ti dirà: sotterra.
e se nel foco havvi chi vive, il loco
pei viventi miglior dirà che è il foco.
E perchè in rilevar vizio o difetto
malignità mai non si stanca e langue,
dalla censura il rettile fu detto
boja di bruti e bevitor di sangue;
anarchista l'uccello e vagabondo,
equivoco l'amfibio e gabbamondo.
Fama nei tempi appresso incerta e vaga
corse su quella celebre adunanza:
che più le cose s'imbrogliar nè paga
restò l'aspettativa e la speranza,
e tutto si ridusse a smorfie sole,
cabale, intrighi e inutili parole.
Si vuol, fralle altre cose assurde e strane
di cui non entro a garantire il vero,
che Lionessa, Coccodrillo e Cane
tentasser di spartirsi il mondo intero.
lo che un'idea darebbeci a un dipresso
della moralità di quel congresso.
E che la Volpe avesse al Can proposto,
di leggi invece e pubblici decreti,
fra lor trattato di segnar, composto
tutto quanto d'articoli secreti;
poichè in lor pro così potrian disporre
di tutto, e a questi dare, a quegli torre.
Vi fu in ver chi, scoperto il reo disegno
mostrò che ogni trattato, ogni atto ascoso
fra pubblici ministri, era ognor segno
di fine obbliquo e sempre altrui dannoso.
libera il giusto e il ver luce diffonde,
nè agli sguardi del pubblico s'asconde.
Ma gli animai più grossi e più potenti
risposer, che tai massime morali
erano in verità savie, eccellenti
per gl'inermi e pei piccioli animali;
che altra moral per grandi bestie esiste,
più luminose idee, più eccelse viste.
Anzi, quantunque il Can repubblicano
ardor spiegato apertamente avesse,
pur sospetto vi fu ch'ei sottomano
cabale ordisse, e farsi re volesse;
e, se osserviam ciò che nel mondo avviene,
vie più forte il sospetto ancor diviene.
Che la Volpe un gran colpo ancor tramasse
si sparser voci, o fosser vere o vane,
e che da suoi satelliti tentasse
far il Cavallo assassinare e il Cane:
i due maggiori ostacoli per torre
che si potean a' suoi disegni opporre.
E sebben senza orror sì sanguinari
atti il pensier rammemorar non suole,
in politica son familiari.
se il fatto poi giustificar si vuole,
ragione assurda a suo favor s'allega;
se non si può giustificar, si nega.
E la discordia colla nera face
nel congresso eccitò risse e dissidi,
sparse zizzanie e ne sbandì la pace,
e seguiron duelli e besticidi;
e spesso si temè veder la guerra
scoppiar di nuovo a devastar la terra.
E chiaro, in tanta oscurità, si vede,
che in quelle turbulente conferenze
fur gelosia, sospetto e mala fede,
le molle che giuocar fean le potenze;
onde, siccome avvien generalmente,
parlaron molto e non concluser niente.
E poichè ne' politici congressi
in cui soglion trattarsi i grand'affari,
i generali pubblici interessi
negletti son, per quanto sacri e cari,
e par che quei solo ingrandir si tenti
che di troppo son già grandi e potenti;
ed in vece che al vortice de' mali
sia dal servil negoziator sottratta
la gran massa dei miseri mortali,
vie più d'assoggettarla ognor si tratta;
perciò congressi tai chiamar conviene
officine di pubbliche catene.
Due verità traggh'io da tutto ciò:
primo, che nei governi in generale
trovar perfezion mai non si può,
e che in tutti è ognor misto il ben col male;
secondo, che impossibil sempre fu
d'insieme unir politica e virtù.
Dopo quanto da me finor si disse
sulla storia politica de' bruti,
nessun più ne parlò, nessun ne scrisse;
tutti gli autor sopra di ciò son muti;
e qui, dove finisce il testo mio,
parrebbe che finir dovessi anch'io.
Ma v'è tradizion che ci assicura
che allor la gran rivoluzion seguisse
che l'ordin rovesciò della natura
e in cui, come un anonimo già disse,
(Se fia l'ardita espression permessa)
cangiò natura la natura stessa.
Mentre in quella politica adunanza
brutalmente si disputa e si strilla,
mugghiar si sente il tuono in lontananza,
romba improvviso il vento, il suol vacilla,
e l'orizzonte ingombra ammasso oscuro
di dense nubi, che par siepe o muro.
Dispar, fra nere tenebre sepolta,
del dì la luce e abbujasi ed annotta;
e sol da torbo balenar la folta
oscurità di tratto in tratto è rotta;
e grandine di folgori tremende
più spaventoso lo spettacol rende.
Mirasi in mezzo a quel lugubre orrore
il mar che freme orribilmente e bolle;
gonfiasi e con terribile fragore
vorticose montagne al cielo estolle;
e or par che s'inabissi e si sprofondi,
e della terra il cupo centro sfondi.
L'irresistibil impeto del vento
piante e foreste sbarbica e disperge,
e il rimbombevol vasto ondeggiamento
le terre inonda e le città sommerge;
gorgoglia intanto il cavo suolo e n'esce
sanguigno foco, e orrore a orrore accresce.
Dai fondamenti l'isola traballa,
e d'ogni sua connession si stacca;
qual alta torre che cede ed avvalla,
qualor s'appoggia a fragil base e fiacca:
il quadrupede invan fra il tuono e il lampo
sulle ardue sommità cerca lo scampo.
L'amfibio invan, l'augello stesso invano,
per l'onde questi, e quei per l'aer fugge;
poichè altri inghiotte il turgido Oceano,
altri il turbo, altri il fulmine distrugge.
l'isola alfin dispare, e nelle torbe
sue voragini immense il mar l'assorbe.
Così, qualor di lacero naviglio
il flutto entrò per lo sdrucito fianco,
agli albori s'aggrappa e dal periglio
tenta sottrarsi invan confuso e stanco
il marinar, che d'acque ingombra e grave
pel peso enorme affondasi la nave.
L'Atlantide così sommersa giacque
sotto le tumide onde; e sol le varie
prominenze restar fuori dell'acque,
e furon dette Esperidi o Canarie;
e sorse allor su quel subisso antico,
come fanal, di Tenariffa il Pico.
Il Porco ambasciador, cui dal profondo
sonno destò il fragor della tempesta,
pur s'indormenta; e, si dissolva il mondo,
russa ei sonoramente e non si desta,
nè desterassi che a trovar la tomba
dormendo in fondo al mar qual sasso piomba.
Ma la Volpe del suol le scosse prime
sentendo, mosse frettolosa il passo
del vicin monte inver l'alpestri cime;
ma la respinge, e di bel nuovo al basso
rotolandola, il turbine la sbalza,
cade essa e sorge, e il turbo ognor l'incalza.
Contro l'onde luttar grossa balena
non lungi vide, e a lei notando venne,
ed afferrata allor la larga schiena,
colle zampe e coi denti ivi si tenne:
ma il flutto indi la stacca e la trasporta,
sicchè riman negli ampi gorghi assorta.
Il ciel t'incenerisca, il mar t'ingoi,
e il baratro infernal t'apra l'avello,
e tutti peran teco i pari tuoi,
o d'infami ministri empio modello,
onde ogni germe se n'estingua e spenga,
e più la terra a funestar non venga.
Che dal naufragio universal scampasse
solo il Caval, si sa, ma il come è ignoto:
chi vuol che in erta cima ei si salvasse,
chi di gran Cete in sul groppon, chi a nuoto.
fole tutte e fandonie, a parer mio;
ma come si salvò? vel dirò io.
Autor contemporaneo e cucuista
prete del Gran Cucù, cioè a dire Allocco,
attesta, come testimon di vista,
che ordine il Gran Cucù desse al gran Rocco
che il Caval sulle immense ali prendesse,
e sano e salvo a terra il conducesse.
Tosto il Rocco eseguì: ma voi direte
esser la cosa un pochettin bizzarra;
io non dico di no; ma riflettete
che allocco e sacerdote è chi la narra;
e a ciò che autor sì venerabil dice,
quantunque bestia, contradir non lice.
Inver sovr'alma generosa e grande
il benefico cielo e la natura
i suoi favor meritamente spande;
ma superstizion tutto sfigura.
L'Allocco il merto tolse alla virtù
e attribuillo tutto al Gran Cucù.
Da cotal fatto il suo caval che vola
trasse la Grecia, e Pegaso s'appella,
e di due bestie ne fece una sola:
e il gran vate che in itala favella
poscia le donne e i cavalier cantò,
in Ippogrifo il Pegaso cangiò.
Ma la grande catastrofe tremenda
che la faccia cangiò del mondo intero,
lingua umana a ridir vano è che imprenda,
o che osi concepir uman pensiero,
se da influsso di nume ei non è istrutto,
operator, rinnovator di tutto.
Caddero gli astri e s'infocaro i cieli,
si mischiar gli elementi e si fer guerra,
e immensità di liquefatti geli
ruppe dai poli ad inondar la terra,
e vaste onde, sonanti e procellose,
fra l'Affrica e l'America interpose.
Dell'Eritreo, del Persico le rive,
spinta dall'Austro, impetuosa l'onda
fendendo allor divise, e le Maldive
nei mari d'Oriente, e della Sonda
l'isole sparse, e ne restò disgiunta
della Malea penisola la punta.
Pel Bosforo l'Eussin s'aprì la strada,
e formò la Propontide e l'Egeo;
per la Sveca e la Cimbrica contrada
nuovo passaggio il Baltico si feo;
Ruppe allor l'Oceano Abila e Calpe,
e l'irte fronti alzar Pirene ed Alpe.
Ed allor fra i Sicani e i Calabresi
frapponendosi il mar, transito aprissi,
e al ciel lanciando immensi globi accesi,
emerse l'Etna dai profondi abissi;
e dell'antico ordin di cose in vece
la pentita natura altro ne fece.
E miri con stupor sorte dall'onde
foco eruttar volcaniche montagne,
e slontanate dall'equoree sponde
coprir sabbia marina ampie campagne,
e alti monti formar massa impietrita
d'ossa e di membra ch'ebber moto e vita.
E ovunque per lo gemino emisfero
il guardo filosofico tu giri
e il ragionante libero pensiero,
di gran rovesciamenti orme tu miri;
e se ciò che oggi esiste e ciò che vedi
stabil credi e costante, il falso credi.
Natura i passi suoi mai non arresta
liberi, irresistibili e sicuri;
regni egualmente e imperi urta e calpesta,
e le capanne e gli umili tuguri;
lo stesso son per li suoi vasti oggetti
gli orgogliosi monarchi e i vili insetti.
So che far si potria l'obbiezione
che assai dopo quell'isola esistesse;
poichè Diodoro Siculo e Platone
e alcun moderno autor par che credesse
che da quei dotti popoli felici
gli Egizi instrutti fossero e i Fenici.
Ma non entriam con computi sì vasti
di tanta antichità nel buio seno,
nè ci ostiniam, di grazia, a far contrasti
per cento mila secoli più o meno:
ch'ella è cronologia remota, incerta,
di tenebre palpabili coperta.
Ed accordiam, senz'altre cirimonie,
che i popoli da noi sopracitati
fosser figli d'Atlantidi colonie,
o posteri d'Atlantidi emigrati,
discesi sino all'epoca di cui
parlò Platone ed i seguaci sui.
Molto più importa di saper che in quella
convulsion del mondo i bruti tutti
perdetter l'intelletto e la favella.
come avvenisse non ne siamo instrutti;
ma di terror sappiamo esser effetto
il perder la parola e l'intelletto.
Altri disse che il ciel le iniquità
per punir delle bestie, ad esse volle
toglier di favellar la facoltà;
come poscia punì l'audacia folle
di quell'altier ch'edificò Babelle,
le lingue confondendo e le favelle.
Anzi v'è qualche autore il qual suppone,
e vuol con argomenti assai plausibili
mostrar che la loquela e la ragione
sian doni a beneplacito amovibili,
e che fosse il quadrupede animale
primo a gioir d'un beneficio tale.
Il quadrupede tosto abuso fenne,
onde ne fu meritamente escluso,
e allor l'umano bipede l'ottenne;
ma siccome anch'ei fanne enorme abuso,
e la loquela e la ragion discredita,
l'uso anch'ei perderanne, e se lo merita.
Ma è cosa incontrastabile e sicura,
che qualunque saran gli avventurosi
animai che otterran dalla natura
sì nobili attributi e preziosi,
non ne potran, per quanto possan fare,
quanto l'umano bipede abusare.
Altri provar, filosofando, vuole
che ingegnoso artificio è la loquela
di convenuti suoni e di parole
onde i pensieri interni altrui rivela
chiunque vive in società: senz'essa
strepito vano è la loquela e cessa.
L'universalità degli animali
(Poichè ogni ordin scompose e l'acqua e il foco)
andò solinga, errante, e i sociali
vincoli ruppe; e quindi appoco appoco
obbliò la loquela, e sol ritenne
di voci un suon, che da natura ottenne.
Se veggiam dunque qualche lor brigata
a ingegnoso lavor talora intesa,
specie formar di società privata
pei lor bisogni e per la lor difesa,
di quell'antico intendimento estinto
un resto è sol, che noi chiamiamo istinto.
Così sovente unisconsi i Castori,
e così ancor s'uniscon le formiche:
quei per gli architettonici lavori,
queste per le lor provvide fatiche;
così veggiamo in compagnie parecchie
unirsi il mele a fabbricar le pecchie.
Giusta le leggi della sana critica,
tradizioni tai non vi sostengo
riguardo alla brutal storia politica,
poichè v'è dell'imbroglio, e ne convengo;
sappiam solo che allor parlante fu
la brutal razza, ed or non parla più.
Perduta dunque la favella, e sciolto
dal primiero reciproco legame,
ignorante, selvatico ed incolto,
senza fren, senza legge errò il bestiame;
nè mutuo dritto, nè rapporto esterno,
nè più alcun ebbe mai patto o governo.
Godè d'allora in poi sopra la terra
natural libertà, non sociale;
e feroce o famelico fe' guerra
l'animal forte al debole animale:
e quindi dee, per evitar la morte,
il debole fuggir sempre dal forte.
Ma fra le specie ove natura amica
l'un dell'altro al poter non sottopose,
e dell'abuso la ragion nemica
tutti a un livello gl'individui pose,
e del giusto l'amor, del ver la luce
all'opre è legge ed al pensiero è duce;
ivi la libertà, la sicurezza,
or di nome tra noi sol conosciuta,
degno premio a ogni cor che il giusto apprezza,
colla bramata ognor nè mai goduta
felicità, se il van desio non erra,
spargerà forse un dì sovra la terra.
Dissi forse: che i grandi io non ignoro
ostacoli che oppor ponno i viventi
al proprio ben cogl'invecchiati loro
dello spirto e del cor traviamenti.
come sì varie unir viste e interessi,
ed ottenerne i risultati istessi?
Vieni, o santa ragion, risplendi amico
raggio di verità, risplendi, e sgombra
e l'ignoranza e il pregiudizio antico
che i cuori umani e gl'intelletti ingombra;
e virtù teco faccia a noi ritorno
e fissi sulla terra il suo soggiorno.
Agli agitati miseri mortali
so che sottrarsi senza voi non lice
dal turbolento vortice dei mali
e tranquilla goder vita felice.
Son questi i voti miei, questi a voi rendo
ultimi omaggi; e qui la cetra appendo.61
ORIGINE DELL'OPERA
Poichè impresi a narrar stupende cose
Della più oscura antichità rimota,
Che strane parran forse e favolose,
Vo' la vera sorgente a voi far nota,
Ond'io le trassi; perchè in mio pensiero
Non cadde mai di farvene mistero.
A pochi de' cronologi più esatti
Son noti d'un autor pre-adamita
I computi, ch'ei dice d'aver tratti
Da un poeta antichissimo ch'ei cita;
E fu, giusta la sua cronologia,
Sei centomila e più secoli pria.
L'opre dell'antichissimo scrittore
In un incendio semi-generale,
Centomil'anni almen, salvo ogni errore,
Perir dopo la sua morte naturale;
Né fia mica stupor che ciò accadesse,
In tabelle di legno essendo impresse.
In quell'incendio orribil spaventoso
Ad una biblioteca il foco giunse
D'un letterato a quei tempi famoso,
E con molte opre, quelle ancor consunse
Del citato da noi poeta critico
Storiografo-cronologo-politico.
L'autor pre-adamitico assicura
Che quel bruciato computo parlava
D'una rivoluzion della natura,
Che peraltro non ben specificava
Onde non si sapea se la produsse
O acqua o fuoco o cosa diavol fusse.
Si sapea sol tre cento mila e cento
Secoli pria cosa esser successa,
E che in quel general sconvolgimento
Cangiò natura la natura stessa;
E tutti gli animai che come noi
Parlavan pria, più non parlaron poi.
Ma invece di loquela altri il ruggito,
Altri i ragghio, altri l'urlo, altri ebbe il fischio
Chi latrato, chi strido, e chi muggito,
Chi il gracchiar, chi il soffiar, chi un suono mischio;
Ma ognuno istinto ed indole ritenne,
O gusto tal che di natura ottenne.
Pur bestie conosciam che ben sovente
Han poi ripreso il lor linguaggio antico
Parlando offerse il tentator serpente
Vietato frutto, o mela fosse o fico,
Ad Eva che sedotta Adam sedusse;
Lo che produsse poi quel che produsse.
Nè mi si venga fuor con la Scrittura
Che Satanasso per parlar con Eva
Triplicandosi presa la figura
Di donna a un tempo e di serpente aveva:
Diavolo, donna e serpe, a far parola
Furon tre specie, e una persona sola.
Qual incredulo è mai che oggi non creda
Che parlasse Nabuc cangiato in bove?
Con Europa parlò, parlò con Leda
Quando in cigno ed in bue cangiossi Giove;
E talor forse forse al par di loro
D'Apulejo parlò l'asino d'oro.
Tutte quante parlar le bestie in cui
Incarnossi Visnù l'indico nume;
Di render vaticini arcani e bui
Deificate bestie ebber costume;
Nè annali mai rivolgo antichi o nuovi,
Che parlanti animali io non vi trovi.
Nè qui favellerò del Simorganca62
Quel parlator maraviglioso uccello,
Che tanto oprò col rostro e colla branca
Quando il gran Tamurat montò su quello,
E i giganti sconfisse il perso eroe
Che fu il terror delle contrade eoe.
Nè il bue di Livio rammentar qui voglio63
Nè il can parlante al tempo di Tarquinio,
Nè il corvo che applaudì nel campidoglio
Del tiranno di Roma all'assassinio,
L'irco di Friso ed il caval d'Achille,
E mille ancor simili esempi e mille.
L'asina di Balaam s'udì parlare,
Allorchè, senza aver commesso fallo
La terza volta si sentì frustare;
Parla spesso la gazza e il pappagallo;
E spessissimo udiam, per terminarla,
Anche tra noi qualche animal che parla.
Chi non sa che Apollonio il Tianeo,64
Di cui scrisse Filostrato la vita,
Oltre cose mirabili che feo,
Onde Europa rimase e Asia stupita,
Se udia garrir gli augei, li comprendea,
E così ben che nato augel parea.
Oh se d'allor che il mondo principio ebbe
Di tai rivoluzion storia esistesse,
Oh come maestosa ella sarebbe!
Qual nel lettor pensante alto interesse,
Qual stupor desteria, qual meraviglia!
Ma storico a ciò fatto ove si piglia?
Or quando dietro al mio cronologista
A stender questi Apologhi mi misi,
Non altr'epoca mai presi di vista
Che quell'anteriore a detta crisi.
Ficcatevelo ben nella memoria
Quel che apologo è in oggi, allor fu istoria.
Ma son discreto, e non mi ostino a dire
Che tutto vero sia quello che dico;
Perchè so ben ciò che suole avvenire,
Se si parla di tempo troppo antico
E alfin avreste Voi forse in pensiero
Tutto esser ver ciò che si tien per vero?
Sovente i più comuni avvenimenti,
Che sott'occhi veggiam, tocchiam con mano,
In modi raccontar sì differenti
S'odon che il ver se ne ricerca in vano;
E quando appien tu credi esserne istrutto,
Circostanza scopriam che altera il tutto.
I fogli periodici leggete
Itali, Galli, Ispani, Angli, Tedeschi,
Ove con fedeltà trovar credete
Esposti i fatti più sicuri e freschi;
Eppure infedeltà sol vi si vede,
E contradizione e mala fede.
Questi l'error per ignoranza ammette;
Quei mente per passion, quei per paura;
Chi per malizia tace, altera, omette;
Chi per adulazion tutto sfigura,
E il falso adorna e appena il vero accenna;
Chi alfine a prezzo vil vende la penna.
E perchè poi si spoglia e si dispensa
D'ogni indulgenza quei che legge o ascolta
Cosa accaduta in lontananza immensa,
E fra profonda antichitade involta?
Perchè piuttosto che trarne profitto,
Cercar di farne allo scrittor delitto?
Meglio non è, se cosa v'è che spiace,
Una tranquilla indifferenza tacita
Usar, che fiele e critica mordace?
E se cosa v'è poi che vi capacita,
Perchè non l'adottar? ben si consiglia
Chi canto il mal rigetta e al ben s'appiglia.
V'è qualche storia in ver che a prima vista
Può mendace parer ed illusoria,
Come quella del mio cronologista;
Ma quella stessa animalesca istoria
Spesso al racconto util riflesso intreccia,
Sotto quella simbolica corteccia.
Io per lo vostro onor suppor non voglio
(E gli apologhi miei sian pure inezie)
Che sdegniate ascoltar per vano orgoglio
Dalle parlanti animalesche spezie
Le verità politiche e morali
Per non dir, le apprendiam dagli animali.
Men val dei fatti il letteral racconto
Che la moralità ch'indi dee trarsi;
Men di minuzie istoriche fo conto
Che de' riflessi a tempo e loco sparsi:
San leggere e ascoltare i meno istrutti
Rifletter, profittar non è da tutti.
Ma d'opere e d'autor preadamitici
Giammai notizia non avendo intesa,
Stupiran forse i cacadubbi stitici;
E la cosa sarà da talun presa,
Se il vero ben addentro non adocchia,
Per una solennissima pastocchia.
Io pertanto che sono in certi punti
Scrupoloso all'eccesso e delicato,
E che amo dalli miei più astrusi assunti
Uscir felice o almen giustificato,
Ciò che dissi lo replico, e son pronto
Di quanto hovvi asserito a render conto.
Son settant'anni e più che un ricco Inglese
Giunto del Gange alla famosa sponda
Scorse il Bengala e l'indico paese
E i regni del Carnate e di Golgonda,
E del Coromandel la costa tutta
Dal capo Comorin fino a Calcutta.
Sui governi di quelle nazioni
Nuove acquistò notizie e nuovi lumi;
L'origine indagonne e le ragioni,
Linguaggio, indole, riti, usi, costumi,
E de' Bramini il venerato occulto
Sacerdotal misterioso culto.
E colà del Bramino principale
(Per quai mezzi non so, nè per qual via)
Tale stima acquistossi e affezion tale,
Che l'effetto parea d'una malia;
Né del giovane Inglese il vecchio Brama
Contrariar sapea capriccio o brama.
Forse a talun potria venir sospetto
Che del Bramin l'Inglese a forza d'oro
Saputo avesse comperar l'affetto,
Di che sappiam che avidi son coloro;
Ma intaccarne non vo' la probità,
E lascio al luogo suo la verità.
Dal gran Bramino stesso ci fu introdutto
Nella primaria delle lor pagode;
E appieno fu da quel gran prete istrutto
Di ciò ch'altri non vede, altri non ode;
Vide gl'impenetrabili recessi
Ove a nessun son liberi gli accessi.
Vide de' tempi più remoti e bui
I monumenti di mister profondo,
E il Zendavesta ed il Vedam di cui
Tanto parlò, sì poco seppe il mondo,
E gli arcani donde i dogmi suoi
Trasse l'egitto pria, la Grecia poi.
Indi in un de' più intimi sacrari,
Ove inoltrarsi anche al Bramin si vieta,
Geroglifici vide e emblemi vari,
Impressi in certe tavole di creta
Che dal tempo pareano in parte rose,
Gelosamente a mortal occhio ascose.
Onde disse rivolto al sacerdote
Deh quali strane cifre sconosciute,
Quai caratteri veggio e strane note
In tanta qui venerazion tenute?
A cui il Bramin: cosa hai veduto omai,
Che altri non vide e non vedrà giammai.
Sacro al gran Brama e prezioso è questo
Monumento, di secoli migliaja
Ignorato dal mondo unico resto;
Ciò basti, e quanto udisti assai ti paja;
Fissi i confini sono al saper umano;
Più non cercar, che cercheresti invano.
Così disse il Bramin; e con quel dire
Nel curioso viaggiatore Inglese
L'impaziente di saper desire
Più stimolò, più vivamente accese
Chied'egli instantemente, insiste e prega,
E di persuasione ogni arte impiega.
Vinto da tante istanze alfin: tu chiedi,
Il Bramin disse, un'impossibil cosa.
Sacri arcani caratteri qui vedi
Di lingua a ogni mortal vietata e ascosa.
Solo l'intelligenza a poche elette
Alme fuor del comun se ne permette.
La sacra lingua sol d'intender lice
Alla sacerdotal suprema casta
Dell'umano destin regolatrice
Virtù, merto, talento a quei non basta
Cui dentro la comune ignobil massa
Di minor casta il destin getta e ammassa.
Ma quanto a' detti suoi colui volea
Dar aria d'importanza e di segreto,
Tanto più l'inquieta ansia crescea
Nell'insistente giovane indiscreto;
Che allora orgoglio e vanità s'aggiunse
Alla curiosità che pria lo punse.
Poichè se dell'arcano unico testo,
Tra se dicea, trar copia io posso, oh come
Tra i miei dotti Britanni e in tutto il resto
D'Europa io mi farei famoso nome!
Onde di quel Bramin lanciossi al collo,
Baciollo, supplicollo, scongiurollo,
Acciò da alcun Bramin perito e dotto
Dall'inintelligibile linguaggio
In qualche lingua Europea tradotto
Ottener di quell'opra ci possa un saggio;
Ma quei lo sguardo in lui torbido fisse,
Di santo orror raccapricciossi, e disse
Che dici mai? di tua colpevol brama
Complice io farmi? io quello, di cui femmi
Custode il cielo ed il favor di Brama,
Tradir sacro deposito? Bestemmi?
Ah! pria che profanar la santa lingua,
L'ira del ciel vendicator mi estingua.
A quel sacerdotal slancio di zelo
L'Inglese applaude, ma promette e giura,
Per quanto v'ha di sacro in terra, in cielo,
Che se di quella mistica scrittura
Ottenga version, gelosamente
Terralla ascosa a ogni anima vivente.
Se l'ottengo, dicea, che perderesti?
Il testo qui dessi onorar? si onori.
L'original qui dee restar? vi resti.
Il linguaggio ignorar sen dee? s'ignori.
Se ottengo io version che non paleso,
L'onor di Brama e il tuo rimane illeso.
Mentre ei così ragiona, e per sì fatte
Guise di quel Bramin la resistenza
Con armi dialettiche combatte,
Un barlume di docile indulgenza
Veder gli parve a quello in volto, e un raggio
Di speranza che accrebbegli coraggio.
E l'ascendente alfin straordinario
Ch'egli avea su colui, qualunque ei fosse,
O fisico o morale o pecuniario,
Appoco appoco lo ammollì, lo scosse,
E maniere ispirò più mansuete
Al rigorista inesorabil prete.
Quale influsso, dicea, sent'io? la mia
Costanza cede a ignota forza omai;
A te l'alto favor concesso sia;
Me traduttore e me scrittore avrai;
Io delle sacre tavole in colonne
Corrispondente version faronne.
E acciò che a ognun resti ignorato il fatto,
Tu il giurato silenzio osserva ognora.
L'Anglo lieto oltremodo e sodisfatto
Di cangiamento tal, di nuovo ancora
Gettando al gran Bramin le braccia al collo
Dell'insigne favor ringraziollo.
Quegli ogni dì portossi alla Pagoda,
Ed essendo colà la lingua inglese
Dacchè l'Anglo vi domina alla moda,
La versione in quella lingua imprese;
In men di trenta dì la stese sopra
Gran pergamena, e fu compita l'opra.
Consegnolla all'Inglese, e in consegnarla
Gli ripete gli stessi avvertimenti,
Che di tenerla occulta e di non farla
Nè mai veder nè legger mai rammenti:
Dir come, quando, dove e da chi l'ebbe,
L'ira di Brama provocar potrebbe.
Le promesse ei rinuova, ed indi ratto
Sen va a veder cosa contien lo scritto,
E restò ben sorpreso e stupefatto,
Quando del mondo vide ivi descritto
Lo stato a' tempi sì da noi distanti,
Con una storia di animai parlanti.
Or comprend'io, diceva, or comprend'io
Perchè il divin Visnù siasi incarnato
In vacca ed in uccel: quel loro Dio
In vacca e uccel non si saria cangiato,
Se avuto non avesser gli animali
Facoltà, come noi, intellettuali.
E siccome sapeva essere in rada
Nave che in breve verso Europa gia,
Abbandonando l'Indica contrada,
Tornar risolse all'Anglia sua natia,
Ed imbarcarsi in quella nave, per cui
Luogo pel suo bagaglio era e per lui.
La versione in un cannon di latta
Mise, ch'ei fece costruire apposta
E v'unì pergamena, in cui l'esatta
Storia del fatto è fedelmente esposta
E dove e quando e da chi l'ebbe e come,
Della Pagoda e del Bramino il nome.
Esternamente intonacar con cera
Il tubo intorno fe' con somma cura,
Che preservar lo scritto in tal maniera
Da ruggine e dall'umido procura;
E sopra tutto da tignuola o tarlo,
Che roderlo patria, potria bucarlo.
La nave omai del bisognevol carca,
Sua gente e suo bagaglio in diligenza
Imbarcar fece, e poscia anch'ei s'imbarca;
E tutto essendo pronto alla partenza,
La nave alfin le vele al vento sciolse,
E dalla rada di Madras si tolse.
Ceilan odoroso a destra mano,
Poscia Madagascar indietro lassa;
Il fausto ai marinar Capo-Africano,
Capo-Verde e Canarie indi trapassa;
Quindi trascorre l'ocean che bagna
La terra Ibera e la minor Bretagna.
Era la nave omai quasi di sua
Corsa felicemente al termin giunta,
E già scopre il nocchier d'in su la prua
E lieto annunzia di Lezard la punta;
Quando la sorte infin allor amica
Tutt'ad un tratto lor si fe' nemica.
Tra nere nubi il sol s'involge e asconde,
Il mar si gonfia orribilmente e bolle,
Ed or s'apre in voragini profonde,
Or minaccioso insino al ciel s'estolle;
E forza è pur che siegua il bastimento
L'impulso irresistibile del vento.
Salta questi ora a greco ora a levante
Ora a scilocco ognor più veemente,
E non tien mai direzion costante;
E verso Borea impetuosamente
Alla ventura il lacero naviglio
Senza guida correa, senza consiglio
Sei giorni per quei mari errò e sei notti,
Spinto or dall'una or dall'altra banda,
Finchè alberi e timon perduti e rotti,
Franse in un scoglio alfin presso l'Islanda;
E assorto fu dal tempestoso flutto
E tutto il carco e l'equipaggio tutto.
Salute a noi! Parmi d'udir, che giova
Narrarci tutta questa storietta;
Se dello scritto non saprem più nuova?
Ma di grazia bel bel, non tanta fretta,
Non dissi tutto ancor; se udir vorrete
A tempo e luogo suo, tutto saprete.
Era in quei tempi un galantuom maltese
Che nome avea Bartolommeo Gianfichi,
Grande e bel di persona; e in quel paese
Suo casato anche in oggi è de' più antichi;
Ma viveva Messer Bartolommeo
In un piccol villagio da plebeo.
Di fisica amator tenea compasso,
Barometri e termometri parecchi,
E grande si credea dal popol basso
Operator d'esperimenti vecchi,
Acre poi protettor dell'aria fissa,
Per cui con quei villan sempre avea rissa.
In tutt'altro però non si potea
Perito dirsi estremamente e scaltro;
Qualche termine tecnico sapea,
Nomi d'autor, del resto poi non altro;
E in ver pretender non si può che in tutto
Esser debba ciascun perito e istruito.
Necessario saria per farmi un nome
Diceva, e per vedere ed esser visto,
Scorrer l'Europa; e dicea ben, ma come?
Di contanti non era assai provvisto;
Ma si volle tassar tutto il villaggio,
E danaro gli dier per quel viaggio.
Bartolommeo seguir ne' viaggi suoi
Impegno mio non è, non è mio scopo;
Quello però che me interessa e voi
Dirò soltanto che alcun tempo dopo
Visitar volle il Nord, e a render paghe
Le brame sue, portossi a Copenaghe.
Ivi la pesca a far delle balene
Nave trovò ch'iva in Islanda, e tosto
D'ire in Islanda fantasia gli viene,
Sapendo che se un fisico a ogni costo
D'esser si ostina a grand'onor promosso,
Dee la pesca imparar del pesce grosso.
Vuol di più non fidandosi ai racconti
Fare oculare osservazione e seria,
Se l'Ecla è un monte come gli altri monti;
E se son di medesima materia
Le coste di quell'isola composte,
Con cui son fatte tutte l'altre coste.
Dunque i lidi lasciò di Danimarca,
Ed essendo da Islanda ancor discosta
Due miglia almen la peschereccia barca,
Osservò 1'Ecla e l'Islandese costa;
L'aria, l'acqua, le piante, il fuoco, i scogli
Analizzò da lungi; e ciò bastogli.
Facean la pesca i marinari intanto,
Mentre ei faceva esperimenti tali;
E balena chiappar grossa cotanto
Che poche a quella eransi viste eguali;
E con funi e con ganci indi fu tratta
In sul naviglio, e poscia in pezzi fatta.
E i metodi osservar ond'olio trarne,
Secondo porta l'uso e l'arte; e mentre
Quella massa volgean d'ossa e di carne,
Tubo trovaro in quell'immenso ventre
Di cera e di marina alga coperto;
Onde fu tosto avidamente aperto.
Perchè credean monete o verghe d'oro
Poter trovarsi in corpo alle balene;
Ma ben delusi rimaser coloro
Che solo vi trovar due pergamene
E per farvela corta, eran l'istesse
Che dal naufrago inglese ivi fur messe.
Ciò incredibil parrà, perchè sappiamo
Che il gorgozzul della balena è stretto;
La balena però di cui parliamo,
E che il tubo ingoiò, come s'è detto,
Per linea retta discendea da quella
Ch'ebbe Giona tre dì nelle budella.
Ciò dico sol per dimostrar che quando
Un fatto io narro, frottole non spargo;
E in prova del mio detto io vi domando
Qual de' due pesci ha il gorgozzul più largo,
Quei che un tubo di latta ingoja, ovvero
Ch'ingoja un uomo, anzi un profeta intero
Sebben Bartolommeo non avea fatto
Mai studio in lingue e non sapea l'Inglese,
Per vanità, per rarità del fatto,
Cannone e cartapecora richiese;
E da quelli idioti marinari
Ottenne tutto per pochi danari.
Di colà ritornando in sul cammino
Nave trovò che vela fea per Malta;
Maltese era il padrone e suo cugino,
Onde improvvisa in capo idea gli salta,
A Malta d'inviar per quel naviglio
Il tubo in una lettera a suo figlio.
La lettera dicea: «Figlio, buon giorno;
«T'invio questo cannon, tu custodito
«Tienlo, e ben chiuso fino al mio ritorno,
«Che non sarà di molto differito.
«Figlio, l'onor della genia Gianfica
«Ti raccomando, e il ciel ti benedica.
Il figlio si nomò ser Ciondolone;
Ricevè il tubo e custodito il tenne,
Nè di aprirlo ebbe mai tentazione
Il padre sol parola non mantenne,
Ch'indi a poco messer Bartolommeo
Morì in Polonia in casa d'un Ebreo.
Era ser Ciondolone uom grasso e grosso,
Torpido, pigro, e pien d'ozio e di noja,
Sdrajato o assiso, e non sariasi mosso
Suo padre stesso per salvar dal boja;
Non solea mai nè leggere nè scrivere,
E or son venti anni che cessò di vivere.
Vive oggi il figlio suo messer Valerio,
Giovin di garbo veramente e bravo;
Studia, sa molte lingue, ha del criterio,
E un giorno il nome eclisserà dell'avo;
Quando anni son viaggiando in Malta fui,
Sovente il vidi e conversai con lui.
Le pergamene ed il cannon di latta
In confidenza m'ha mostrato ei stesso;
E in Toscan la lettura me ne ha fatta,
Facendovi riflessi e note spesso;
Mi pregò a non parlarne, e non ne parlo,
E voi prego pur anche di non farlo.
Favellando del suo casato antico
M'assicurai ch'egli era un discendente
Di quel mio famosissimo Gianfico,
Di cui mi udiste ragionar sovente
Se apologhi, novelle od altro ho fatto,
Ai Gianfichi lo deggio, e questo è un fatto.
Dunque all'Anglo il Bramin la pergamena
Consegnò de' tradotti emblemi antichi;
Da quei passò nel ventre alla balena,
L'acquistò poi Bartolommeo Gianfichi;
Ciondolon l'ebbe, indi Valerio, ei poi
La fe' a me nota, io la fo nota a voi.
Degli apologhi miei la storia è questa;
E solo come quell'antico testo
Ai Bramini passasse saper resta;
Ma irreparabil v'è laguna in questo
Tratto d'istoria letteraria critica
E di cronologia preadamitica.
Consta per altro dalle addotte prove
Che le cose seguir di cui parliamo
Da nove cento mila ottanta nove
Secoli pria del tempo in cui viviamo.
Se computo sì vasto errore porta
D'alcuni mila secoli, che importa?
Fu nell'antica Menfi assai famoso
Egizian filosofo, che visse
Prima di Trismegisto e di Beroso,
E fe' computi molti e molto scrisse,
Ma sopra tutto del soggetto stesso
Trattò di cui trattar vogliamo adesso.
Quell'autor sostenea, che qualor sia
Un milion di secoli compiuto,
Le cose torneran come eran pria,
E tutti gli animai l'uso perduto
Di favellar ricovreranno allora;
Ma l'epoca è per noi lontana ancora.
L'opre di quell'autor io non ho viste;
Ma un manoscritto antico e mezzo muffo
In un convento di Calabria esiste;
Seppur il General Cardinal Ruffo
Stoppacci non ne fe' per l'archibuso
Caso non ne abbia fatto un qualche altro uso.
Posto quant'io dissi fin qui, che forse
Indispensabil era in verso o in prosa
Dei miei lettori avanti gli occhi porse
Per schiarir meglio e accreditar la cosa,
Perchè così le obbiezion prevengo
E maggior fe presso i lettori ottengo;
Cose narrai che non fur dette pria
Riti, mitologie straordinarie,
E di bestie la guerra atroce e ria,
Che specie ne distrusse e molte e varie,
Ed altre ne cacciò sino in Siberia
Ove perir di freddo e di miseria,
Che se di quell'esotico bestiame.
L'Ostiaco, il Calmucco, il Samojedo
Di sotterra talora il vasto ossame
Stupido estrae, di che stupir non vedo;
E la cosa non è contradittoria
Per quei che san l'animalesca istoria.
Di giganti o d'eroi famose lutte
O di bestie o di Dei (s'io vo' le ignote
Origini indagar) trovo di tutte
Le nazion nell'epoche rimote;
Ne risuona oriente, e appo la fredda
Zona polar canta battaglie l'Edda.65
E da ciò forse immaginar gli Achei
La gran battaglia e la famosa guerra,
Quando in Flegrea pugnar contro gli Dei
I temerari figli della terra,
E vinti dagli eroi cadder Centauri,
Cerberi, Idre, Pitoni e Minotauri.
Ciò forse ai vati d'oriente offerse
L'idea delle terribili tenzoni,
Come raccontan le memorie Perse,
Dei Dives mali contro i Peris buoni;
Gente che mai fra lor non ebber pace,
Chi d'Ariman, chi d'Oromas seguace.66
Fin gli spiriti immortali ed impassibili
Fervida fantasia cangiò in guerrieri,
E assurdità sì strane e sì incredibili
Si riguardan quai dogmi e quai misteri.
Son di guerra gli orror dunque sì sacri,
Che fin religion par li consacri?
E ogni qualvolta vinti e debellati67
Restaro i mali, fur da' buoni ognora
In più aspri climi ad aquilon cacciati,
Ove fissar la fredda lor dimora;
Quindi dice il proverbio, e dice bene:
Che tutto il mal dall'Aquilon proviene.68
Aggiungo sol per prevenir le critiche
Che qualche umor sofistico far suole,
Che in quell'antiche età preadamitiche
Costumi, usi, pensieri, idee, parole
Eran troppo diverse e differenti
Da tutto ciò che si usa ai dì presenti.
Quelle parole e quei pensieri stessi,
Ch'erano in uso allor, se in questi miei
Apologhi per tanto usato avessi,
Strano linguaggio e strano adoprerei
Stile inintelligibile ed astratto;
E forse forse passerei per matto.
Se ascoltaste però fra i miei Campioni
Nominar Generali e Colonnelli,
Altezze, Maestà, Conti, Baroni,
Usai moderni titoli, non quelli
Ch'erano in uso in quell'antica età,
Che oggi neppure il diavolo li sa.
E perciò la gentil vostra indulgenza
Spero m'accorderà che lo stil mio
S'adatti alla comune intelligenza;
E di scusar vi prego in oltre, s'io
Non posi pria, come pur era duopo,
I ghiribizzi miei che ho posti dopo.