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Giovanni Battista Casti Animali parlanti IntraText CT - Lettura del testo |
APOLOGO II
LE PECORE
Io non saprei per qual fatalità
Le bestie a' nostri dì non parlin più.
Poichè sappiam che nell'antica età,
Ma antica antica assai, così non fu;
Come fede ne fan Fedro ed Esopo,
Ed altri autor che son venuti dopo.
Delle Pecore il gregge allor solea
Gir pascolando per l'erboso prato
Liberamente ove più a lui piacea,
Senza esser mai malgrado suo guidato,
Come oggi dal pastor, dal pecorajo,
Nè venduto sovente al macellajo.
Ma la sua libertà, l'indipendenza
Avea però gl'inconvenienti suoi;
Che verun stato a ver dir n'è senza;
E come tutto dì lo veggiam noi,
Nel fisico non men che nel morale
È misto in questo mondo il ben col male.
Però mentre nascendo in santa pace
E Pecore gian, da fame spinto
Improvviso talor Lupo vorace,
Esercitando il natural istinto,
Nè ritrovando resistenza alcuna
Prendevane e pappavane qualcuna.
Che degli uomini ognor questa è la sorte,
Di tutti gli animai questo è il destino;
Il debole è vittima del forte.
E il pesce grosso mangia il più piccino:
E sempre la medesima comedia
Continuerà, se Dio non ci rimedia.
E poichè tutto dì si vede,
Che abusi ed abitudini maligne
Più che impunite son, più prendon piede,
Perciò seguian le scorrerie lupigne
A danno de' lanuti imbelli armenti
Sempre più perigliose e più frequenti.
Onde esigendo il pubblico interesse
Indispensabilmente alcun riparo
Che ai progressi del male argin ponesse,
Di consenso comun determinaro
In un solenne general consiglio
Cercar come distogliere il periglio.
Convien saper che nell'età primiera
In quella greggia infin allor salvatica
La forma del governo in parte ell'era
Democratica e in parte aristocratica,
E il gregge tutto in certe occasioni
Soleva deputare i suoi Montoni.
Non già perchè di specie differenti
Che da Pecore anch'essi erano nati;
Ma la mole, la forza, e l'eminenti
Corna facean che fosser riguardati
Dalle gregge più deboli e minori
Come i loro patrizi e senatori.
Ch'era comun fra loro il pregiudizio,
Che il picciol fosse un animal dappoco,
E il grande avesse sol spirto e giudizio;
Poichè proporzionando il senno al loco,
Dicean: gran contenuto aver non posso,
Se il continente non è grande e grosso.
Le Pecore pertanto a branchi a branchi
Sendosi unite in assemblee primarie,
Elessero i Monton più belli e bianchi
Che avesser qualità straordinarie,
E delle specie lor dalle votanti,
Denominati fur rappresentanti
E delle necessarie facoltà
Muniti fur che uso e dover prescrive,
Onde poter con piena autorità
Prender risoluzion definitive,
E previdenze che fosser credute
Opportune alla pubblica salute.
In luogo convenevol s'adunaro
I deputati de' lanuti armenti,
E ivi tutte a proporre incominciaro
Varie misure e vari espedienti;
E s'udir, come in tutte le adunanze,
Spropositi, sciocchezze e stravaganze.
Chi propose impedir l'accesso ai Lupi
Con circondarsi di ripari e fosse,
Chi d'ire ad abitar balze e dirupi
O luogo tal che inaccessibil fosse;
Chi disse avervi una risorsa sola,
Tender lacci e chiappargli alla tagliuola.
Altri doversi domandare ajuto
A qualche gran potenza animalesca,
Fare alleanza e a lei pagar tributo,
Orsi, tigri, Lion; che se riesca,
I Lupi allor più non avriano osato
D'inimicarsi un simile alleato.
Altri poi sostenea che al soldo loro
A ogni costo dovean prendersi i Cani,
Poichè bravi e fedeli eran coloro,
E i Lupi tenuti avrian lontani;
Come i Svizzeri avvien che in più paesi
Al lor soldo dai principi son presi.
Si fece innanzi un gran Montone intanto
Colle ritorte maestose corna,
Coda napputa e di lanoso manto
Pomposamente avea la groppa adorna,
Candido più che neve, e per rispetto
Da tutti Cornosavio er'egli detto.
Io lodo il vostro zelo patriotico;
Ma il nostro, ei disse, è un caso climaterico,
E il parlar vostro parmi alquanto esotico:
I vostri espedienti pan del chimerico;
Adattabili sino al caso pratico,
E nulla abbiano in se di problematico.
Vo' però esporvi schiettamente e subito
Pensier che in capo mio ravvolgo e medito,
E che l'approviate, io non ne dubito:
Nei proposti animai non ho gran credito;
Fidarsi in lor non è da buon politico;
Potrem trovarci in caso ancor più critico.
Ben io conosco altro animale, a cui
Che ci affidiamo estremamente approvo,
Perchè qualità tante io trovo in lui,
Quante in altri animali io non ritrovo:
E s'egli sovra ogni altro è sì perfetto,
Onta non è d'essere a lui soggetto.
È questi l'uom; l'uom solo allo sterminio
Potrà sottrarci, andiamo dunque a porci
Dell'uom sotto il possente patrocinio,
Come già fero Asini, Polli e Porci
E altri animai, che or se ne trovan bene.
Seguire i buoni esempi ognor conviene.
Fra gli uomini pertanto un de' primari
Da noi non lungi ha sontuosa sede,
Comanda a mandre ed a bestiami vari,
E campi e boschi e prati egli possiede:
Al caso nostro ei sol parmi a proposito;
Ogni altro espediente è uno sproposito.
Ma reciprochi far solenni patti
Dobbiam fra lui e noi chiari e lampanti,
Come suol farsi in tutti li contratti;
Che se avvien poi che alcun de' contrattanti
I patti rompa e se ne creda assolto,
L'altro lo è pur, ed il contratto è sciolto.
Docil ciascun Montone e mansueto
S'uniformò di Cornosavio ai detti,
E con concorde universal decreto
Dterminar di farsi all'uom soggetti;
E le condizion furon proposte,
E obbietti vi si fecero e risposte.
All'uomo ambasciador di quel consesso,
Stabiliti che fur quelli e altri punti,
Fu nominato Cornosavio stesso,
Cui per onor far tre colleghi aggiunti;
E all'uom signore del vicin paese
Il Pecorino ambasciador si rese.
Era questi un signor d'indole franca,
Saviouman giusto senza orgoglio, ed era
Comunemente detto Moscabianca,
Nome di cui non so l'origin vera,
E come comun padre er'egli amato
E nel paese e in tutto il vicinato.
Cornosavio quel dì candido e bello
Nobil di se spettacolo facea,
Lustre le corna poderose, e il vello
Lavato tutto e pettinalo avea,
Onde di Cornosavio al paragone
Più bel non fuvvi ambasciador Montone.
Com'era allor la Pecorina moda,
Pose tutta la cura in adornarsi;
Gran fiocco sulla fronte, altro alla coda,
Qua e là sul dorso vagamente sparsi
I cappi rossi sulla bianca lana,
E d'argentei sonagli una collana.
E Moscabianca, che oltre ai requisiti
Dell'animo e del core era un bell'uomo,
Erasi posto un de' più bei vestiti,
E gli facean corteggio il maggiordomo,
L'abate Zibaldon bibliotecario,
E Scartafoglio vecchio segretario;
Ed il mastro di casa abil leale,
Che chiamato venia messer Registro;
E il castaldo ed agente generale,
Ch'era una specie di primo ministro,
Pieno di zel, d'abilità, di fede,
E perciò nome avea di Buonafede.
In bell'ordin disposti eran non pochi
Coi ricchi spogli del padrone indosso
Paggi, cocchieri e camerieri e cuochi,
E altri che tutti numerar non posso;
E spettatori assai da entrambi i lati
Dalla curiosità colà chiamati.
Da una tribuna in fondo della sala
Stavasi ad osservar la cerimonia
La suocera di lui messa in gran gala,
Che si chiamava madonna Scarfonia,
Ed altre intorno a lei moderne e antiche
Donne di casa ovver di casa amiche.
Sopra tutte però la governante
Si distinguea, detta madonna Arpia,
Ed una bella e polpacciuta fante,
Ch'era custode della biancheria,
E si dicea dalla maligna gente
Che il Padron... io però non credo niente.
Venne con pompa tal di Moscabianca
Cornosavio introdotto all'udienza,
Che avendo i suoi colleghi a destra e a manca,
Fece con dignità la riverenza;
E con una bellissima parlata
L'oggetto espose poi dell'ambasciata:
O tu che hai tanto spirito e talento,
E su tanti animai tieni il dominio,
A te mi manda il pecorino armento
Il possente a implorar tuo patrocinio,
Che sol ci può salvar dalle molestie
E di Lupi voraci e d'altre bestie.
In compenso ti offriam grandi vantaggi,
Di Pecore ti offriamo il puro latte,
Onde squisiti far potrai formaggi;
Nostre lane li offriam candide e intatte,
Onde panni farai superbi e rari
Che ti daran gran credito e denari.
Nella calda stagion ci toserai,
L'inverno poi ci lascerai la lana,
Dalle Pecore il latte tirerai
Tre o quattre volte al più la settimana,
Acciò non restin tisiche e consunte
Dall'esser troppo munte e poi rimunte.
Altro inoltre potrai grande e sublime
Ritrar profitto dalle mie compagne,
Il pecorin fecondato concime
Che fertili farà le tue campagne,
Ed abbondante renderanno e molta
Di fromenti e di biade ampia raccolta.
A' patti tai ti diverrem vassalli:
S'essi giusti ti sembrano e gli accetti,
Osservali tu stesso e osservar falli;
Se non ti sembran giusti e li rigetti,
Quanto si è detto per non detto sia,
E libero ognun resti come pria.
E Moscabianca allori ispose: il patto
A me sembra giustissimo, e l'accetto.
Giuro perciò di conservarlo intatto,
Ed alza il dito e pon la mano al petto.
E Cornosavio, anch'io, dicea, lo giuro,
E mena un calcio e batte il corno al muro.
Compiuta in guisa tal quell'ambasciata
Dei circostanti e nobili e villani
Scoppia tutta la turba ivi adunata
In applausi, in evviva, in battimani;
E di clamore e di festoso chiasso
La sala risuonò dall'alto al basso.
I servi con livree pompose e ricche
Portaro in giro allor su gran bacini
I dolci d'ogni genere, pasticche,
Canditi, caramelle e biscottini;
Che in tutto brilla ognor nè mai si stanca
La generosità di Moscabianca.
E di ciò non contento, a desinare
Volle quel dì trattar quegli animali.
Frutta squisite, erbe odorose e rare,
Intrisi dì ciambelle e panducali;
E perchè in casi tai nulla sparagna,
Gli abbeverò per fin collo sciampagna.
Il trattato così di vassallaggio
Stipolato ne' modi già descritti,
Moscabianca al suo solito da saggio
Coninciò a usar degli acquistati dritti,
E pastor vigilanti e Cani buoni
Mise in guardia alle Pecore e ai Montoni.
A' suoi tempi le Pecore mungea,
Ma con moderazion, con carità;
Tosarle a' tempi debiti facea,
Ma non mica con troppa avidità:
E mostrossi in parole come in fatti
Costantemente osservator de' patti.
E dello stato suo nel cangiamento
Tranquillità trovando e sicurezza,
Di Cornosavio al bel suggerimento
Debitore perciò di sua salvezza
Il gregge, esente omai dalle disgrazie,
Gli volle decretar pubbliche grazie.
E dagl'insulti di vorace bestia
D'allora in poi fu sempre il gregge illeso,
E se Lupo osò mai dargli molestia
Fu ben tosto scacciato o ucciso o preso:
E grazie a Moscabianca ognor contenti,
E senza alcun timor pascean gli armenti.
Ma siccome ogni ben passa e non dura,
E ben dicea chi disse (e me ne avveggio
Ocularmente anch'io) che morte fura
Sovente il meglio e lascia stare il peggio,
Moscabianca uom rarissimo ai suoi dì,
Il fior dei galantuomini morì.
Più assai che in vita sua dopo la morte
I rari pregi suoi fur conosciuti,
E la perdita d'uom di quella sorte
Fu compianta dagli uomini e dai bruti;
Si neglige talor bontà e virtù,
E si venera allor che non v'è più.
Figlio differentissimo del padre
Erede e successor fu Scannafico,
Privo di qualità dolci e leggiadre,
D'ogni buon'opra e di virtù nemico.
Va peggiorando il mondo, e ognor si vede
Che il male al bene e il peggio al mal succede.
Un giovinastro er'ei d'orgoglio pieno,
Della ragion sprezzante e del consiglio,
Ritegno alcun non conoscea nè freno,
Del padre in somma era l'opposto il figlio.
Quando in talun indole rea si trova
Uom probo aver per genitor, che giova?
Congedò tutti quanti i vecchi e buoni
Servitori di cappa e di livrea,
E a quei sostituì sgherri e birboni,
Perchè simili a se tutti volea;
Scacciò pastori e sino i Can primieri,
E mise in vece lor Mastini fieri.
Scacciò quel galantuom di Buonafede,
Che avea bontade a intelligenza unita,
Già castaldo del padre, e il posto diede
A Sgraffigna garzon di mala vita,
Falso furbo avarissimo ribaldo,
Nè sceglier si potea peggior castaldo.
Dell'iniquo padron più iniquo servo
Dava ad ogni mal'opra il suo suffragio,
Vil col maggiore e col minor protervo,
Adulatore e consiglier malvagio.
A numerar non basterebbe tomo
I vizj suoi; del resto poi brav'uomo.
Scannafico facea tutto il riverso
Nell'azienda e nell'economia,
E metodo tenea tutto diverso
Da quel che il padre avea tenuto pria,
E la casa d'un uom sì buono e retto
Totalmente cangiata era d'aspetto.
E se ne avvider ben le Pecorelle,
Cui spesso i pecorai ladri e furfanti
Più che tosar, raschiar solean la pelle,
Onde di sangue i dorsi lor grondanti
Con tagli e tacche si vedean straziati
Dai crudi forbicion male adoprati.
Eran più volte al dì munte e spremute,
Come non latte già, ma sangue trarne
L'aspro pastor volesse, e divenute
Tisiche in cotal guisa e male in carne
Ivan sudicie, languide e tremanti,
Nè più quelle parean che furo innanti.
Aggiungi ancor, che dalli Cani stessi,
Per cui dovean dai Lupi esser difese,
Trattamenti soffrian barbari e spessi;
Dai feroci Mastini erano prese
Talora a morsi, e n'erano talora
E strangolate e divorate ancora.
E gemendo dicean fra lor sovente
Per dare al duolo interno un qualche sfogo:
Ben c'ingannammo noi barbaramente
A imporci da noi stesse il duro giogo,
Fonte perenne d'infiniti guai,
Da cui più non potrem sottrarci mai
Meglio non era assai che alcuna volta
Qualcheduna di noi di furto fosse
Da famelico Lupo in preda tolta,
Che tutto dì soffrir strazi e percosse,
E 1'avania crudel ch'usa con noi
Il padron duro e i subalterni suoi'
Ma aver dovean riguardo e cautela;
Che se per isventura erano udite
Soltanto proferir lagno o querela,
Severissimamente eran punite:
Nomar sol libertà, contratto o dritto,
Reputat'era capital delitto.
E se tentaron mai far priego o istanza
All'amministrator poc'anzi eletto,
Con altiero dispregio ed arroganza
Discacciate venian dal suo cospetto;
Nè lor ragioni essendovi a chi dire,
Tacer dovean le misere e soffrire.
Di Scannafico intanto un tratto indegno,
D'ogni altro tratto suo più vergognoso,
Ogni riguardo ruppe, ogni ritegno,
E rese Scannafico a tutti esoso,
E un inquieto universal fermento
Eccitò in ogni genere d'Armento.
Scannafico fra tanti altri suoi vizj
Sovranamente avea quello del gioco;
Onde un dì ne' suoi soliti stravizj
Con altri pari suoi perdè non poco,
Sicchè per aggiustar con essi i conti
Trovar contanti si doveano e pronti.
Il fattor, cui si diè tale incumbenza,
Per se e pel padron di far denajo
In un medestno tempo ebbe avvertenza;
Onde un contratto fe' col macellajo
Per vendergli bestiame, in cui pur anco
Di Pecore e d'Agnelli era un gran branco.
Intenzion sì perfida e maligna
Si sparse appena per tutti gli Armenti,
Concordemente feronsi a Sgraffigna
Rimostranze fortissime e lamenti,
Ma smuover quel fattor duro inumano
Dal proposito suo tentaro invano.
Quando poi l'empie intenzion compite
Videro e trar le vittime ai macelli,
La disperazion rese più ardite
Le greggi, ancor più mansuete e imbelli,
E le Pecore il lor campione antico
Deputar Cornosavio a Scannafico.
Acciò tosto dovesse e a dirittura
Indirizzarsi a Scannafico istesso,
E a lui con fronte intrepida e sicura
Del reo ministro dimandar processo,
Unico autor di tante iniquità
E dell'universal calamità.
E che sorpresa aveva, anzi sedotta
Con perfida e malvagia intenzione
La religiosità, la fe incorrotta
Del loro clementissimo padrone,
E meritato con enormi falli
L'odio dei fedelissimi vassalli.
Cornosavio, che vecchio era ed infermo
Dispensarsi volea da quell'onore,
Ma nol permiser quelle, e tenner fermo
Onde pel ben comune e per l'amore
Che portava alla specie, a lui convenne
Quella accettar deputazion solenne.
Dunque in un tal determinato giorno
Di Scannafico rendesi alla reggia,
E grande di Monton dietro e d'intorno
Seguito l'accompagna e lo corteggia:
Per via l'onoran tutti al suo passaggio;
Tutti applausi gli fan, gli fan coraggio.
Non volea Scannafico il deputato
Con fior dispregio nè veder nè udire:
Da Sgraffigna però fu consigliato
D'ammetterlo, onde poi poter l'ardire
Di quel sedizioso e temerario
Punire cori rigor straordinario.
Poscia che Cornosavio entrar fu fatto
E del padrone ammesso alla presenza,
Franco parlò, citò il trattato e il patto,
Perorò con gran forza ed eloquenza,
E gettò tutta coraggiosamente
La colpa sul Fattor ivi presente.
Quei minaccioso in lui lo sguardo fisse,
Sbuffando perla rabbia e pel dispetto;
Ma Scannafico l'interruppe, e disse:
Che si tolga colui dal mio cospetto;
Troppo il soffersi; quella bestia oscena
Di sua temerità paghi la pena.
Con me parlar di patto? a me dar leggi?
Contrariar ciò ch'io comando e voglio?
E ancor non sa quel vile e schiavo gregge,
Ch'io leggi dare e non ricever soglio?
E ancor non sa che i pari miei son nati
Al di sopra dei patti e dei trattati?
Severissimamente innanzi sera
Vo' che punita sia quella bestiaccia,
Che in tale insolentissima maniera
Osò parlare a Scannafico in faccia;
Non minor del delitto abbia gastigo:
Sgraffigna udisti ben? da te l'esigo.
Partì ciò detto il fiero Scannafico,
Di Cornosavio in guisa tal la sorte
Abbandonando al suo più fier nemico;
Che a forza il fece fuor di quella Corte
In luogo trarre ove solea l'impura
Immondezza gettarsi e la sozzura.
Qui gli spietati sanguinari sgherri
Col truce sguardo e colla faccia arcigna
Steserlo a terra, e sguainati i ferri
Al fier comando del crudel Sgraffigna,
Nelle parti maschili, ahi duro caso!
Il povero Monton fu mozzo e raso.
La prima volta a vero dir fu quella,
Che usanza incominciò sì maladetta,
Poichè venne a Sgraffigna idea sì fella
Per far di Cornosavio alta vendetta;
E il povero animai di cui parliamo,
Infra i castrati si può dir l'Adamo.
Dell'atto iniquo abbominevol empio,
D'invenzion sì mostruosa e strana
In altri poi continuò l'esempio,
Massimamente nella specie umana;
Che assurdità non è, stranezza o vizio,
Se lungo uso l'approva o pregiudizio.
Altri per ispiegar la voce al canto
In sulle scene effeminato e molle,
Altri per porre al debol sesso accanto
Impotente guardian (geloso e folle)
Virilitade a sterminare imprende,
E di natura i sacri dritti offende.
O distruttori della specie vostra,
O vitupero dell'umana stirpe,
Nè v'è forza di legge al'età nostra
Che voi dal suolo de' viventi estirpe?
Ma riprendiamo il fil; che invan v'attedio
Sclamando contro un mal ch'io non rimedio,
Quell'orator del Pecorin bestiame
Della sventura ria che gli successe
E dell'infanda operazione infame
Alla vergogna ed al dolor non resse,
E condannollo la sua dura sorte
A un nuovo osceno genere di morte.
Pianser le Pecorelle il lor Montone,
E gli eresser lugubre monumento,
Ove ogni anno veniano in processione
A farvi sopra flebile lamento;
E in ricordanza di quel caso reo
Un epitaffio fer sul mausoleo:
Qui giace l'animal che, assoggettato
La greggia avendo a schiavitudin ria,
Visse Montone e poi morì castrato.
O musico che passi per la via,
Il passo arresta, e a tal memoria acerba
Sopra la tomba gettagli un po' d'erba.
Ma come uso introdotto ognor bel bello
Prende vigore e dall'orror dispensa,
Perciò i castrati spesso dal macello
Del padrone passavano alla mensa.
Ciò il mal animo sparse e il mal contento
In qualunque altro genere d'armento.
Perchè il Porco, il Cavallo, il Cane, il Toro,
E qualunque animai forte e potente
Parea che concertassero fra loro
Sediziosi moti; onde il prudente
Ministro volse il provvido pensiero
Ad un qualche ripiego del mestiero.
Poichè dicea: cogli animai più forti
Politica non è d'imbarazzarsi;
Coteste bestie de' pretesi torti
Son capaci talor di vendicarsi;
Meglio trattar coi deboli si suole,
Per lo più se ne fa quel che si vuole.
Parlonne a Scannafico; e dimostrogli
Talor doversi almeno in apparenza,
Per prevenir così disturbi e imbrogli,
Far pompa d'alcun tratto d'indulgenza
Pubblicamente e gettar polve agli occhi;
Giacchè composto è il pubblico di sciocchi.
Usar qualche riguardo: exempli grazia,
Modificar di dura legge il senso,
Conceder privilegio o dritto o grazia,
E di danni e gravezze alcun compenso,
Che interpetrar possiam come ci frulla;
Cose, che in fondo non concludon nulla,
Ma che per altro fatte a tempo e a loco
Calmano i lagni e fan tacere i critici,
I quali si capacitan con poco,
Come osservano e insegnano i politici;
Perchè quantunque, ei soggiungea, poss'io
Dir sopra ogni materia il fatto mio,
In politica poi, se tu vorrai
Tutto cercar da capo a piedi il mondo,
Politico trovar tu non potrai
Più sublime di me nè più profondo;
Onde la gloria e gl'interessi tui
A me confida. E quei rispose a lui:
Fa un po' tu, quei che vuoi, e non seccarmi
Cogli aforismi e colle tue freddure;
Io vo' viver tranquillo e vo' spassarmi;
A te perciò lasciai le seccature,
Diedi a te piena autorità: fa tu,
Nè venirmi, ripeto, a seccar più.
A cui Sgraffigna: egregiamente dici;
Spassati, e sta tranquillo, io farò tutto;
Per noi son fatti gli operosi uffici,
Tu dei goder di tua grandezza il frutto.
E fa un inchino, e di partir non tarda,
E il gentil suo signor nemmen lo guarda.
Giusta il supremo venerato oracolo
Sì comodo per lui, come intendeste,
Sgraffigna omai più non temendo ostacolo
Dell'assoluta autorità si veste
Che sacrosanto e incensurabil rende
Qualunque arbitrio che a capriccio prende.
Tutta perciò la pecorina razza,
Siccome quella che facea più chiasso,
Fe' convocare in spaziosa piazza;
E sopra un certo pulpito di sasso,
Ch'ivi era a caso, in gravità montò,
E un sermon studiato incominciò:
Per ordine special di Scannafico
Convocai questa pubblica adunanza.
Statevi dunque attente a quel ch'io dico;
Che l'affare è dell'ultima importanza.
Decidere ei potea, ma ir volle adagio,
E udirne il vostro libero suffragio.
E da questo imparate, o bestie mie,
Qual abbiate padrone umano e degno,
E mutai non siate a' suoi voler restie,
Nè di lui provocate il giusto sdegno;
Sopra tutto ai ministri organi suoi
Rispetto abbiate. Ora veniamo a noi.
O violenta o natural che sia,
È indifferente il genere di morte;
Sempre con filosofica apatia
Guardar si deve ed incontrar da forte.
Questo punto per base pria fissato,
Proseguiamo il discorso incominciato.
L'uom pel padron va in guerra; e onor più bello,
Morte non v'è per lui più gloriosa.
Perchè a voi pel padron d'ire al macello
Gloria non fia? è al fin la stessa cosa.
Avreste forse in capo il pregiudizio
D'aver voi più che gli uomini giudizio?
Ma poichè nelle Pecore l'idee
Non son siccome in noi distinte e chiare,
Cotal filosofia forse non dee
Parer sì chiara a lor, come a noi pare;
Perciò levossi a quel tratto oratorio
General susurrio nell'uditorio.
Ma proseguia Sgraffigna: io son d'avviso,
Se esaminar si vuol qual sia maggiore
L'onor che dopo morte ottien l'ucciso,
Quei che al macello o quei che in guerra muore,
Doversi, e proverollo ad evidenza,
A chi muor nel macel la preferenza.
Il valoroso Eroe che muore in guerra,
Dalla vil moltitudine indistinto
Si brucia o vanne a putrefar sotterra:
Ma l'animale nel macello estinto
S'orna, si lava ben, se ne ha gran cura,
E in corpo d'un signore ha sepoltura.
Il gregge nell'udir tai catechismi
Entrò di mal umor, storceva il naso,
E di quei filosofici sofismi
Non parea ben convinto e persuaso;
Ma a quella indignazion degli ascoltanti
Colui punto non bada, e tira avanti:
Il più bel privilegio all'uom concesso
E di poter di quanto a far s'avrà
Dopo la morte sua disporre ei stesso:
Or la clemenza e la natia bontà
Di Scannafico, a cui servir mi pregio,
Oggi accorda anche a voi tal privilegio.
Stavasi la lanuta ampia famiglia
Attenta il fin di quel discorso a udire.
Scannafico, Sgraffigna allor ripiglia,
Concede a voi la libertà di dire
Liberamente come voi bramate
Dopo morte esser cotte e cucinate.
Nè cucinate esser vogliam nè cotte,
Gridò la greggia tutta unitamente;
Ma fur le voci lor tronche e interrotte
Dal ministro crudel, che gravemente
Elevando le man silenzio impone.
Questa non è, dicea, la questione.
Voi cangiate all'affar natura e nome;
Vagando non andiam, battiamo il chiodo:
Non vi si chiede il se, si chiede il come;
Nè sulla cosa già, ma sopra il modo
Dar si dee categorica risposta
Perciò qui siete convocate a posta.
No non vogliam, mentre ei dicea così,
Seguivan quelle, e ne facciam protesta,
Noi non vogliam... e quegli, e siam pur lì,
La question, diss'io, non è cotesta;
Deh non usciam dal seminato fuora;
Io già vel dissi, e vel ripeto ancora:
Voi cotte e cucinate esser dovete.
Su di ciò non si chiede il parer vostro.
Come esser cotte sciegliere potete,
Per clemenza e bontà del padron nostro.
Stiamo sul punto, e non ne andiam lontano;
Di ciò si parli, il parlar d'altro è vano.
Ma persistendo ognora e questi e quelle
Cocciutamente nel parer di pria,
Colui non volle più sprecar con elle
La sua ministerial filosofia.
S'imbruschì, gli montò la bile al naso,
Ed esclamò da nobil cruccio invaso:
Non meritate voi, bestie cornute,
Sì benigno e magnanimo padrone,
Tutte le cure son con voi perdute,
V'abbandono alla sua indignazione,
E al diavol che vi porti; e in dir così
Discese giù dal pulpito, e partì.
Il diavol porti te, dicean fra i denti
L'una e l'altra guardandosi sul muso
Le Pecorelle allor; che sentimenti!
Che autorità! qual di potere abuso!
Poscia chi qua, chi là le zampe volse;
E in questa guisa l'assemblea si sciolse.
Sgraffigna fe' il rapporto a Scannafico,
E a lui rappresentò che con coloro
La compiacenza non giovava un fico,
E a usarne ancor ne gia del suo decoro;
Poi soggiungea: se voglion criticare,
Lasciali dir, purchè ci lascin fare.
Mai bestie gratitudine non hanno,
Non scernon chi benefica e chi insulta.
Non curan benefizio? abbiansi il danno;
Dal comun mal sempre alcun ben resulta:
Più che da te saran neglette e oppresse,
Più avran bisogni, e più ti fian sommesse.
Così l'iniquo consiglier favella;
E Scannafico dava appena ascolto,
E colle dita in sulle man strimpella,
Sbadiglia, e pinta avea la noja in volto;
Dall'agiato sofà non si scompose,
E sdrajato com'era a lui rispose:
Conta a chi udir li vuole i dogmi tui,
E le massime tue tientele teco
Non vo' imparare a vivere d'altrui,
E le massime mie nacquero meco:
Io pensieri non vo', non vo' molestie,
E per me son lo stesso uomini e bestie.
Mentre il ministro ed il padron contrasto
Facean fra lor, con mutui sentimenti
D'ignobil alma e cor corrotto e guasto,
Fino il senso del mal perser gli armenti;
E vani essendo i sforzi e le querele,
S'abbandonaro al lor destin crudele.
E come avvien di mal che lungo dura,
Credettero i lor mali irreparabili
Ed inerenti alla di lor natura
E dalla specie loro inseparabili,
E li soffriron con mansuetudine.
Tanto può pregiudizio ed abitudine!
E sempre il mondo gemerà fra queste
Triste sequele di sistemi strani,
Finchè scintilla elettrica celeste
Noti iscuota il torpor dai petti umani,
Onde nell'ordin natural ridotto
E ne' confini suoi rientri il tutto.