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Anton Giulio Barrili Il ritratto del diavolo IntraText CT - Lettura del testo |
VI.
Il guasto intervenuto nell'affresco di Spinello Spinelli aveva fatto chiasso in città; ne aveva fatto forse più della notizia, corsa un mese addietro, che ad Arezzo fossa toccata la fortuna di possedere tra' suoi cittadini un pittore.
Molta gente accorreva nel Duomo vecchio, per vedere il povero San Donato, il patrono della città, diventato di tutti i colori. E gli amici di Spinello si dolevano a quella vista, e i nemici si rallegravano. Aveva già dei nemici, Spinello, oltre i suoi compagni di bottega? Sicuro; e perchè no? Tra i nemici di un uomo che lavora, ci potete mettere tutti i fannulloni d'ogni risma, il maggior numero, insomma; gente leggiera, che vi loda quando non può farne di meno, ma che, venuto il momento buono, è sempre felice di potervi assestare uno scappellotto.
Con tanta folla, e di un umore così benevolo come potete immaginarvi, le chiacchiere erano molte, davanti all'affresco del pittor novellino. Quando giunse in Duomo il vecchio Jacopo, seguito da Spinello Spinelli e da Tuccio di Credi, che aveva voluto andarvi anche lui, per confortare l'amico, si faceva capannello intorno ad un pezzo grosso, che era (fategli di berretta!) messer Lapo Buontalenti. I quattrini non gli mancavano, a quel giudice di cose d'arte; n'aveva tanti, che potevano tenergli luogo di giudizio.
- Buon dì, mastro Jacopo! - disse il cavaliere, accompagnando la frase con un risolino sarcastico. - Che siete forse venuto per vedere il lebbroso?
- Maisì, messere; - rispose il vecchio pittore; - un lebbroso che sarà risanato.
- Ah, bene! - ripigliò il Buontalenti. - Sarete dunque voi, che farete il miracolo?
- Non lo farò io, messere; lo farà il mio discepolo Spinello, a cui è toccato questo tiro mancino.
- E riderà bene chi riderà l'ultimo; - soggiunse Spinello, passando attraverso il crocchio, e dando un'occhiata severa al beffardo suo giudice.
- Il Buontalenti non poteva lasciar passar nè l'occhiata nè la risposta. Egli rideva, appunto, e scherzava sulla disgrazia del pittore. La bottata era dunque per lui.
- Dite per me, giovinotto? - chiese egli con piglio altezzoso. - Sappiate che io non rido di voi. Solamente compiango chi si crede da più degli altri e non sa far buon viso ad una giusta osservazione.
- Compiangete dunque voi stesso, messere, - gli rispose Spinello, - che venite ad impancarvi tra i giudici, senza sapere da che parte si tenga un pennello. -
E passò oltre, appoggiando la risposta con una alzata di spalle.
- Sentite questo ragazzaccio? - gridò il Buontalenti. - Se non fossimo nella casa di Dio, mi verrebbe voglia di allungargli una pedata.
- Lasciate correre, messere; - gli disse un savio. - Questi pittorelli sono otri pieni di vento, e s'hanno a sgonfiare da sè.
- Sapessero almeno il valor delle tinte! - soggiunse un altro. - E invece mettono negli affreschi i colori di miniere, scambio dei vegetali.
- Chi l'ha detto?
- Eh, l'han detto parecchi; tra gli altri messer Bindo del Rosso, che è dei massari. Anch'io, del resto, che ho avuto pratica con pittori, posso assicurarvi che la cosa non è andata altrimenti. Lavorare in fresco, che si canzona? Non è mica come sorbire un uovo; - continuò l'oratore, vedendo di avere tirato a sè l'uditorio. - Certo, è il modo più maestrevole e bello di dipingere, perchè consiste nel fare in un giorno solo ciò che con gli altri modi si può in molti giorni ritoccare sopra il lavorato. Ma, per fare un'opera che valga, bisogna lavorare sulla calce che sia fresca, nè lasciata mai sino a che sia finito quel tanto che per quel giorno si vuole lavorare. Mi spiego? Infatti, quando il pittore indugia a dipingere quel tratto di muro che è stato preparato per ricevere i colori, la calce fa subito una certa crosterella, pel caldo o pel freddo, pel vento o pel ghiaccio, e vi ammuffa e macchia tutto il lavoro. E per questo vuol essere continuamente bagnato il muro che si dipinge; i colori che vi si adoperano, tutti di terre, non di miniere; e il bianco, poi, di travertino cotto. Da ultimo, quando si è dipinto, bisogna guardarsi di non avere a ritoccare il quadro con colori che abbiano colla di carnicci, o rosso d'uovo, o gomma, o draganti, come fanno certi guastamestieri; perchè, oltre che il muro non fa il suo corso di mostrar la chiarezza, vengono i colori appannati da quel ritoccar di sopra, e in poco spazio di tempo anneriscono. Ora, io dico, questo giovinotto che s'è buttato a dipingere in fresco, non le sapeva, queste cose? E se non le sapeva, come pare da quest'opera sua andata a male, perchè allogare a lui una medaglia di tanta importanza?
- Già, - disse il Buontalenti, - perchè allogare a lui la medaglia? Che ne pensate voi, Tuccio? -
La domanda era rivolta a Tuccio di Credi, che poco prima si era avvicinato al crocchio.
- Io, messere, - rispose Tuccio con aria discreta, - penso che il povero Spinello sia stato tradito da qualche compagno d'arte, invidioso della sua fama. Perchè, in verità, supporlo ignaro dell'effetto dei colori, non si può. Tanto varrebbe il dire che egli non conosce i primi elementi della pittura.
Indi, accostatosi con bel garbo a messer Lapo Buontalenti, come se domandasse licenza di passar oltre, gli fece un inchino e gli gittò un'occhiata d'intelligenza.
- Fermo qua, - disse il Buontalenti, prendendolo famigliarmente per un braccio, ma accompagnandolo un tratto più oltre, anzi che trattenerlo. - Voi dunque pensate?... Voi sospettate che.... -
Indi, a bassa voce, mutato argomento, proseguì:
- Che ci avete di nuovo?
- Ho da parlarvi, messere; - rispose Tuccio di Credi. - Il padre è più incocciato che mai a volergli dare la ragazza. Bisognerà pensarne un'altra.
- Bene, venite stasera da me; saremo soli; - disse il Buontalenti.
Tuccio di Credi si allontanò, per andare a raggiungere Spinello e messer Jacopo, che stavano in sagrestia a leticare coi massari del Duomo. Dico che stavano, ma potrei restringermi al singolare, poichè Spinello taceva, e mastro Jacopo sosteneva tutto il carico della conversazione con quei bisbetici messeri.
Mastro Jacopo, quando lasciava di brontolare e si disponeva a chiacchierare, avrebbe potuto dar dieci punti dei sedici a Marco Tullio Cicerone. S'intende a Marco Tullio, quando parlava pro domo sua. Infatti, il vecchio pittore, trattando la causa di Spinello, parlava anche un pochettino per sè. Non era lui che aveva allogato il lavoro al discepolo? E quel discepolo non doveva sposare la sua bella figliuola? Immaginate dunque gli sforzi d'eloquenza che fece coi massari del Duomo. Spinello aveva fatto un'opera maravigliosa, e su questo non ci cascava dubbio, lo avevano riconosciuto tutti, massari e non massari. Quanto alle tinte e alla buona preparazione della calce, non c'era stato niente di diverso, pel Miracolo di san Donato, da ciò che aveva fatto lui, mastro Jacopo, per gli altri affreschi del Duomo. Il tradimento era certo, e veniva da qualcheduno dell'arte. Anzi, mastro Jacopo e Spinello Spinelli sapevano già dove metter le mani. Del resto, non temessero i massari; a quel guaio si sarebbe rimediato prontamente. Se a loro premeva il decoro della chiesa, a Spinello Spinelli premeva altrettanto, se non più, la sua fama. Ai tristi non sarebbe rimasto altro guadagno che di far lavorare doppiamente quel povero e valoroso giovinotto. Ma questo non importava, e nello spazio d'un mese si sarebbe veduto un Miracolo di san Donato bello come il primo e condotto secondo ogni regola d'arte. Non era solamente impegnato in quell'opera l'amor proprio di Spinello, ma altresì l'onore del maestro e di tutta la sua scuola, a cui non era mai accaduta una cosa simile.
- Del resto, - soggiungeva mastro Jacopo, - questa volta ci sarò io a vegliare, e non entreranno in Duomo altri colori che quelli macinati e mesticati da noi. -
I massari chinarono la testa, in atto di assentimento, e diedero licenza a mastro Jacopo di fare in tutto come gli piacesse meglio, ma a sue spese e sotto la sua malleveria.
- Non temete, messeri onorandissimi; - rispose il vecchio pittore, abbastanza contento di averla aggiustata in quel modo. - Ho giurato di smettere i pennelli, se la cosa non va come è giusto che vada. -
La mattina seguente, chiuso il Duomo ai curiosi importuni, i manovali si fecero tosto a rizzare una nuova impalcatura, nella cappella di San Donato. Frattanto, Spinello Spinelli, andando dalla bottega al Duomo, ci aveva da rispondere a tutti coloro che lo fermavano per via, e da mandar giù le condoglianze più o meno sincere, che tornano così moleste ad un galantuomo, quando ci ha l'anima oppressa.
Io non riesco a capire come mai non ci pensino, le persone cerimoniose, all'effetto di certi loro discorsi. Basterebbe il dire: "v'e andata male, abbiate pazienza, rifate e prendete la vostra rivincita". Ma no, bisogna proprio che vi s'accostino con aria malinconica, che vi stringano la mano con tutt'e due le loro, che levino gli occhi al cielo in atto di fare a Dio l'offerta dei vostri dolori, e che vi facciano una stampita da non finirla più. E voi escite dalle loro consolazioni più disanimati che mai. Peggio, poi, quando le condoglianze vi sanno di bugiardo, perchè allora ci avete anche la nausea, dovendo dar fuori il dolce e tenervi in corpo l'amaro.
Spinello Spinelli, come potete argomentare da questo discorso che io vi ho fatto secondo la sua intenzione, cansava molto volentieri ogni incontro. Nello stato d'animo in cui egli si trovava, ogni conoscente era un seccatore. Da bottega al Duomo; dal Duomo a bottega; era questo il suo itinerario quotidiano, compiuto con una rapidità da meritargli il soprannome di Saetta.
La nuova impalcatura era stata rizzata dai manovali; e Spinello, come potè avvicinarsi al suo povero affresco, non durò fatica a riconoscere che, scambio di terre, gli avevano macinato colori minerali, con qualche altra diavoleria per giunta alla derrata. Ma che cosa fosse veramente questa diavoleria, nè egli, nè mastro Jacopo riuscivano ad intendere, mancando a quei tempi il benefico trovato delle analisi chimiche. Ambedue maledissero un'altra volta il Chiacchiera e lo votarono agli spiriti maligni, come usavano fare gli antichi Ebrei col capro emissario della tribù; indi Spinello si diede a rifare i suoi cartoni, in quella che i manovali scalcinavano la vòlta.
Disgraziato affresco! Egli sparì dopo aver brillato una settimana agli occhi della moltitudine stupefatta; sparì, come sparisce una donna leggiadra, dopo avere innamorato mezzo mondo della sua fiorente bellezza. Ma quantunque la fine dell'affresco di Spinello Spinelli fosse stata precoce, non gli era toccata la sorte delle belle donne che muoiono giovani, poichè s'era da un giorno all'altro imbruttito e ne avevano detto corna quegli stessi che più lo avevano lodato. Instabilità degli umani giudizi!
Animato da un po' di rabbia, ma più dai conforti della bella Fiordalisa, Spinello si pose all'opera e lavorò per quattro. Già si capisce che il ritratto di madonna fu per allora rimesso a dormire. Infelice ritratto! Non era venuto bene da principio, e meritava la sua sorte.
Mastro Jacopo non si dolse di ciò. Egli, che pure aveva spese tante parole a consigliare quell'opera, fu il primo a dire che era meglio lasciarla da banda. Un po' di intervallo ci voleva, perchè l'animo si mettesse in pace e l'occhio del pittore si liberasse da certi dirizzoni; più tardi si sarebbe veduto. Ma Spinello non contava di ripigliare il lavoro, nè più tardi, nè mai. Sapete già che nella impossibilità di ritrarre i lineamenti di Fiordalisa egli ci vedeva l'effetto di una malia. Perchè avrebbe richiamato lo spirito maligno, che si beffava così crudelmente di lui? Meglio era non pensarci affatto.
Del resto, il Miracolo di san Donato richiedeva tutto il suo tempo. Spinello era pieno d'ardore e passava sul trespolo le intiere giornate, lavorando alla brava. I pennelli, nelle sue mani, andavano e venivano come la spola in mano alla tessitrice. Un mese dopo la scena coi massari del Duomo, che v'ho raccontata più su, il nuovo affresco era condotto a termine. Tutto era stato osservato con diligenza, e direi quasi passato allo staccio, la calce, la rena, i colori. Mastro Jacopo vegliava come uno degli Otto; nessuno, oltre lui e Spinello, aveva potuto metter piede sul ponte. Anzi, il vecchio pittore aveva spinto il rigore a tal segno, che lo scaccino del Duomo dovesse vietare a lui stesso a lui, mastro Jacopo, di salire sull'impalcatura, se non fosse stato presente Spinello.
- Non si sa mai! - diceva egli ridendo. - Potrei essere sonnambulo, venire in Duomo senza avvedermene e tentare di salire quassù; per fare qualche tiro mancino, sotto la guida del diavolo. -
I massari degnissimi videro il nuovo dipinto e si congratularono col giovine artista per la sua diligenza, come per la sua valentia. Il popolo fu chiamato e ammirò. Spinello, rifacendo, aveva mutato alcune cose, pensando che potesse vantaggiarsene il quadro. E certamente la composizione, restando suppergiù quella di prima, ci aveva guadagnato di scioltezza; il disegno appariva più corretto, e tutte le parti assai meglio dipinte. Chi ha dovuto rifare un lavoro, anche lodato nella sua prima forma, intenderà queste cose. Ma non mancarono neanche i sofistici, per sentenziare che il primo affresco era meglio. E forse, anche senza saperlo, dicevano il vero, poichè la freschezza di una prima impressione non si ripete più, anche facendo un più corretto lavoro.
Lodato, levato a cielo, messo a confronto con sè medesimo, Spinello non era tuttavia con l'animo all'altezza della sua riputazione. Il poveretto sfioriva, avvizziva, intristiva ad occhi veggenti.
- Ragazzo mio, - gli disse un giorno Mastro Jacopo, - tu non sei contento dei fatti tuoi; tu aspetti qualche cosa, come a dire la manna del cielo.
- Che dite, maestro! - esclamò il giovinetto, confuso.
- Negalo, se ti basta l'animo. Non sarà la manna, lo capisco, ma qualche cosa di simile. Per esempio, - soggiunse maliziosamente il vecchio pittore, - una parolina di quel certo babbo. Ed io, scimunito, m'ero messo in testa che ti bastasse la gloria!
- Oh, padre mio, - rispose Spinello, indovinando finalmente dove volesse andare a battere mastro Jacopo, - la gloria è una bella cosa, soltanto perchè è donna. Ma una donna vera, sia detto con vostra licenza, vale assai più della gloria, che è donna solamente per grammatica.
- Eh! non dirai mica sempre così; - ripigliò mastro Jacopo. - Come tu mi vedi, io amo adesso la gloria, che è donna per burla. È vero che anch'io non sono più l'uomo di prima. Tuttavia, quando aveva i tuoi anni, amavo una cosa e l'altra, anzi una cosa per l'altra. Ma infine, siamo giusti, non è questo ciò che tu fai? Desideri di risplendere, d'innalzarti, per raggiungere un fiore.
- Ed un fiore che voi tenete tropp'alto con la mano; - disse Spinello, ridendo.
- Sì, eh, manigoldo! Troppo alto? Stiamo a vedere che dovrei buttartelo tra' piedi! Ma basti di ciò; - soggiunse mastro Jacopo, vedendo che il povero innamorato si faceva serio da capo; - che diresti tu del giorno di San Luca? Sai pure. San Luca è il patrono dei pittori.
- Dico, - rispose il giovane, chinando la testa, - che san Luca verrà fra trentadue giorni.
- Ti paion troppi? Contentati! Anche Fiordalisa ci ha i suoi apparecchi da fare. -
Spinello Spinelli si buttò nelle braccia di mastro Jacopo.
- Animo, via! - brontolò il vecchio pittore. - Non piangere, io credo di aver disimparata quest'arte, e potrei esser geloso di te.
Così dicendo, mastro Jacopo asciugava due luccioloni, che erano venuti proprio allora a farlo bugiardo.
Quel giorno, Spinello Spinelli entrò raggiante in bottega. E Parri della Quercia e Tuccio di Credi, opachi e taciturni lavoratori, levarono gli occhi stupiti a contemplare quel giovine cherubino, che non capiva più nella pelle.
- Che c'è? - disse Parri della Quercia. - Vi fiammeggiano gli occhi.
- Lo credo io! - rispose Spinello. - C'è... c'è, amici miei, una grande novità. Ve la dò a indovinare alle cento.
- Dio buono! - esclamò Parri della Quercia, - si tratta di una cosa che vi fa molto piacere.
- Benissimo! Avete indovinato alla prima.
- Eh, che sia una cosa allegra lo si vede dalla vostra cera. Che cosa sia, poi, aspettiamo di udirlo dalle vostre labbra, poichè non basterebbero a noi, nè le cento, nè le mille.
- San Luca! San Luca! - gridò Spinello, saltando, e abbracciando l'amico Parri. - Mi capite? Il giorno di San Luca.
- Cade se non m'inganno ai 18 di ottobre; - rispose Parri della Quercia.
- Che importa a me quando casca? Volevo dirvi che quel giorno io sposerò madonna Fiordalisa.
- Ah! - disse Parri. - Abbiate le mie congratulazioni. Quantunque, potete anche farne di meno.
- V'ingannate, Parri; le congratulazioni degli amici ci esprimono il loro animo e portano fortuna come gli augurii. E il vostro e quello di Tuccio mi saranno carissimi. -
Tuccio di Credi, così chiamato a parte della gioia di Spinello Spinelli, lasciò di macinar colori, per rispondere col suo accento grave, che pareva scaturire dagli abissi:
- Siate felice!
- E voi mi sarete compagni alla cerimonia, non è vero? - ripigliò Spinello, che era avvezzo al tono di voce dell'amico Tuccio e non doveva farne più caso.
- Sicuramente, - rispose Parri della Quercia. - La vostra allegrezza è la nostra.
- Ed è grande, sapete? Così grande che io non la posso contenere; così grande, che ho sempre paura di.... Ma non diciamo sciocchezze. Volevo soltanto farvi intendere che gioia profonda sia quella di possedere chi s'ama, quando si ama....
- Come voi amate, ho capito; - disse Parri della Quercia, col suo placido viso.
Era contento quel buon diavolaccio di Parri. Non si sentiva nato per nessuna altezza, e dalla sua mediocrità consapevole, ma non gelosa, godeva di ammirare i fortunati che andavano su, fin dove un uomo può andare, per cogliere ciò che è più desiderato nel mondo, una corona di alloro o un amplesso, il bacio della gloria o un bacio di donna.
Tuccio di Credi, per contro, era diventato livido come un cadavere. Ma già, voi lo sapete, Tuccio di Credi aveva la faccia di colore olivastro, e queste tinte illividiscono facilmente ad ogni commozione dell'animo. Ora, il lividore di Tuccio poteva essere un segno di allegrezza profonda, come era di profondo rancore.
Anch'egli aveva amato Fiordalisa, ma senza speranza, prima che Spinello Spinelli entrasse in bottega di mastro Jacopo e innamorasse la bella figliuola del pittore. Per altro, avrebbe voluto che gliela rubasse un altro; il Buontalenti, per esempio, o il primo venuto tra i cavalieri d'Arezzo. Egli certamente avrebbe odiato il rivale, ma non così fieramente come un compagno d'arte, la cui felicità dovesse stargli sempre davanti agli occhi, quasi un rimprovero alla sua dappocaggine. - Ecco qua (parea dirgli un matrimonio di quella fatta); madonna Fiordalisa, quest'angelo di bellezza doveva toccare in premio ad uno che avesse in petto il sacro fuoco dell'arte; e tu non eri quell'uno. -
Ma che importa, quando si ama (dirà il lettore), che importa che la persona amata vi sia rapita da Caio, anzi che da Sempronio? Importa moltissimo, se all'amore aggiungete l'invidia.